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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
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Writer Officina
Autore: MGL Valentini
Titolo: I cavalieri del Principe Nero - I Roccagelata
Genere Romanzo Storico
Lettori 3469 36 56
I cavalieri del Principe Nero - I Roccagelata
Klagenfurt, 1336
Werner alzò gli occhi dal foglio e posò lo sguardo sul camino dove scoppiettava un fuoco che intiepidiva e donava un tocco di colore alla stanza.
Era primavera ma lì, in mezzo alle montagne austriache, il freddo era ancora pungente quando il sole calava all'orizzonte, le stanze e gli abiti erano pregni di umidità e così le lenzuola quando si andava a dormire; di conseguenza le giunture dolevano e le vecchie ferite di guerra si risvegliavano.
Tuttavia il gelo che Werner avvertiva nelle vene era, se possibile, più intenso, più umano: il suo signore, Alberto II il Saggio, gli concedeva di mandare suo figlio a Graz, dove avrebbe appreso l'arte militare presso un lontano parente.
L'idea di separarsi da Lothar lo angustiava: amava oltremodo quel figlio che tanto gli somigliava e che proprio ora iniziava a farsi grande, indipendente, nonostante i sei anni di età. Quando aveva spedito la lettera ad Alberto II, duca d'Austria e langravio d'Alsazia, con la richiesta di poter far addestrare il figlio presso un cugino a Graz, aveva in cuor suo sperato che il nobile parente negasse la richiesta, così da poter stare più tempo con Lothar e vederlo crescere un altro po'. Invece, la lettera che il messo gli aveva portato, non solo avallava la richiesta, ma lo esortava a farlo nel più breve tempo possibile.
Con un sospiro lasciò cadere l'epistola sul tavolo, si alzò e prese a passeggiare per la stanza, le mani intrecciate dietro la schiena e l'aria pensosa. Ildegarde attendeva la risposta e lui non sapeva come dargliela. Le si sarebbe spezzato il cuore, di questo era certo.
Il fuoco nel camino illuminava in parte lo studiolo privato del conte, proiettando l'ombra di Werner sulle pareti di pietra e lungo il pavimento ricoperto di paglia. Alcuni arazzi abbellivano la stanza, altrimenti spoglia e marziale, mentre sopra il camino faceva bella mostra di sé il ritratto del padre di Werner, dal cipiglio altero e fiero, affisso accanto al ritratto in miniatura del nonno. In un angolo, seminascosto da un tendaggio di pesante velluto, un servo attendeva ordini da parte del suo signore in discreto silenzio per non disturbare.
Dal cortile giungevano i suoni della vita quotidiana che si svolgeva nel castello, alternati allo scoppiettio vivace del fuoco nel camino che faceva danzare le ombre lungo la parete.
Werner si fermò davanti alla finestra e guardò nella piazza d'arme dove c'era tramestio di cavalieri, palafrenieri, bambini, ancelle e animali da cortile e lo sguardo si posò su una capigliatura nera che fuoriusciva da una cuffia rosa. Era Gertrude, la promessa sposa di suo figlio, che si divertiva a giocare a nascondino con Lothar.
E poco più in là, dietro un servo, lo vide mentre correva a nascondersi alla vista della bambina.
Era un piacere vederli mentre ridevano insieme, intenti solo a trastullarsi, pronti a prendere il mondo tra le mani, innocenti e con gli occhi spalancati sulla vita.
Gertrude era la figlia di un suo vassallo, un barone un po' scapestrato che ogni tanto alzava la cresta e si divertiva a complottare alle sue spalle e Werner, quando era nata la piccola, aveva pensato bene di mettere un freno all'ambizione dell'uomo, proponendo un accordo prematrimoniale tra i due ragazzi, da ratificarsi al momento del superamento dell'infanzia.
Nello stesso accordo erano state aggiunte tutte quelle fredde e distaccate clausole politiche che miravano a tenere sotto controllo il ribelle e, dopo che Alberto II aveva dato il suo generoso beneplacito, il trattato era stato infine sottoscritto e ora si attendeva solo che i due ragazzi crescessero per renderlo definitivo.
Con un sospiro Werner tornò alla scrivania, riprendendo in mano l'epistola, dove spiccava l'araldica degli Asburgo, l'aquila bicipite. Era inutile tergiversare: occorreva comunicare la notizia.

~

- Ti ho trovato. -
Quelle semplici parole lo fecero sussultare come se lo avessero colto in fallo; si girò lentamente, sospirando sconfitto. Gertrude lo fissava sorridendo trionfante e lui non poté fare altro che uscire dal nascondiglio e darsi per vinto.
La bambina batté le mani, felice del successo, gli occhi adamantini, e Lothar grugnì qualcosa di incomprensibile in risposta, torreggiando come un avvoltoio pronto a vendicarsi.
- Non ti devi arrabbiare. - lo redarguì lei con arie da gran dama, dimenando il dito come una maestrina, consapevole nonostante l'età del rango che occupava. - Guardati: ti sei nascosto nella stalla e ora sei pieno di fieno e di escrementi. -
Lothar sbatté le palpebre incredulo, perdendo tutte le velleità e abbassò lo sguardo per osservarsi, mentre le guance gli si imporporavano per quello che vide: il vestito, messo pulito solo una settimana prima, era irriconoscibile per quanto era sporco. Con occhi disperati fissò la compagna di giochi.
- Ho combinato un grosso guaio. - ammise, inarcando le sopracciglia.
Gertrude portò le mani sui fianchi e lo studiò da capo a piedi con aria pensosa.
Intorno a loro, racchiusi nei recinti, i cavalli brucavano la paglia con lentezza, masticando con schiocchi prolungati, sbuffando e immergendo il muso nell'abbeveratoio per dissetarsi, mentre gli stallieri, con i forconi, riempivano a mano a mano le greppie con paglia e fieno.
- Sei immondo. E puzzi peggio dello sterco e del piscio di un cavallo. - notò Gertrude.
Lothar divenne paonazzo per l'insulto ricevuto, si irrigidì e uscì dalla stalla a passo sostenuto, scansando le mosche con le mani e maledicendo tutte le donne. Aveva chiesto aiuto per non incorrere nelle ire della balia, la quale l'avrebbe redarguito in malo modo e punito, e l'unico aiuto ricevuto erano stati gli insulti.
Donne! pensò disgustato un attimo prima di venire bloccato per il bavero della blusa.
Dopo un momento di meraviglia, la reazione fu quella di ribellarsi e cantarne quattro allo sfrontato che osava mettere le mani su di lui; ma desistette quando intravide l'ombra imponente del suo mentore che si estendeva nitida per terra.
Tutto intorno alle stalle c'era parecchia gente indaffarata, mentre il sole si abbassava lentamente sulla dorsale alpina, allungando le ombre e ricordando che si stava avvicinando il vespro e, di conseguenza, l'ultima messa. Alcune oche passarono rincorse da un gruppo di bambini ghignanti che si divertivano a lanciare piccole pietre, mentre poco più in là le botteghe si apprestavano a chiudere i battenti per consentire ai commercianti di tornare a casa dopo la lunga giornata di lavoro.
- Signorino, - iniziò l'uomo con tono severo e saccente, - questi giochi sono indegni del vostro rango. Guardatevi: siete... immondo. -
Di nuovo quella parola. Iniziava a odiarla.
- Fareste meglio a rientrare al castello e a prepararvi per la cena. -
- Ma io voglio giocare. - protestò mentre cercava di liberarsi dalla stretta dell'uomo.
- Non è più tempo per i giochi: ora siete grande e come tale vi dovrete comportare, perché il Signore vi guarda e vi giudica. -
In quell'istante sulla porta della stalla apparve Gertrude e l'uomo la fissò accigliato, mentre lei stringeva gli occhi contrariata, comprendendo che il gioco era terminato.
- Ah, siete qui. - constatò il domenicano con tono piatto. - Vostra madre vi attende al castello. -
- Perché? - domandò la bambina avvicinandosi a Lothar ancora nella presa dell'uomo.
- Credo sia giunta l'ora del vostro rientro a Villach. -
Gertrude mise il broncio, incrociò le braccia sul petto e, portando il peso del corpo su una gamba, chiese in tono di sfida:
- L'avete stabilito voi? -
- No, vostra madre. Mi ha mandato a cercarvi affinché vi riconducessi a lei. Il carro è già pronto per la partenza. -
Gli occhi della bambina si inumidirono, le braccia incrociate le tremarono lievemente, ma le sue labbra rimasero serrate e Lothar notò lo sforzo che faceva per non mettersi a piangere.
Da un anno Gertrude viveva con sua madre nel loro castello, da quando erano state sottoscritte le clausole per il matrimonio e Lothar, che all'inizio a mala pena aveva sopportato la sua presenza, alla fine si era reso conto di aver trovato un'ottima compagna di giochi.
Questa improvvisa notizia lo lasciò perplesso e studiò il volto del domenicano per capire se si trattasse di uno scherzo. Ma il cipiglio dell'uomo fugò ogni dubbio.
Con uno strattone si liberò dalla presa; afferrò per mano Gertrude e insieme a lei si diresse verso la posterla, non riuscendo a capire il perché di quella partenza improvvisa.

~

Lothar si inerpicò per le scale fino al camminamento e corse al piombatoio da dove si affacciò per vedere i carri uscire dal castello accompagnati da una scorta di armigeri e da tre cavalieri.
Su uno di quei carri Gertrude piangeva perché aveva dovuto lasciare il suo amico, mentre la madre pensava con angoscia al marito che si era ammalato improvvisamente. Un corriere era giunto da Villach portando con sé la notizia che il suo signore era rientrato da una battuta di caccia con la febbre alta e che aveva richiesto la presenza della moglie e della figlia.
La donna era rimasta terrorizzata all'idea di perdere il marito: lei e Gertrude sarebbero potute rimanere in balia di soldataglia e di cavalieri allo sbando che avrebbero potuto assalire il loro castello per impossessarsene. Il diritto d'arme era una eventualità non remota e loro, malgrado tutto, di nemici ne avevano abbastanza.
Pertanto, fu con angoscia che riprese la strada di casa, chiedendo alla scorta di fare il più presto possibile.
Lothar le seguì con lo sguardo fino a quando superarono l'ultimo muro di cinta e si inoltrarono nei boschi, sparendo dalla vista. E ora? si chiese con tristezza. Con chi giocherò a nascondino?
Lentamente scese dal camminamento, sotto lo sguardo vigile dei soldati di ronda che passeggiavano facendo tintinnare la lorica, e tornò verso la piazza d'arme che i servi stavano illuminando con le torce.
Alcuni bambini vi si aggiravano correndo e ridendo sotto i portici e Lothar rimase a guardarli, invidiandoli. Ai servi non era consentito avere contatti con i nobili; di conseguenza, ora che Gertrude era partita, lui tornava a essere solo, con quel malefico mentore che lo costringeva a passare le ore sui libri.
Un cane si avvicinò per annusarlo e Lothar si ricordò del vestito sporco e delle mosche che gli giravano intorno, attratte dall'odore di urina e sterco.
La notizia che aveva portato via Gertrude lo aveva salvato dalla sgridata, perché tutto era passato in secondo piano, compreso il vestito che aveva sporcato. Il suo futuro suocero gli aveva fatto un gran regalo ammalandosi e solo per questo decise di intercedere presso l'Altissimo e pregarLo affinché lo salvasse.

~

Il sangue gli si gelò nelle vene e sbatté le palpebre più volte, incredulo e atterrito: anche lui doveva partire. Da solo. La sua meta era Graz, dove avrebbe vissuto presso la corte di un parente che neppure conosceva fino a ottenere l'investitura a cavaliere.
Fissò il padre con aria smarrita e su sua madre posò uno sguardo terrorizzato che invocava aiuto.
Ma Ildegarde, nonostante il pallore mortale e le labbra tremanti, rimase rigida sulla sedia, stringendo forte i braccioli, come se avesse accettato l'inevitabile: una nobildonna non avrebbe mai interferito nelle decisioni prese dal padre prima, dal consorte poi.
E se anche le si fosse spezzato il cuore, non avrebbe alzato obiezioni.
Il conte invece pareva più rilassato, in piedi vicino alla scrivania dove si appoggiava con una mano mentre l'altra tamburellava sulla cotta ricamata con fili d'argento, l'aria altera e distaccata del signore feudale. Un'occhiata più attenta, però, fece intuire a Lothar che il padre stava soffrendo.
Ma allora, se nessuno di loro tre gradiva quella separazione, perché doveva andare? Non poteva rimanere lì con loro?
- I tuoi servi stanno già preparando le cose che porterai con te. - annunciò Werner con un lieve tremore delle labbra.
Lothar deglutì e spostò il peso del corpo da un piede all'altro, tradendo l'angoscia e il terrore della separazione.
- Cosa... vuol dire? - domandò flebile. - Che devo partire subito? -
Vide sua madre sussultare e portarsi una mano al petto, mentre suo padre si allontanava di due passi dalla scrivania, spiegando:
- Non subito: dopodomani. -
Lothar chinò mesto la testa, gli parve che il cuore si fermasse, e fissò le scarpette di velluto rosso che calzava, la pietra grigia e la paglia gialla. La luce delle candele e delle torce giocava con la sua ombra, facendola danzare e per un attimo gli parve che solo lei fosse contenta della situazione. Lei e il suo malefico mentore.
L'uomo stava in piedi accanto a suo padre, come un ragno sulla ragnatela, le mani sotto lo scapolare nero e sorrideva ghignante con la consapevolezza dell'essere dominante. Lo odiava. Era un insegnante severo e inflessibile e in più di un'occasione lo aveva punito, frustandogli i palmi delle mani, facendolo quasi piangere per l'umiliazione.
Ma Lothar a sei anni era capace di sopportare ben altri dolori che non degli scappellotti ricevuti per lo scarso impegno che metteva nello studio del catechismo e non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di vederlo in lacrime. A dispetto di quanto pensava il suo mentore, si considerava sufficientemente erudito, molto più dei suoi coetanei, in quanto sapeva scrivere e parlare correttamente il tedesco, il francese, l'inglese, il latino e l'italiano.
Era stato lui che aveva insistito per imparare l'italiano perché ne gradiva molto il suono dolce e perché sua nonna Runhild da giovane era stata alla corte dei della Scala. Inoltre, qualche servo del castello parlava questa lingua quando non voleva farsi capire e lui desiderava comprendere.
Ma anche se doveva al monaco il saper fare di calcolo, l'interpretazione delle scienze, la storia dei popoli, la geografia dei luoghi e la catechesi, ciò nonostante lo odiava. I suoi modi duri e inflessibili glielo avevano reso nemico e se non fosse stato perché si separava dai suoi genitori, sarebbe stato più che contento di partire e lasciare il malefico domenicano.
Al contrario amava il maestro di musica, un cantastorie che viveva al castello e che suo padre aveva preso sotto la sua ala protettrice. Con lui aveva trascorso molte ore di divertimento, suonando la cetra e il liuto, imparando a cantare, ballare e suonare, in un'atmosfera allegra e vivace, così diversa da quella tetra e grave delle lezioni del monaco.
Con il menestrello aveva appreso le gesta di re Artù, aveva iniziato ad amare Lancillotto, Tristano, Parsifal, Galvano e tutti i cavalieri della tavola rotonda; aveva scoperto l'esistenza di un uomo straordinario che aveva conquistato quasi tutto il mondo, Alessandro di Macedonia, e aveva ascoltato rapito le gesta di Achille e degli dei venerati in un tempo remoto.
Aveva imparato a memoria le storie dei paladini di Carlo Magno, del rosso Thor, sognando a occhi aperti di poter un giorno divenire simile a loro e di poter brandire Excalibur o Durlindana o Mjölnir o di possedere Bucefalo.
Distolse lo sguardo dalle scarpe e lo posò sul domenicano.
- Bene. - capitolò, con una fermezza che non sentiva ma che voleva a tutti i costi ostentare. - Visto che la mia partenza è prossima, con il vostro permesso vado a prepararmi. -
A quelle parole Ildegarde inspirò a fondo e chiuse gli occhi, annientata dal dolore. Werner alzò un sopracciglio, non riuscendo a capire quel repentino cambiamento tuttavia approvando il carattere risoluto che dimostrava il figlio.
Lothar rimase ancora un secondo in attesa, nella vana speranza di essere fermato, ma quando vide che nessuno muoveva in suo soccorso, si inchinò e con passo svelto lasciò la sala, sperando di riuscire a trattenere le lacrime ancora per un po'.

~

Tutto era pronto: il carro, i servi e i soldati che l'avrebbero scortato in quel suo primo viaggio. Il cielo era plumbeo e tra non molto avrebbe iniziato a piovere, ma Lothar non vedeva l'ora di lasciare Klagenfurt.
Gli ultimi due giorni erano stati un inferno e tutto quello che desiderava era partire per non vedere più il dolore dipinto sul volto dolce di sua madre.
Il giorno prima suo padre lo aveva istruito sulle prime fondamenta di un cavaliere e gli aveva dato alcuni suggerimenti su come approcciarsi alla lancia. Sua madre, invece, gli aveva ricordato le buone maniere, gli aveva consigliato di assistere ogni mattina alla messa e lo aveva pregato di scriverle spesso, così da non sentire troppo la sua mancanza.
Ora, radunati nella piazza d'arme, sotto gli occhi curiosi dei servi che sbirciavano di nascosto, si stavano salutando e Lothar si chiese se mai li avrebbe rivisti. Per lui, che non era mai uscito dalle mura di cinta della città, quel viaggio rappresentava un'avventura che lo avrebbe condotto nel mondo adulto e che gli avrebbe insegnato a camminare con le proprie gambe.
La sera prima, dopo che il servo lo aveva vestito per la notte, aveva fantasticato a lungo su come sarebbe cambiata la sua vita, immaginando di essere Artù o uno dei suoi fidi cavalieri, Carlo Magno od Orlando, Alessandro o uno dei suoi generali, Wotan o uno dei suoi dei, ed era giunto alla conclusione che la nuova vita non poteva essere peggiore di quella vissuta con il suo mentore.
Anche sua madre lo aveva tranquillizzato, assicurandogli che a Graz avrebbe trovato un'altra famiglia affettuosa e che lo avrebbero trattato bene.
- Fai buon viaggio. - gli augurò Werner schiarendosi la gola, cercando di non far trasparire il dolore che provava.
- Certo, mio signore. - rispose.
Inspirò a fondo, cercando disperatamente di trattenere l'odore familiare di Klagenfurt nelle narici, in modo da poterlo ricordare nei momenti di sconforto che, ne era certo, sarebbero arrivati e neppure tanto tardi.
Ildegarde gli sorrise e si chinò per posargli un bacio sulla fronte, incapace di proferire parola per la commozione. Una delle ancelle le stava a fianco pronta a confortarla e Lothar salì sul carro più sereno, consapevole che sua madre era in buone mani.
Werner si avvicinò ai tendaggi pesanti e ne scostò uno che fungeva da finestra per osservare il figlio prendere posto vicino al servo e al francescano.
- Rendi onore alla tua famiglia. - mormorò.
- Lo farò, mio signore. Sarete fieri di me. - rispose, mentre in lontananza si udiva il rombo di un tuono.
Werner si allontanò, trattenne il respiro e fece un cenno al comandante dei soldati di scorta. Questi alzò un braccio, puntò gli speroni nei fianchi del cavallo e il corteo si mise in marcia.
Lothar, che si era appena seduto sulla panca, al primo scossone si rialzò con gli occhi sgranati e scostò la tendina per vedere ancora una volta i suoi genitori e la sua adorata città.
E continuò a guardare tutto l'insieme con avidità anche dopo aver superato il muro di cinta e il ponte levatoio, mentre le lacrime, stoicamente trattenute per quei due giorni interminabili, scivolavano sulle sue guance paffute.
- Piangete? - domandò uno dei soldati, cavalcando vicino a lui.
Lothar sbatté le palpebre e in quel momento la pioggia iniziò a scendere fitta e intensa, bagnandogli il volto.
- No. - rispose mestamente. - È solo la pioggia. -


Venezia, 1336
Ludovico seguì il canonico lungo i portici del palazzo episcopale portandosi dietro una sacca contenente tutti i suoi averi; non riusciva a capire perché lo richiamassero d'urgenza a casa.
Era giunto una settimana prima e aveva appena iniziato ad ambientarsi in quel nuovo mondo austero e crudele, che subito gli veniva chiesto di ripartire. Non che gli dispiacesse, tutt'altro. Aveva pianto ignominiosamente quando si era dovuto staccare dalla famiglia per seguire la strada del sacerdozio, per lui così tanto saggiamente tracciata da suo padre, e la rigidità di quel luogo tetro gli aveva fatto desiderare di fuggire.
Si era ritrovato a dover condividere le giornate e le notti con altri bambini, già abituati a quel tipo di vita, che gli avevano riservato le peggiori cattiverie, come fargli trovare le lenzuola bagnate di urina poco prima di ritirarsi per la notte. I novizi, tenuti strettamente al laccio durante il giorno, si scatenavano nel momento in cui si ritrovavano fuori dal controllo dei preti, facendosi dispetti a vicenda per puro sadismo.
Lui aveva subito tutte le angherie, piangendo in silenzio, dicendosi che prima o poi si sarebbe abituato e domandandosi, infine, se i suoi genitori lo odiassero per averlo costretto a quella vita.
I soprusi, tuttavia, erano accettabili al confronto della freddezza e della cattiveria dei preti.
Lui, dal temperamento allegro così simile a quello del rubicondo genitore, male si inseriva nella gravità del luogo e dei gesti e spesso, in quella settimana, era stato ripreso e malmenato per aver sorriso o parlato in momenti poco opportuni, ritrovandosi costretto in ginocchio sopra piccoli ciottoli appuntiti che gli avevano ferito le ginocchia.
Una sera, poi, uno dei sacerdoti gli aveva inflitto una violenta frustata sulla schiena come punizione per essersi distratto durante la funzione e il dolore lancinante non l'aveva fatto dormire per tutta la notte. Il lungo segno rosso gli faceva ancora male, tanto che non sopportava il contatto con gli abiti che indossava. Ma quello che più gli doleva era la consapevolezza che il segno sulla carne sarebbe passato, quello lasciato nel suo spirito sarebbe rimasto indelebile.
Ora, all'improvviso, sembrava che Dio avesse udito le sue preghiere e avesse esaudito il suo desiderio.
Pertanto seguì il canonico con il sorriso sulle labbra, felice di rivedere sua madre e di allontanarsi per un po' da quel mondo a lui ostile, consapevole che prima o poi la giustizia divina l'avrebbe colpito per questa fuga dal destino.
Superato il chiostro, dove un gruppo di colombe si alzarono in volo al loro passaggio e dove alcuni novizi leggevano il breviario, si avviarono verso il portone. Quando due soldati di guardia lo aprirono, Ludovico riconobbe, fermo al margine della strada, il carro di famiglia che attendeva con il cocchiere a cassetta.
Tutto felice alzò la tendina e guardò all'interno: sua madre gli sorrise appena e lui impallidì quando si accorse che era in gramaglie. Seduto di fronte a lei c'era il vescovo, consigliere spirituale di famiglia, con l'aria annoiata e contrariata da quel viaggio.
Ecco: la punizione divina non si era fatta attendere a lungo.
La donna si affacciò e fece un cenno di saluto al canonico che ricambiò con freddezza e rientrò nel palazzo apostolico.
Del tutto indifferente al portone che si chiudeva alle sue spalle e che chiudeva anche un capitolo della sua vita, Ludovico rimase a fissare la madre con un certo timore, non avendola mai vista così scossa e stravolta.
Lei gli fece cenno di salire e lui ubbidì esitante, salutando il prelato con un mezzo inchino. All'improvviso gli parve di vivere in un mondo irreale, dove tutto quello che aveva appreso in sei anni era svanito per lasciar posto a qualcosa di incomprensibile.
Con timore reverenziale si mise seduto e rimase a fissare il prelato di fronte a sé, una muta domanda negli occhi che non ottenne risposta.
Quando il carro si mise in moto, Eleonora prese il figlio tra le braccia e lo strinse forte, iniziando a piangere in un modo così disperato che Ludovico si spaventò.
- Cosa... cosa è accaduto? - balbettò, cercando di sottrarsi alla stretta che lo soffocava e che risvegliava il dolore per la frustata sulla schiena.
- Oh, Ludovico! Una disgrazia immane! Il Signore... Il Signore ci ha colpiti... duramente, senza pietà. - singhiozzò la donna.
- Ma... cosa... -
- Dovete essere forte, figliolo. - interloquì il vescovo con cinismo, fissandosi le mani guantate mentre rigirava il grosso anello d'oro all'anulare.
Ludovico esitò. Fissò la madre che cercava di ricomporsi asciugandosi gli occhi con l'orlo del vestito, e attese paziente. Gli parve trascorso un secolo prima di sentirla sussurrare:
- Il Signore si è voluto riprendere tuo fratello. -
Ludovico sgranò gli occhi non riuscendo bene a capire cosa la madre volesse intendere e spostò lo sguardo dalla donna al vescovo e di nuovo alla madre. Una settimana prima aveva lasciato il fratello in salute mentre si addestrava per divenire un ottimo ammiraglio di vascello agli ordini di suo zio, Pietro Zen.
- Cos'è accaduto? -
Eleonora si soffiò il naso con il bordo della gonna e cercò di sistemare il soggolo, deglutendo per sciogliere il nodo che aveva in gola. Il suo rango non le permetteva simili scenate e il freddo distacco del vescovo era lì a ricordarlo. Il dolore era una cosa privata, da liberare nella solitudine della propria camera e, pertanto, ora doveva recuperare il contegno che si addiceva a una nobildonna.
- Quello che è accaduto lo sa solo il Signore Iddio. - iniziò facendosi il segno della croce. - Eravamo così felici... Sia fatta la Sua volontà. Tuo fratello è stato... ripescato nella laguna, privo di vita... Un marinaio dice di averlo visto cadere in acqua e che è... annegato per colpa dell'armatura. Oh, mio Dio! - esclamò sopraffatta dal dolore, riprendendo a singhiozzare.
Il vescovo fece una smorfia e Ludovico rimase impietrito non riuscendo ad afferrare in pieno il significato di quelle parole. Capiva solo che stava tornando a casa e che non vi avrebbe più trovato suo fratello.
- Il volere del Signore racchiude sempre un disegno maggiore di quello che noi, miseri mortali, riusciamo a comprendere. - intervenne il vescovo catturando la sua attenzione. - In attesa di capire, ci rimane solo pregare per la salvezza dell'anima di vostro fratello, che Iddio lo abbia in gloria, nella speranza che un domani il Signore, nella Sua munificenza, nella Sua grandezza, nella Sua bontà, voglia ricongiungerci e donarci una pace meritevole in attesa della resurrezione. -
Ludovico deglutì e si fece il segno della croce, non sapendo cosa pensare. Lentamente si girò verso la tendina e l'aprì per guardare fuori, inspirando a pieni polmoni l'odore salmastro della città lagunare.
Tornava a casa e per lui solo questo contava.

~

Ludovico fissò il padre che stava serio e grave come se un macigno gli fosse piombato all'improvviso sul collo, stroncandolo nel fiore degli anni. Non sembrava più lui, quello di solo una settimana prima, giocondo e ilare, tanto era invecchiato nel giro di sette giorni.
- Perché? - chiese.
Francesco inspirò a fondo e si grattò la cute infestata dai pidocchi rispondendo senza neppure guardarlo in faccia:
- Perché a Padova vive un mio cugino che vi insegnerà l'arte delle armi e farà di voi un cavaliere. -
- Ma io devo... -
- A questo punto, - lo interruppe con un tono che Ludovico non riconobbe, - per cause di forza maggiore non intraprenderete più la carriera ecclesiastica. Ma non ripeterò l'errore fatto con vostro fratello: per voi sarà la terra al posto del mare. Lì non rischierete di annegare perché l'usbergo vi pesa come un macigno. -
Ludovico sbatté le palpebre e aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse, consapevole che non avrebbe potuto cambiare la decisione paterna.
Sospirò guardando il cielo che si intravedeva dalla bifora, seguendo l'impercettibile movimento delle nubi candide come fiocchi di neve. Non voleva andare a Padova. Aveva avuto la fortuna di tornare a casa e non voleva ripartire. Lì tutto gli era familiare e, cosa quanto mai gradita, sua madre l'aveva riempito di coccole come mai prima.
- Il seminario... -
- Diventerete un cavaliere, questo è già deciso. - sentenziò Francesco alzando finalmente lo sguardo su di lui.
Quella risposta lo fece irrigidire e rimase come trafitto da un dardo.
Per sei anni era cresciuto nella consapevolezza di dover divenire un prete, breviario in mano, alimentando la vita e non di dover brandire una spada e stroncare la vita. E tutto questo perché suo fratello era morto. Perché? si domandò per l'ennesima volta.
- E... quando dovrò partire? - s'informò tornando a guardare serio suo padre seduto alla scrivania.
Francesco sospirò e, alzando le spalle, quasi con noncuranza rispose:
- Per l'Ascensione. -
- Ma è tra due giorni! - esclamò sbalordito e terrorizzato.
- Sì, esattamente tra due giorni. - ribatté Francesco, con uno sguardo e un tono che non ammettevano repliche.
Ludovico avvertì un brivido corrergli lungo la schiena e rimase un attimo a occhi sgranati, le labbra tremanti, le lacrime a stento trattenute. Suo padre, il conte Zen, sempre spensierato e gioioso, era diventato un altro uomo, uno sconosciuto che nel giro di una settimana aveva preso il posto del vecchio conte che lui aveva imparato, se non ad amare, a rispettare.
- Mia... madre lo sa? - s'informò timidamente.
- Sì. -
Il nodo in gola si fece più grosso e quando non resistette più si inchinò al padre e uscì con tutta la dignità di cui era capace prima di scoppiare a piangere.
MGL Valentini
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