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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Claudio Rossini
Titolo: La Parker rossa nel taschino
Genere Noir Grottesco
Lettori 3541 134 60
La Parker rossa nel taschino
Questa è una storia nera che prova a raccontare l'animo umano. È ambientata nella Genova di Fabrizio De André e di Don Gallo.
Il grande e moderno Palazzo della Finanza — esistente solo nella fantasia dell'autore — è situato alla Foce, proprio il quartiere dove nella realtà è nato il grande cantautore genovese. Poi ci sono i vicoli del centro storico — girando tra i quali si percepiscono degrado, crisi economiche e disagi sociali del nostro tempo — che nascondono un'umanità autentica, non filtrata da perbenismo e ipocrisia: le prostitute esistono, come i papponi, gli spacciatori e i tossicodipendenti, i malviventi e gli emarginati. Autentici sono anche i problemi del vivere quotidiano che ci affliggono solo quando ci riguardano direttamente; quelli del vicino di casa o quelli del nostro collega di lavoro, per esempio, non li consideriamo o forse non pensiamo che possano essere più importanti e più grandi dei nostri. A volte basterebbe proprio poco: un po' di attenzione, una parola di conforto, e invece no...
E poi ci sono i cinghiali. A volte li vedi che vagano incredibilmente per le strade della città. In questa storia ci sono anche loro, con i loro cuccioli. E forse, mettendo bene a fuoco anche il loro punto di vista potremmo perfino, inaspettatamente, imparare qualcosa.

PARTE PRIMA
I
IL PROGETTO
Egidio ormai aveva deciso. Doveva assolutamente fare quella cosa. Gli rimaneva solo da mettere a fuoco i dettagli e pianificare il tutto nel miglior modo possibile. Aveva due opzioni differenti e doveva ancora scegliere tra le due, ma la decisione era presa. Avrebbe ucciso quella persona spregevole pur sapendo che, in un modo o nell'altro, anche la sua stessa vita con quel gesto sarebbe finita. Era il prezzo che doveva pagare per realizzare quello che al momento era il suo desiderio più grande, ma lo avrebbe pagato volentieri e senza alcun rimpianto. Sarebbe stato un gesto liberatorio ed eclatante. Tutte le sue frustrazioni, accumulate nel tempo, avrebbero finalmente avuto fine. La prima opzione al momento era quella preferita mentre la seconda era più eccitante: una era una soluzione pulita e meno rischiosa, mentre nell'altra ci sarebbe stato da “sporcarsi le mani” e l'esito di tutta la faccenda sarebbe stato un po' più imprevedibile e indefinito, ma proprio per questo più adrenalinico e affascinante.
II
LO SQUALO “BASTARDO”
Tutto era iniziato qualche mese prima con l'arrivo, nei nuovi uffici dell'Agenzia delle Entrate, ubicati nel Palazzo della Finanza della Nuova Fiera del Mare di Genova — proprio dove una volta c'era il vecchio Palasport — di un nuovo dirigente che si era poi rivelato un autentico concentrato di cattiveria, talmente odioso da guadagnarsi presto il soprannome di “bastardo”.
L'edificio era stato costruito con tecniche moderne e particolari caratteristiche architettoniche: il lato sud, che dava completamente sul mare era fatto per il novanta per cento di vetrate. Proprio da quel lato, avevano trovato sede i più importanti uffici Finanziari della città di Genova. Praticamente da dentro l'ufficio, guardando fuori, vedevi davanti a te una grande distesa marina e nelle giornate limpide, in fondo all'orizzonte, riuscivi a vedere perfino la Corsica. La splendida vista comprendeva il girovagare per aria dei gabbiani che volteggiavano in gruppo, a coppie o solitari, lasciandosi ogni tanto trasportare dal vento nelle giornate di tramontana. Poi imbarcazioni di ogni misura, dai grandi traghetti con le loro scie spumeggianti ai piccoli pescherecci, oppure ancora aerei, prossimi all'atterraggio nel vicino aeroporto “Cristoforo Colombo”. Nelle giornate di burrasca, invece, potevi vedere il mare increspato, le mareggiate, i fulmini e le saette da una posizione privilegiata. In ogni caso, avevi di fronte uno scenario mozzafiato, in un sito prestigioso ed incantevole. Visto il luogo particolare, ci poteva e doveva quindi stare, secondo gli strateghi del Ministero dell' Economia e delle Finanze, anche una Sezione dell'Agenzia. Il messaggio forse era che i grandi imprenditori che avevano uffici operativi o di rappresentanza in quello stesso palazzo, autentici benefattori dell'umanità che producevano ricchezza e lavoro, potessero così pagare agevolmente tutte le tasse che dovevano all'erario, avendo l'Agenzia delle Entrate come amabile coinquilina. Beh...Insomma. In realtà, le cose non stavano proprio esattamente così. Tra di essi l'evasione fiscale era abbastanza diffusa e chissà, forse la corruzione poteva anche essersi infiltrata. Quel che è certo è che a essere più tartassati erano come al solito i più disgraziati, magari piccoli imprenditori o padri di famiglia in difficoltà, soprattutto se capitavano sotto le grinfie di certi funzionari. Per fortuna molti di questi erano equilibrati, responsabili e svolgevano il loro lavoro nel miglior modo possibile, ma nel mazzo ce n'erano alcuni che erano assimilabili a squali famelici... Proprio uno degli squali peggiori tra quelli che perpetravano quel genere di attività era il Dott. Mario Alcioni, uno degli ultimi arrivati ad arricchire le “Risorse Umane Aziendali” — così era stato presentato dal Direttore — che era in realtà un soggetto totalmente negativo e che avrebbe causato molti problemi.
Figlio di un ex gerarca fascista e cresciuto in un contesto educativo molto rigido, aveva studiato economia e si era specializzato con un Master negli Stati Uniti. Al suo rientro in Italia aveva fatto una discreta carriera, ma la caratteristica per cui si era contraddistinto nel mondo del lavoro era la cattiveria — per la quale era evidentemente predisposto per natura — tanto che quando era stato ingaggiato dal Ministero ed era arrivato in Agenzia, la sua fama l'aveva preceduto. Per non smentirla aveva iniziato fin da subito a tartassare e ad elargire sanzioni in maniera indiscriminata alla malcapitata utenza che finiva sotto le sue attenzioni e questo lo faceva con un accanimento perverso e fuori luogo per il ruolo che ricopriva. Le giornate di lavoro, in sua presenza, erano da subito diventate pesanti e insopportabili per tutti gli altri dipendenti dell'ufficio ed in modo particolare per Egidio. Partendo dalla sua superiorità gerarchica e quindi da una posizione di maggior potere e influenza, lo aveva sottomesso con pochissimi riguardi per la sua maggiore anzianità e relegato ad una condizione di lavoro umiliante. Lui che già era frustrato di suo per la sua situazione familiare, non riusciva proprio a gestire le richieste e le pretese assillanti e ingiustificate di quella sgradevole persona. Veniva per questo ripreso e continuamente deriso anche davanti agli altri e questo era inaccettabile.
Per delineare meglio chi era il bastardo è sufficiente raccontare un episodio: nulla di meglio per spiegare quanto fosse una carogna e quanto Egidio patisse la sua presenza. Una mattina, con quella sua decisa aria da capo supremo delle Forze Armate degli Stati Uniti d'America, lo aveva chiamato per affidargli un compito tanto odioso quanto improponibile. Era un momento in cui erano soli in ufficio e non c'erano altri colleghi presenti. Gli diede in mano un raccoglitore con delle pratiche. L'etichetta parlava chiaro: “INSOLVENTI - Non recuperabili”. Gli disse con tono che non ammetteva repliche: - Raspi visto che oggi pomeriggio lei esce alle cinque, chiami questi pezzenti e chieda come intendono ripianare i loro fottuti debiti - . Una richiesta raggelante, malevola e formulata in modo bieco e volgare. Si trattava di casi di persone disperate che erano già stati praticamente accantonati e dichiarati irresolubili. Ora quel “senza mamma” di Alcioni pretendeva che lui andasse a molestare quei poveri disgraziati, solo perché era un maledetto sadico, e andasse nuovamente a chiedere di pagare quando già era stato accertato che non ne erano in grado. Alcuni di loro, tra l'altro, nel frattempo si erano già suicidati...
Appena il giorno dopo, come se si aspettasse un riscontro immediato, gli chiese subito conto di quanti casi avesse risolto. Gli rispose che, dopo aver riesaminato tutte le pratiche che erano state peraltro precedentemente già valutate e chiuse, non aveva ravvisato nessuna possibilità di recupero dei crediti insoluti e che aveva inviato il raccoglitore definitivamente all'Archivio Centrale, condividendo questa decisione con il direttore. Alcioni a quel punto rimase sorpreso e lo guardò torvo, per alcuni lunghi momenti, poi non disse nulla e cambiò discorso come se nulla fosse. La cosa però segnò Egidio Raspi e anche Alcioni ed i rapporti tra di loro furono irrimediabilmente compromessi. Era evidente che il bastardo gli aveva assegnato quell'incarico per provocarlo e lo aveva preso evidentemente di mira, ma nella mente di Egidio era altrettanto chiaro che presto avrebbe smesso di importunarlo.

III
MARIO ALCIONI
Arrivato dalla Sede Centrale di Roma, da dove lo avevano lasciato partire senza rimpianti, Mario Alcioni si rese subito conto della realtà lavorativa che aveva trovato: un'accozzaglia di impiegati incapaci, secondo lui, ed un ingiustificato lassismo che pervadeva tutte le attività dell'ufficio. Era certo di riuscire in poco tempo a ristabilire la situazione secondo i suoi parametri e di permeare al suo volere e ai suoi ordini tutta la sezione di cui era diventato fresco dirigente. Aziendalista convinto, aveva conseguito un Master a Boston, nel Massachusetts ed era pluri-qualificato e determinato ad assumersi sulle sue spalle la mission dell'Azienda per cui lavorava. Dalla strategia da lui adottata — che prevedeva in pratica “rigore e sangue” dei suoi subalterni — voleva peraltro ottenere dei riscontri immediati. C'erano alcuni elementi che aveva notato subito nel tentativo di capire quali fossero i più carismatici, i cosiddetti leader dell'ufficio. Li doveva mettere in condizione di non nuocere al fine di raggiungere i suoi scopi. In particolare, si era concentrato su quell' Egidio Raspi. Sembrava essere come un riferimento cardine per tutti i dipendenti dell'ufficio. C'era perfino una segretaria che lo adorava proprio, come fosse una specie di sua aspirante concubina! Tutti si rivolgevano a lui come fosse un esperto di tutto e lui era sempre elegante e teneva un comportamento signorile con chiunque. Generoso e altruista, Raspi dispensava pure consigli e suggerimenti, secondo il parere di Alcioni non al passo con i tempi, in modo da sistemare o accomodare le varie pratiche nel miglior modo possibile. Che antico sistema di lavoro! Tutto sembrava quasi ruotare intorno a quella specie di damerino ed al suo buonismo ingiustificato. Ci sarebbero voluti invece sistemi più moderni. Bisognava essere più duri e intransigenti, come lui, ad esempio. Alcioni aveva studiato e approfondito certe tematiche che riguardavano i gruppi di lavoro, la leadership, come far rendere al massimo i propri subalterni, come migliorare le performances dei dipendenti e cose di questo tipo. Aveva frequentato vari corsi per tutto ciò ed ora si trovava nel posto giusto, con tanto lavoro da fare e probabili resistenze da piegare. I sindacati, ad esempio, gli erano sempre sembrati come una manifestazione estrema degna del comunismo più becero e si sarebbero opposti ai modelli organizzativi da lui proposti. Insomma, ma quali diritti! I lavoratori dovevano lavorare e basta. Dovevano soprattutto rispettare le gerarchie, senza creare problemi a loro che erano la classe dirigente ed avevano il dovere di vigilare sulla loro efficienza ed intervenire quando necessario, comminando sanzioni amministrative, con rapporti ai superiori, diminuzioni di stipendio se necessarie e licenziamenti quando le mancanze fossero gravi e reiterate.
Tutto questo suo delirio era esacerbato da quello che aveva notato già dai primi giorni dal suo arrivo in agenzia: alcune pratiche erano lasciate a decantare stazionando da tempo immemorabile sulle scrivanie, telefonate lunghe oltre misura, pause ingiustificate, discorsi intorno alla macchinetta del caffè ed altre forme di pseudo-assenteismo di questo tipo che lui assolutamente non tollerava e che avrebbe stroncato in breve tempo. Tornando a Raspi, annientarlo sarebbe stato il primo obiettivo da centrare e non sarebbe stato difficile. Si sarebbe dunque impegnato più a fondo per minarne la credibilità e la leadership.
E poi c'era un'altra cosa che proprio non gli andava giù: qualcuno gli aveva detto che Raspi aveva una bellissima moglie. Incuriosito, aveva verificato. Effettivamente si trattava di una “strafiga” da paura. Non trovava altri aggettivi per definirla. E sembrava molto più giovane di lui. Ma come era possibile? Lui per togliersi certe voglie doveva pagare delle costose escort e per contro quell'essere insignificante aveva invece una moglie mozzafiato a disposizione ventiquattrore su ventiquattro. Di questo proprio non si capacitava. Fu così che prese anche ad invidiarlo e odiarlo. Da lì al perseguitarlo il passo era poi stato breve. Lo prese proprio di mira per portarlo allo sfinimento. Non c'era in realtà alcuna giustificazione per tutta quella invidia e per quell'odio, perché ciascuno ha il diritto di aspirare al proprio benessere e alla propria felicità, ma questo diritto non deve sconfinare nella cattiveria quando non riesci ad ottenere quello che vuoi e devi constatare che, invece, altri ci riescono. Ma la natura umana di Alcioni quella era. Un po' come quando, follemente, imboccando un'autostrada contromano l'automobilista va avanti comunque almeno fino alla prima uscita, così anche Alcioni sarebbe andato avanti fino a perseguire il suo scopo, ovvero finché la sua malvagità non avesse avuto sfogo. Senza contare che il povero Egidio aveva già i suoi problemi. Ed erano problemi seri.
IV
EGIDIO RASPI
Egidio Raspi era un uomo buono. Aveva modi garbati, era raffinato nei rapporti interpersonali ed era un apprezzato lavoratore. Aveva sempre tenuto un comportamento irreprensibile e non aveva, fino a qualche mese prima, dato segnali che potessero far prevedere l'evolversi della sua personalità e tantomeno lo stravolgimento degli eventi e l'epilogo della sua vicenda, così come si sarebbero sviluppati in seguito ed in quel modo così assurdo. Ultimamente era sembrato a volte un po' assente, quello sì. Era sovrastato da preoccupazioni e dispiaceri ed ora ci mancava pure Alcioni.
La moglie lo aveva malamente lasciato solo. Margherita Cattaneo, di nove anni più giovane che sembravano perfino di più, aveva abbandonato il tetto coniugale in maniera traumatica. Lo aveva più volte tradito e come se non bastasse si era fatta pure cogliere sul fatto dal marito. Arrabbiato, umiliato e frustrato, lui aveva provato a farla ragionare: - Margherita hai solo bisogno di una pausa - . Oppure: - Stai con me. Cerchiamo di salvare il matrimonio... - .
Ma era tutto inutile. Lei era uno spirito libero, non ne voleva più sapere di lui e non voleva più vivere con un uomo che sarebbe diventato presto anziano. Aveva altre idee ed ambizioni. Aveva colto la palla al balzo e l'ultima crisi — ma sarebbe più corretto dire l'ultimo adulterio — si era risolta con l'abbandono e la fuga con l'ennesimo amante che era tra l'altro un uomo palestrato grosso come un armadio e soprattutto, un violento energumeno. Aveva quegli atteggiamenti da mezzo camorrista che ricordavano i protagonisti di “Gomorra”, la popolare serie Tv. Anzi, per dirla tutta, assomigliava un po' a Gennaro Savastano. Per nulla il tipo quindi con cui si potesse fare una discussione o delle rimostranze o dei ragionamenti di qualunque tipo. Ed infatti, l'unica volta che ci provò prese pure delle botte. Se la cavò con un occhio nero, la rottura di una costola, degli occhiali e qualche lieve ematoma. A quel punto Egidio aveva omologato quel tentativo come unico e irripetibile, malgrado lo stesso pseudo “Genny” lo avesse soltanto un po' maltrattato e spaventato ma senza neanche infierire. Si sentiva inadeguato e non in grado di competere con quella tipologia di persone: alla bella moglie e al suo matrimonio aveva così egli stesso praticamente rinunciato, mettendoci una pietra sopra. Anche se nonostante tutto le voleva ancora bene.
Per di più lui doveva accudire l'anziana madre malata. I Servizi domiciliari erano quasi inesistenti e tutto gravava sulle sue spalle. E tutta la situazione pesava su di lui come un macigno. Nel giro di poco tempo si era ritrovato senza una moglie e badante — oltre che figlio disperato — della madre anziana e mezza moribonda. Diabete, demenza senile, Alzheimer ed altro ancora ed in pratica la vita di sua mamma e la sua erano diventate un inferno. La sua situazione familiare e quella dell'ufficio si erano quindi trovate presto a scontrarsi in un insano ed insanabile conflitto, impossibile da sopportare. Lui stesso, pur mantenendo apparentemente una certa lucidità si sentiva in confusione: non sapeva neanche decidere se stesse peggio in ufficio o a casa... Ed allora aveva deciso di farla finita, con un gesto liberatorio che ponesse fine a quelle sofferenze, ma che gli desse anche un po' di meritata soddisfazione. Voleva avere anche una specie di rivalsa o meglio, di vendetta ed era determinato a perseguirla. Voleva fagliela pagare ad Alcioni, per le angherie e i comportamenti irriguardosi nei suoi confronti. In fin dei conti era veramente stufo di subire sempre ogni sorta di cattiveria e di subire supinamente tutte le avversità della vita senza reagire. Non aveva mai preso una multa in vita sua, neanche per un banale divieto di sosta. Si era sempre rapportato bene con il prossimo. Aveva sempre rispettato tutte le regole di buona educazione. Sapeva quindi stare insieme agli altri e cosa aveva ottenuto dalla vita? Beh! Ultimamente era rimasto coinvolto in un vortice di sfiga interminabile ed in più era entrato prepotentemente nella sua vita il “bastardone”. No, basta. Non poteva più tollerare oltre tutta quella mancanza di riguardo. Intendeva uscire da quella situazione senza sbocchi che era diventata la sua esistenza, ma quel vile soggetto non poteva passarla liscia, quello senz'altro no! In fondo la sua sarebbe poi stata l'ennesima buona azione, l'ennesimo atto d'amore per la vita e per il prossimo: avrebbe liberato il resto dell'umanità dalla presenza di quell'essere malvagio e per questo avrebbe forse trovato un posticino non si dice in paradiso, ma forse almeno in purgatorio sì.
“...Signori benpensanti
Spero non vi dispiaccia
Se in cielo, in mezzo ai Santi
Dio, fra le sue braccia
Soffocherà il singhiozzo
Di quelle labbra smorte
Che all'odio e all'ignoranza
Preferirono la morte
Dio di misericordia
Il tuo bel Paradiso
L'hai fatto soprattutto
Per chi non ha sorriso
Per quelli che han vissuto
Con la coscienza pura
L'inferno esiste solo
Per chi ne ha paura...”

Fabrizio De André, “Preghiera in Gennaio”, 1967.
Singolo Preghiera in Gennaio/Si chiamava Gesù

E tirando le somme, anche nel caso che avesse dovuto scontare il peccato del suo suicidio, di una cosa Egidio era certo: per quel suo gesto eroico, come premio, come minimo non sarebbe finito all'inferno.



V
ASSUNTA TARCHI
Assunta Tarchi era entrata a lavorare in Agenzia insieme a Egidio Raspi. Stesso concorso, stessa data di assunzione, aveva condiviso con lui, casualmente o forse no, l'intero percorso della carriera. Era bruttina, piccolina di statura e portava degli occhialini rotondi. Aveva una vocina sottile come la sua figura e si muoveva con piccoli passi così meccanici e rapidi che sembrava un automa in firmato tascabile. Per il fatto che era rimasta zitella e per quel suo vocino così particolare la chiamavano “la signorina”. Era la classica segretaria d'ufficio come quelle di una volta: una dattilografa veloce ed efficiente. Non completamente “informatizzata”, si era comunque in qualche modo adattata all'utilizzo delle nuove tecnologie. Il suo lavoro lo faceva più che onestamente e con decoro. Ogni tanto preparava personalmente delle ciambelle dolci fatte in casa per i colleghi che erano molto apprezzate. L'unico che sembrava non gradirle, non si sa perché, era Alcioni.
Assunta aveva una arrovellante problematica personale che non la rendeva felice, ma anzi un po' frustrata e nervosa: era perdutamente innamorata di Egidio Raspi. Alla follia. Lei lo adorava segretamente da quando lo aveva conosciuto e per lui avrebbe fatto qualunque cosa. In realtà si trattava di un segreto di Pulcinella: tutti se ne erano accorti. Lui invece le era affezionato come ad una sorella.
Assuntina, così la chiamava affettuosamente Egidio, sapeva che il suo era un amore senza speranza. Lui aveva sposato quella giovane donna — assolutamente troppo giovane per lui — che l'avrebbe sicuramente fatto soffrire e questo non se lo meritava. Aveva perfino dovuto fare da testimone al loro matrimonio: una partecipazione diretta alla cerimonia che per lei era stata devastante e che le aveva provocato ulteriore sofferenza, ma non aveva saputo dire di no alla richiesta di Egidio, che sembrava ci tenesse in modo particolare. In ogni modo su quella avvenente moglie erano pure iniziate a circolare delle voci che la davano come una grande infedele. Assuntina da una parte era veramente triste, perché, come aveva previsto, lui ne avrebbe sofferto. Forse però, d'altro canto, avrebbe potuto avere di nuovo qualche speranza.
Anche se il suo amore per Egidio non era corrisposto, i due però si proteggevano a vicenda, specialmente dai soprusi e dalle angherie di Alcioni, per le quali avevano fatto fronte comune. Un giorno lei arrivò perfino a togliersi un capriccio particolare. Riuscì a mettere delle gocce di Guttalax nel caffè di Alcioni e trasse una soddisfazione enorme quando fu preso da attacchi di dissenteria che lo costrinsero a starsene a casa per tre giorni. Quella era la routine quotidiana nell'ufficio: Alcioni sfogava sui malcapitati subalterni le sue cattiverie e le sue frustrazioni. Raspi cercava di difendersi come meglio poteva e di proteggere anche Assuntina. Lei faceva lo stesso e in automatico parava le spalle di Egidio, ma pativa la situazione perché aveva notato che da quando era arrivato Alcioni non si faceva più vita, il clima era sempre teso e le giornate erano diventate interminabili. Si stava bene solamente quando quella belva era assente, come prima del suo arrivo. Assuntina pensava spesso ai festeggiamenti che dovevano aver messo in atto nell'ufficio di provenienza di Alcioni, appena avevano saputo del suo trasferimento. Si erano liberati della sua malevola presenza e l'avevano affibbiata a loro, lì a Genova, dove per contro ne avrebbero volentieri fatto a meno.
Il giorno dopo la somministrazione del “prodotto contro la stitichezza occasionale” ad Alcioni, Assunta incontrò Egidio nel corridoio ed ebbe con lui un'affettuosa conversazione: - Come ti senti Egidio? - gli chiese guardandolo con occhi amorevoli e preoccupati, - hai l'aria molto stanca... -
- Abbastanza bene, dai - le rispose, - più che altro sono un po' preoccupato per mia mamma. Il dottore è andato in ferie e non mi risponde neppure la segretaria. Credo ci sia bisogno di rinnovare il piano terapeutico. Non vorrei arrivare troppo vicino alla scadenza e rimanere senza aghi, strisce. Sai Assuntina, tutto quello che serve per fare l'insulina e misurare la glicemia Alla ASL sono piuttosto rigidi. Se almeno mi rispondessero ai messaggi... - .
- Se vuoi più tardi provo io Egidio, se riesco a parlargli gli dico di ricontattarti, va bene? - .
- Grazie, Assuntina - . Lei cercava di rendersi almeno utile come poteva, ma ai suoi occhi era invisibile. Le voleva bene sì, ma era solo un affetto fraterno. Questo lei lo comprendeva ma cercava in qualunque maniera di stargli vicino, di essere al suo fianco e gli faceva capire in tutti in modo che lei, per lui, ci sarebbe sempre stata. Avrebbe sicuramente voluto di più ma doveva farsi bastare quei piccoli privilegi che lui le concedeva: le voleva bene e le parlava con affetto sincero. Quello era il massimo che poteva darle.
Poi gli disse con uno strano malizioso sorriso: - Sai oggi quella bestia di Alcioni non viene. Non sta bene - .
- Cosa gli è preso, ha l'influenza? -
- No, pare gli sia venuto un brutto mal di pancia. Probabilmente ha mangiato o bevuto qualcosa che gli ha fatto male. Ne avrà almeno per qualche giorno, credo - , ribadì con un mezzo sorriso soddisfatto. Lui non capì che era stata lei, ma rispose a sua volta con un sorriso e se ne tornarono alle loro scrivanie.

VI
IL DIRETTORE
Il direttore della VI Sezione dell'Agenzia delle Entrate di Genova — che era una persona integerrima ed un rispettoso e stimato manager — non sapeva più che pesci prendere. Gli era caduta addosso una tegola di quelle grosse: da Roma era arrivato Mario Alcioni, il più famigerato ed improponibile dei nuovi funzionari assunti dal Ministero e la situazione della sezione che dirigeva si era piuttosto complicata. Aveva difficoltà a gestire il personale che, a sua volta, non era per nulla sereno. Erano state sufficienti poche settimane ed Egidio Raspi — il più significativo per leadership e conoscenze professionali tra i suoi dipendenti, che già aveva i suoi problemi — sembrava ormai l'ombra di se stesso. La Tarchi era stata vista un paio di volte piagnucolare: sembrava disperata e inconsolabile. Alcioni stesso era nervoso. Cosa avrebbe potuto fare per migliorare la situazione? Nulla. Non poteva fare nulla. Aveva le mani legate. Gli era venuta in mente soltanto l'iniziativa di richiamare separatamente Alcioni e Raspi. E così fece, chiedendo al primo di essere un po' più elastico e di avere pazienza se tutto non andava come lui avrebbe voluto. Gli disse anche che avrebbe raccomandato a Raspi di collaborare con il nuovo corso e di stare tranquillo che le cose sarebbero migliorate. Al Raspi raccomandò invece di non raccogliere provocazioni, che forse Alcioni era solo in transito perché era un personaggio che smaniava di fare carriera e che se avesse chiesto un nuovo trasferimento lui stesso avrebbe senz'altro agevolato la sua partenza. Durante il colloquio con Raspi aveva notato che aveva un'espressione strana, ma già sapeva anche che era assorto da altri pensieri e preoccupazioni. Lo avvertiva in quel momento così distante che pensò fosse anche dovuto al rincoglionimento naturale dell'età che avanza e rifletté anche sul fatto che erano coetanei e chissà, magari stava invecchiando e rincoglionendo pure lui. A lui interessava più che altro che il lavoro, in quell'ufficio che dirigeva, scorresse nel miglior modo possibile ed una buona armonia tra il personale era almeno auspicabile, se non fondamentale. Pensò perfino di proporre lui stesso ad Alcioni di chiedere un nuovo trasferimento a Milano, dove avrebbe potuto esprimere tutto il suo potenziale in un ambiente un po' più dinamico, più disposto a recepire le innovazioni che sarebbe stato in grado di apportare. Doveva solo trovare il momento giusto per imbeccarlo. Convocò anche la “signorina” Tarchi per cercare di capire meglio cosa stesse succedendo nell'ufficio dall'arrivo di Alcioni.
- Quell'uomo è un mostro! - Si sfogò subito lei. - Tratta il sig. Egidio senza il minimo rispetto. Non ho mai riscontrato così tanta cattiveria concentrata in un solo essere umano! - . Lui cercò di rassicurarla con la storia che Alcioni era solo di passaggio. Le disse di tenere duro e le chiese di cercare, con la sua esperienza, di tranquillizzare l'ambiente. Lei gli rispose che avrebbe fatto tutto il possibile, pur avendo ben pochi mezzi a disposizione (e pensò subito al Guttalax...).

Il direttore si era preso particolarmente a cuore l'agognata armonia all'interno del gruppo di lavoro che dirigeva. Si era così ben calato nel ruolo di direttore di quella sezione dell'Agenzia, che si era affezionato all'ambiente e al lavoro che svolgeva con abnegazione. Aveva anche progettato per sé stesso un ormai imminente debutto in una nuova carriera, quella politica, da realizzare alla prima occasione utile. Questa gli si era presentata con la caduta della giunta regionale che era seguita alla crisi passata alla storia come “La crisi dei cinghiali” che aveva visto coinvolta tutta la classe politica locale — che si era rivelata incapace di gestire la situazione degli ungulati in città — degenerata poi in un vero e proprio incubo. Era in corso quindi una campagna elettorale nemmeno troppo furibonda, nel senso che per la prima volta nella storia c'erano forse più sedie libere da assegnare che persone oneste disposte a candidarsi ed elettori ad andare a votare... Fu così che al direttore dell'Agenzia, professionista integerrimo, senza precedenti penali e scheletri nell'armadio era stata proposta una candidatura alle ormai prossime elezioni. E lui aveva accettato. Era anche questo suo nuovo impegno a preoccuparlo, nel senso che ora era venuto il momento di raccogliere quanto aveva seminato durante la sua carriera con la sua rettitudine morale e i nuovi problemi dell'ufficio — con l'arrivo di Alcioni e la conseguente “crisi” del suo affezionato personale — avrebbero potuto in qualche modo minare la sua ascesa nel firmamento politico nel vicino Palazzo della Regione. Tutte le sue energie e la sua esperienza erano quindi dirette ad un buon esito di entrambe le situazioni. Tra l'altro se in ufficio si fosse ristabilita un po' di armonia — che forse era realmente possibile solo se Alcioni se ne fosse veramente andato via — avrebbe anche potuto contare sul sostegno incondizionato dei suoi fidati collaboratori. Risolto quel problema interno sarebbe effettivamente potuta partire una campagna elettorale in grande stile che sarebbe stata foriera di grandi soddisfazioni e tutti ne avrebbero potuto godere, anche i suoi stessi fedelissimi dipendenti dell'Agenzia.
Il desiderio del direttore, per motivi diversi, era dunque ardente almeno quanto quello di Egidio e della signorina ed era quello di liberarsi della ingombrante e sgradita presenza di Alcioni.

VII
MARGHERITA CATTANEO
Margherita era figlia unica. Quando aveva sposato Egidio non era proprio innamorata di lui, ma gli aveva voluto bene, da subito, perché era un uomo buono, semplice ed elegante. Tutto il contrario di suo padre, da cui non vedeva l'ora di scappare. E quindi c'era stato quel matrimonio un po' così, forse un po' improbabile prima ancora di celebrarsi. Egidio proveniva da una famiglia semplice: suo padre era stato un Guardiano notturno e sua madre casalinga. Lei invece era una lontana discendente, dalla parte del padre, di una casata nobiliare ormai decaduta: il padre che nei comportamenti non aveva proprio nulla di signorile e non era neppure simpatico — soprattutto con quella figlia così avvenente e ribelle da procurargli sempre problemi — aveva un brutto carattere e la sbornia cattiva. Bastavano un paio di bicchieri e diventava scontroso e attaccabrighe. Prima di conoscere Egidio, quando percepiva che il padre era in quello stato, Margherita — che temeva in quei momenti anche solo il suo sguardo — si chiudeva in camera, si metteva le cuffiette ed ascoltava musica a tutto volume. Non vedeva l'ora di emanciparsi totalmente da lui. Mentre quel padre anaffettivo era stato un operaio dell'Italsider, per la verità quasi più scioperante che lavoratore, la madre era invece un'altezzosa ex estetista che aveva in corpo più parti ricostruite dal chirurgo plastico che parti originali ed era particolarmente odiosa. Egidio era innamorato ed aveva presto superato la prima fase di conoscenza, leggermente traumatica, con quella famiglia così diversa dalla sua, le reciproche ostilità e diffidenze. Margherita aveva invece trovato in Egidio quella figura paterna così diversa da quella di suo padre: quella che aveva desiderato e cioè quella di un uomo sensibile e premuroso che la faceva sentire importante. Provava per lui un affetto sincero e gli era particolarmente grata per averla portata fuori da quella casa restituendole il senso di quella libertà che aveva così ardentemente desiderato. Inizialmente lui era stato felice di quella relazione con quella ragazza che era di una bellezza mozzafiato, con i suoi occhi blu e tutte le altre cose precise al loro posto e che tutti ammiravano. Ma era durata poco. Una volta affrancata dal rigido controllo genitoriale e trovato spazi di libertà prima mai esplorati, a poco a poco, aveva iniziato ad uscire, di sera, prima con alcune amiche o perlomeno così diceva. Poi aveva iniziato a praticare il padel: prima aveva fatto un corso collettivo, poi aveva iniziato a prendere lezioni individuali e poi a fare svariati allenamenti, neanche avesse avuto da fare le olimpiadi. La maggior parte delle volte si trattava di una scusa per uscire. Con la storia del padel si era in pratica costruita un discreto alibi in modo da non destare sospetti. Inoltre, al di là di quello sport, sembrava avere delle amicizie e degli interessi non meglio definiti per i quali reclamava ad Egidio i suoi spazi. Non era molto chiara come situazione e lui una sera la seguì. Dopo aver svoltato due strade lei si incontrò con un uomo tutto tatuato, con una bandana colorata in testa e salì su una enorme Harley. Egidio naturalmente l'aveva presa male, ma aveva pensato che ci potesse stare. Avrebbe cercato di riconquistarla.
E pensare che quell' adulterio non era stato il primo e neppure l'ultimo. Egidio non si era reso conto — per lo meno inizialmente — che c'era anche dell'altro: Margherita si era infilata pure in un mare di guai: l'ultimo dei suoi amanti non era solo somigliante a Gennaro Savastano, ma era a sua volta un avanzo di galera della peggior specie e l'aveva trascinata stabilmente nell'abisso della droga. Lei ne consumava una discreta quantità e occasionalmente la spacciava. In quel brutto giro nel quale era finita era compresa anche la pratica della prostituzione, secondo i voleri di chi la sfruttava approfittando della sua debolezza.
Se solo avesse saputo, Egidio avrebbe cercato in tutti i modi di aiutarla e probabilmente anche solo per quello sarebbe finito nei guai. Ma nei guai c'era già per altri motivi: era sprofondato in un altro abisso. Quello della sua follia...

VIII
AGNESE PARODI

Oramai ultraottantenne, genovese d'origine da innumerevoli generazioni — una delle poche rimaste a Genova — Agnese Parodi era stata una buona madre, piena di premure verso quel figlio che lei vedeva così fragile e delicato, l'unico figlio che aveva avuto. Fino alla morte del marito era stata una donna forte, nel fisico e nel carattere. “I pantaloni in casa”, praticamente li aveva sempre portati lei. Era quella che teneva la bacchetta del comando e che teneva la scena. Il marito non parlava quasi mai, si limitava ad annuire ed ogni tanto sbuffava per i suoi modi a volte un po' burberi. Agnese lo gestiva in toto, così come faceva con Egidio. Però nel complesso erano una bella famiglia. Poi, dopo la morte improvvisa del marito, erano subentrati un crollo e l'inesorabile declino della vecchiaia e della malattia. Prima di questa nuova situazione, la vita nella famiglia Raspi scorreva felice. E Agnese era bravissima soprattutto a cucinare. La cucina genovese è essenziale e salutare e ci sono alcuni piatti famosi, esportati in tutto il mondo che vantano numerosi tentativi di imitazione, spesso malriusciti. Si tratta in effetti di ricette che richiedono ingredienti ben precisi ed una preparazione particolare e laboriosa che è difficile da attuare senza la necessaria esperienza. Quando Agnese, ad esempio, preparava il pesto, lo faceva anche per gli altri richiedenti distribuiti tra la parentela e il vicinato. Il profumo del basilico fresco di Pra' — che per inciso si scrive con l'apostrofo e non con l'accento, attenzione a non sbagliare perché sarebbe un sacrilegio — Egidio lo sentiva anche dal portone e gli solleticava un languore tale che non vedeva l'ora di sedersi a tavola con i genitori a gustare quel piatto prelibato. Per non parlare poi della bontà della “Cima”, del rituale quasi sacro della sua preparazione e dei dolci ricordi che pervadevano la mente di Egidio al pensiero di quei tempi felici...
“...Cè serèn tèra scùa
carne tènia nu fàte nèigra
nu turnà dùa
Bell'oueggè strapunta de tùttu bun
prima de battezàlu ‘ntou prebuggiun
cun dui aguggiuìn dritu ‘n pùnta de pè
da sùrvia ‘n zù fitu ti ‘a punziggè
àia de lùn-a vègia de ciaèu de nègia
ch'ou cègu ou pèrde ‘a tèsta l'àse ou sentè
oudù de mà misciòu de pèrsa lègia
cos'àtru fa cos'àtru dàghe a ou cè
Cè serèn tèra scùa
carne tènia nu fàte nèigra
nu turnà dùa...”

“...Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura
Bel guanciale materasso di ogni ben di Dio
prima di battezzarla nelle erbe aromatiche
con due grossi aghi dritti in punta di piedi
da sopra a sotto svelto la pungerai
aria di luna vecchia di chiarore di nebbia
che il chierico perde la testa e l'asino il sentiero
odore di mare mescolato a maggiorana leggera
cos'altro fare cos'altro dare al cielo
Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura...”

Fabrizio De André, I. Fossati. “La Cima”, 1990.
Album “Le nuvole”.

E poi, a proposito di rituali, non c'era stato certamente soltanto quello della preparazione della cima: nella storia della famiglia di Egidio c'erano state diverse altre occasioni che si rinnovavano ogni anno e di cui aveva ricordi vividi; si trattava di tradizioni del resto comuni a tante famiglie genovesi. Come quando a Ferragosto andavano a fare la gita con picnic ai Piani di Praglia o i pellegrinaggi alla Madonna della Guardia, quella stessa Madonna alla quale Agnese era devota e la cui statuina era ben presente sul suo comodino. Ormai moribonda affidava a lei le sue preghiere nei momenti di lucidità che ogni tanto — ma sempre più di rado — ancora aveva.
Altri momenti di una dolcezza struggente affioravano ancora nella memoria di Egidio: il gelato in Castelletto, per esempio. La domenica non andavano al mare perché Corso Italia era troppo piena di gente e allora preferivano andare a prendere un po' di fresco al Righi e quando rientravano, la sera, cenavano in una rinomata gelateria sulla spianata di Castelletto con un enorme gelato gustosissimo, servito nella coppa di vetro. E poi ancora la focaccia. La focaccia come la fanno a Genova non la fanno da nessuna parte. Unta, salata e croccante. Semplicemente unica. Egidio e sua madre, ma anche la buonanima di suo padre ne erano ghiotti. E i fuochi di San Pietro e Paolo. E la sagra del pesce di Camogli e la Fiera di Sant'Agata. E il falò di San Giovanni Battista, il patrono della città. I ricordi di quelle giornate che si erano replicate negli anni in quelle occasioni come rituali imprescindibili, si mischiavano a ricordi di altre situazioni in cui la sua famiglia era sempre stata al centro della sua vita.
Si ricordò della sorpresa che gli fece sua madre in occasione del “varo” della Vespucci. Sì, perché Egidio era un grande appassionato di modellismo navale. Aveva un box per l'automobile che però era parcheggiata sempre in strada. Al posto della macchina, nel box, c'era tutta la sua attrezzattura e dei modellini di navi che aveva costruito negli anni. Il progetto che lo aveva coinvolto di più era stato la riproduzione della Amerigo Vespucci, la nave scuola orgoglio della Marina Militare italiana. Aveva impiegato qualche anno a ricostruirla in miniatura nel suo box. Il modellino, una riproduzione perfetta dell'originale, fu presentata alla famiglia a lavori ultimati. Egidio aveva annunciato ai genitori e a Margherita con la quale si era da poco fidanzato che i lavori per la Vespucci erano terminati e che la voleva “varare” il giorno dopo con una piccola presentazione con tanto di bottiglia di Champagne e tutti i carismi che meritava la situazione. Ebbene al momento del varo, mamma Agnese fece la sorpresa di preparare anche una grossa torta, le pizzette calde e i tramezzini. Loro quattro, fecero una festa indimenticabile ed Egidio era stato felice come un bambino. Il “varo della Vespucci” fu immortalato in una fotografia che divenne la più preziosa nell'albo dei ricordi di Egidio. Ogni volta che la riguardava, gli provocava una fitta di dolce dolore e di rimpianto per quei tempi così felici.
Poi la sua vita si era, nel giro di poco, trasformata in un incubo. Era come se ora fosse tutto finito. O meglio, quella realtà ora era stata stravolta dalla nuova situazione che si era venuta a creare nella famiglia. Suo padre non c'era più e sua madre era inferma. L'infinita dolcezza di quei momenti e di quelle esperienze che lui aveva vissuto in condivisione con la sua famiglia d'origine ora non c'erano più. Non c'era quasi neanche più la stessa famiglia d'origine. Rimaneva solo Agnese, anziana e malata. Ma quanto ancora avrebbe potuto tirare avanti la madre di Egidio? Lui sapeva che aver vissuto tutte quelle cose e soprattutto aver avuto tutto quell'amore dai genitori, era stato un grande privilegio. Ora era giunto il momento di restituirlo, almeno a sua madre. Ma c'era un problema. Lei stava male. Aveva bisogno di assistenza medica e infermieristica. Lui si impegnava moltissimo a fare tutto ciò che poteva, ma era durissima. Veder soffrire sua madre gli procurava un disagio ed una sofferenza mai provati prima. Egidio avrebbe avuto bisogno di sostegno ed aiuto, ma il mondo intorno a lui si era dileguato e non si era accorto di lui e della sua situazione. E ora era sparita perfino sua moglie.
C'erano dei momenti in cui Agnese era lucida. La cattiva circolazione del sangue fa brutti scherzi. La memoria va e viene. Quando veniva, sempre più di rado per la verità, il più delle volte, per Agnese, Egidio era ancora un bambino. Se lo ricordava vestito con il grembiule di scuola. Era un bel bambino, più bello della media dei bambini della sua età. Se lo ricordava alto, sorridente e gentile. Altre volte era lucida, ma non del tutto. E allora vedeva quell'estraneo davanti a sé, con quella faccia preoccupata. In quei momenti lei non lo riconosceva e anzi lui le dava anche un po' fastidio, sempre a somministrarle tutte quelle medicine e a misurarle la pressione e a pungerle le dita. Lui le mostrava sempre un'infinita dolcezza e si occupava di lei sempre e a prescindere. In quei rari momenti in cui invece era pienamente cosciente della situazione, Agnese pregava. Pregava la Madonna della Guardia che le facesse la grazia di prendersela con sé e di liberare quell'amato figlio da quel fardello che era la sua infermità.
Dopo qualche giorno di incoscienza, una mattina si svegliò e gli chiese all'improvviso: - Egidio, dov'è Margherita? - Lui imbarazzato le mentì: - Torna stasera, mamma. Si è vista con i suoi... - .
IX
LA CRISI DEI CINGHIALI
Egidio era nel suo box-laboratorio ed aveva lasciato la porta aperta per lasciar circolare un po' d'aria. Era di spalle, dall'altra parte del grande tavolo al centro del quale ara posizionato il suo fantastico modello dell'Amerigo Vespucci. Mentre era intento a riverniciare una piccola parte della nave sentì un odore nauseabondo, più forte ancora della stessa vernice. Si girò e vide un enorme cinghiale intento ad annusare il fasciame dello scafo. Rimase impietrito e per un attimo restò senza fiato. L'ungulato era enorme. Ne aveva già visti altri, ma uno così grosso a due metri da lui e addirittura dentro un locale, mai. Non pensò neppure un attimo a se stesso, al pericolo che incombeva e a mettersi in sicurezza. Pensò invece al suo bellissimo veliero che teneva nel laboratorio ormai da anni, ed al quale, come fosse stata una nave vera, faceva personalmente regolare manutenzione. La sua Amerigo Vespucci, lunga un metro, era posizionata sul tavolo al centro del suo box-laboratorio. La lampada, accesa proprio sopra di essa, la illuminava mettendone in risalto lo splendore e la precisione dei dettagli. Non per caso aveva ricevuto riconoscimenti e premi anche a livello internazionale. Era venuta perfino una troupe televisiva a girare un documentario poi trasmesso in un canale tv americano a pagamento, dedicato esclusivamente al modellismo navale. Si, decisamente la sua Vespucci era per Egidio un grande motivo di orgoglio personale. Una passione travolgente, per un progetto di costruzione e abbellimento nel quale aveva profuso infinite energie. In quel momento percepì che la situazione di pericolo imminente poteva trasformarsi in un disastro e vanificare il lavoro di anni. Era in gioco tutto quanto. Rimase del tutto immobile. Doveva trovare una soluzione immediata. Per un attimo i loro sguardi si incrociarono. E proprio in quel momento l'animale digerì qualcosa, emettendo un verso disgustoso. Poi, inaspettatamente, così come se lo era visto apparire davanti, allo stesso modo lo vide girarsi e uscire da dove era entrato. Egidio arrivò fino a quella maledetta porta e la chiuse a chiave con due mandate. Poi raggiunse una sedia, si sedette e riprese a respirare. Era bianco come un cadavere, con la salivazione azzerata e tutto sudato.
I cinghiali ultimamente avevano preso un po' troppa confidenza con le strade, con la presenza degli umani e con quelle loro grosse rumorose scatole con le quattro ruote che circolavano sull'asfalto. Poi sempre riguardo all'asfalto, c'erano anche degli umani che lo percorrevano stando in equilibrio su due ruote sole. E con la loro vista, che la natura gli aveva impostato in modo diverso da quella degli umani, a volte facevano fatica a vederli arrivare. Sempre sull'asfalto, avevano imparato che circolavano scatole ben più grosse, gialle, con un mucchio di ruote alte come loro. Occorreva stare attenti ai cuccioli, che non rimanessero schiacciati. Poi c'erano dei contenitori a bordo strada pieni di sacchetti, bastava rovesciarli e rovistare per cercare il cibo.
Dovevano stare proprio attenti, questo era sicuro, e cercare di proteggere i cuccioli anche dagli umani quando si muovevano con la famiglia al seguito. Una classica “vita da bestie”, insomma, ricca di insidie e problemi giornalieri di fabbisogno di cibo e di necessità di riprodursi. In quanto a quello per la verità si erano portati avanti un bel po' e la loro popolazione era cresciuta a dismisura. A parte qualche isolato incidente, si può dire che ormai ci convivessero quasi, con gli umani. O meglio, avevano iniziato anche a riconoscere e quasi ad abituarsi gli uni alla presenza degli altri.
Poi però successe un fattaccio e la situazione precipitò. Un sabato mattina, dopo un paio di giornate di brutto tempo con temporali e piogge persistenti, i cinghiali, che avevano trovato rifugio in una galleria sotterranea vicino alla stazione di Brignole sotto il nuovo ponte di Sant'Agata, un po' disorientati ed affamati uscirono fuori tutti assieme. Erano moltissimi, come si fossero dati appuntamento per un raduno. Sembravano vagare senza meta un po' disordinatamente, con le famiglie allargate di qualche generazione, cuccioli, genitori, nonni e forse bisnonni. Cinghiali di tutte le taglie. Tutti riuniti, avevano raccolto quel coraggio che era nato proprio dall'affrontare per una volta insieme le strade cittadine. Lentamente, a passo di cinghiale, si erano avviati verso il levante cittadino sulla strada principale. Avevano raggiunto Piazza Giusti e proseguito. Poi erano arrivati dove c'erano le bancarelle del mercato in piazza Terralba ed era successo il finimondo. Banchi rovesciati, persone e cinghiali che scappavano, chi di là e chi di qua, danni e soprattutto feriti, alcuni in modo serio, inseguimenti, cacce improvvisate. Non ci scappò il morto solo per miracolo, ma le conseguenze furono importanti. Il giorno dopo, la locandina del “Secolo XIX” diceva: “INVAXION, I CINGHIALI CONQUISTANO TERRALBA, TERRORE AL MERCATO”. Seguirono clamorosi servizi che furono prima diffusi nei tg nazionali e poi fecero il giro del mondo. Alle ventitré, a “Porta a porta”, un Bruno Vespa super eccitato — sfregandosi le mani alla sua maniera — mostrava il plastico in cui si vedeva la stazione Brignole, il Ponte di Sant'Agata, la strada per Terralba, il mercato e i cinghiali.
Dal disorientato mondo politico locale non arrivarono risposte immediate ma ci fu la presa di coscienza, finalmente, che c'era un problema serio da risolvere, mai affrontato prima con la giusta attenzione. Non si poteva più andare avanti così. Si formarono due movimenti di protesta che sostenevano posizioni opposte. Erano comitati e gruppi di cittadini abbastanza agguerriti. Il primo movimento intendeva farsi giustizia da solo e aveva annunciato l'organizzazione di una caccia al cinghiale in città, autorizzata o no che fosse stata. L'altro movimento era ovviamente formato da animalisti sfegatati. Ci furono manifestazioni spontanee e incidenti tra le due opposte fazioni, sedati a fatica dalle forze dell'ordine che dovettero utilizzare idranti per disperdere la folla. Il ripristino della normalità, dal punto di vista dell'ordine pubblico, si raggiunse con molta fatica. Alla fine la situazione apparentemente si pacificò, complice il ritorno a monte spontaneo da parte dei cinghiali che — dopo la mini-transumanza cittadina — se ne erano tornati da dove erano venuti. Forse erano rimasti anche disgustati dagli umani e dai loro comportamenti.
E se facessimo un tentativo approfondito di provare ad inquadrare meglio anche il punto di vista dei cinghiali, così tanto per capire quale poteva essere stato a quel punto della nostra storia, ebbene ci potremmo sbizzarrire. Loro qualche sforzo di adattamento lo avevano fatto: si erano fatti coraggio ed erano scesi in campo con le loro famiglie in mezzo agli umani. Avevano ad un certo punto perfino instradato i loro cuccioli a zampettare ordinatamente in fila indiana sui marcia-zampe, le strisce di asfalto rialzato di una decina di centimetri, costruite per i pedoni umani. Probabilmente i cinghiali cercavano solo del cibo, non che cercassero necessariamente di socializzare, però in qualche modo a noi umani ci avevano dato fiducia. Avevano pensato magari che avremmo capito le loro necessità, che gli saremmo andati incontro in qualche maniera per soddisfarle. In fondo loro, con le loro stesse carni ci avevano nutrito fin dai tempi antichi. Ma gli umani non avevano compreso i loro bisogni. I cinghiali non parlano, ma anche se avessero avuto la parola se ne sarebbero andati senza sprecarne una, tanta era l'amarezza che dovevano aver provato dopo essere stati respinti. Tutta quella confusione, urla, cacce improvvisate: ma che tristezza! Sarebbe stato meglio se fossero rimasti nel loro habitat abituale. Al massimo avrebbero potuto fare qualche escursione nel Bisagno a bere un po' d'acqua e fare ogni tanto qualche raid in città a rovesciare qualche contenitore con dentro i sacchetti dell'immondizia in cerca di cibo. Ma tutto ciò solo quando fosse stato necessario. E sarebbe stato meglio continuare ad essere riservati piuttosto che socievoli ed espansivi, perché gli umani si erano rivelati meno intelligenti di quanto credevano di essere, nonostante la loro presunta superiorità. E poi che animali strani quegli uomini. Ce n'era perfino uno che teneva un veliero sul tavolo dentro il garage...
Quindi la conclusione tratta dai cinghiali era stata questa: era meglio rovistare tra le sterpaglie nelle campagne, ravanare clandestinamente nelle loro fasce, tra i loro orti o cercare tra i loro rifiuti, piuttosto che avere a che fare direttamente con loro che sono animali ingrati e privi di senso di accoglienza. Esseri che l'integrazione non sanno neanche cosa sia e che non sono capaci di coabitare pacificamente neppure tra loro, figurarsi con le altre specie. Meglio lasciar perdere.
Le manifestazioni dei cittadini genovesi erano poi riprese con rinnovato vigore, questa volta in maniera compatta e si erano concentrate contro il mondo politico locale. Tra la popolazione si erano ormai diffusi malcontento e indignazione. Erano state giornate davvero pesanti e Genova era finita al centro dell'attenzione internazionale come era accaduto anni prima con il famigerato G8. Si era così sviluppata una crisi politica senza precedenti. Sul banco degli imputati erano finiti proprio tutti. L'intera giunta regionale fu accusata di inadeguatezza e dovette rassegnare le dimissioni. Tutti i partiti, coinvolti nella loro incapacità anche solo di organizzarsi e di affrontare con risolutezza un problema così importante, ne erano usciti veramente male. Erano state indette elezioni, tra difficoltà varie ed oggettive come quella di trovare candidati credibili, onesti e capaci.
Era stato così che il Direttore dell' Agenzia aveva avuto la sua opportunità. Quella che aveva atteso pazientemente da tempo.
Claudio Rossini
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