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Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: ero Fa al biVio
Titolo: Un giorno lento
Genere Romanzo Breve Introspettivo
Lettori 3174 45 68
Un giorno lento
Era strano.

Sembrava quasi un giorno lento, più lento del solito. Tutto era tranquillo, non era successo nulla di indimenticabile; gli stivali erano al loro posto, la rivoltella anche, il cappello, quel bancone, il boccale...

La sua pelle era quasi dorata, e con agitazione, seppur poco giustificata visti i ritmi blandi di lavoro, strofinava con forza le stoviglie. Una richiesta, o due al massimo, da servire e le giornate passavano una dietro l'altra.

Ma quella volta no.

Era un giorno lento.

Uscii con calma, osservando le punte degli stivali infangate, un po' come se dovessi metterci del tempo a raggiungere la porta. Come se lo spostarsi facendo sbattere i tacchi sul legno del pavimento dovesse risuonare nelle orecchie di chi era presente, facendogli capire che mi stavo muovendo e che avrebbe dovuto fare attenzione.

Attenzione a cosa, poi? A non scontrarsi contro la mia spalla? A non incrociare il mio sguardo? Cosa mi rendeva così fanatico della mia presenza? Come se volessi essere, per un qualche motivo, temuto.

Ma qui, da temere, non c'era nulla. Neppure nei giorni lenti.

"Ci si rivede!", disse. Come se dovesse augurarselo o come se non fosse scontato.

Sarei tornato, come al solito, prima della chiusura, per un ultimo goccio prima di disperdermi.

A volte, anche solo per osservarle il mento, o il collo.

Chissà se anche lei mi temeva. Ormai aveva accettato il fatto che passassi lì del tempo, consumando, senza mai pagare. Eppure sembrava che, quasi, lo desse per scontato, che non avrei sborsato denaro.

Non le pesava; non ci faceva neanche caso, forse.

A volte, quando uscivo da lì, dopo averci trascorso del tempo e soprattutto nel primo pomeriggio, notavo una coltre di polvere riempire l'aria. I raggi del sole, non più alti all'orizzonte, evidenziavano le fini polveri alzate dagli zoccoli dei cavalli e dalle ruote dei carri e, capitava, che tra questi banchi, filtrassero dei raggi, come spade che infilzano corpi immobili, inesorabilmente dilaniati da cotanta potenza. In quei casi, e solo in quei casi, alzavo lo sguardo verso il cielo, con i miei occhi celesti, freddi come il ghiaccio, per sentire il calore vivo della potenza divina, che si faceva percepire a nostri deboli sensi.

La giornata, come al solito, sarebbe volta al termine a breve.

I cani randagi, che man mano avevano racimolato cibarie per superare la giornata, avrebbero fatto ritorno nei loro nascondigli, appena fuori le porte del villaggio.

2 I DISTILLATI DI DENA

Dena era il suo nome. Inusuale per la nostra tradizione.

Gli occhi color caramello, le lunghe trecce che portava sulle spalle e l'abitudine nel portare camicia e jeans la rendevano unica.

Così come il nome, la sua provenienza, il colore della sua pelle e il lavoro che svolgeva.

Una ragazza così giovane, che serviva al banco, di così rara bellezza, era qualcosa che non si era mai visto prima.

Certo, il villaggio era un piccolo paradiso in confronto a molti altri centri abitati della zona.

Non c'era alcun malintenzionato che avrebbe deturpato la quiete con la sua presenza, al quale poteva interessare venirci a fare visita.

Così come non c'erano interessi particolari per gli investitori.

Eppure, ogni qualvolta un forestiero si ritrovava all'interno del nostro perimetro, finiva per rimanervi a lungo. Come se avesse trovato un luogo dove far riposare il proprio spirito.

Capitava sempre più spesso che mi fermassi a pensarci.

I volti familiari degli abitanti del luogo erano, da una parte, rassicuranti; dall'altra talmente monotoni che mi accorgevo di non sapere alcuni dei loro nomi, ma mi sembrava di conoscerli come se fossero miei parenti.

Poi, solitamente, non salutavo nessuno. Era meglio tenere le distanze. Reputavo migliore il fatto che riconoscessero il rumore dei miei passi, piuttosto che il suono della mia voce.

L'ultima volta che avevo fumato una sigaretta era stato qualche anno prima, forse sette o otto o venti... quando ancora non mi ero fermato in quel luogo sperduto. Sì, sono stato anche io uno di quei forestieri erranti che si è fermato.

Ma non saprei dire il perché.

Nacqui in Europa, in Italia. Mi sembrava fosse passato oltre un secolo, talmente erano le cose e i luoghi che avevo visitato.

Un'esistenza strana, la mia. Ma questo non spiegherebbe il volermi fermare lì.

Forse un giorno avrei ripreso la strada. Anche nel caso non fossi riuscito, ancora, a rivolgerle parola.

Perché avrei dovuto farlo? In effetti ero un cliente non pagante, accettato chissà per quale motivo...

I pochi alberi disposti a fare da ombra si inclinavano al vento caldo serale, mentre in lontananza si iniziavano a percepire i primi ululati notturni.

3 IL CERCHIO DI SASSI

Già dalla mattina si era capito si sarebbe trattato di una giornata anomala.

Un cerchio fatto di sassi, poco distante dal centro abitato, era stato scovato dietro a cumuli di salsola, detta anche rotolacampo.

Chissà chi lo avesse fatto e lasciato lì...

Si pensò subito a uno scherzo di qualche bambino, anche se poco verosimilmente un bambino sarebbe uscito da solo dal grande recinto. Il rischio di imbattersi in serpenti velenosi e coyotes era davvero molto alto, specialmente nelle prime ore del mattino.

La notizia del cerchio di sassi girò fino all'ora di pranzo per tutto il villaggio, come unica fonte d'argomento, fino quasi a sparire totalmente una volta riempite le pance.

Nessuno, come per tabù, nominò più l'evento accaduto quel mattino, nel pomeriggio.

Così, un po' per ripicca, un po' per la mia natura ribelle, sul finir della giornata pensai di tornare verso il centro per fare un sondaggio riguardo l'episodio stravagante.

Ma proprio mentre mi incamminavo, diretto verso le botteghe più centrali, una signora - tale Kate Jones - scappò fuori da casa urlante e concitata, raccontando di aver perso il figlio piccolo.

Ovviamente, come se il destino non volesse farmi approfondire il mistero del cerchio di sassi, tutte le persone vicine accorsero ad aiutare la signora.

Aspettai semi sdraiato sotto il portico di un locale, per non prendere umidità, che il piccolo venisse ritrovato, senza però concedere il mio aiuto nella ricerca. Non che questo non mi preoccupasse, ma ero più intento a mantenere un certo distacco dal resto del gruppo, più che integrarmi. Così decisi di farmi da parte e aspettare.

Il buio era, ormai, sceso quasi del tutto. Le stelle fiaccolavano nel cosmo, ben visibili, grazie alla giornata limpida e al cielo terso, tanto da riuscire nitidamente a distinguerne molte.

Il tempo passava e, spesso, di fretta da un lato all'altro della strada, qualcuno correva preoccupato, alla ricerca del bambino scomparso.

Il vociare da dentro le abitazioni era intenso, le persone si chiamavano dalle finestre. Sembrava un alveare, dove tutti collaboravano e aiutavano.

E io non avevo nessuna intenzione di muovermi da lì. Sarebbe stato veramente d'aiuto, ma non me ne interessai.

L'unica, oltre me, a non aiutare la signora nelle ricerche fu Dena, che rimase al bancone tutto il tempo, seppur non ci fosse neanche un cliente.

Io, da qui, potevo osservare le sue trecce e le sue mani...

4 QUELLA MATTINA

Quella era una di quelle mattine.

Mi ero alzato molto presto, prima ancora che il villaggio prendesse vita e che i primi carri scaricassero le merci lungo le porte delle botteghe.

Con la schiena poggiata lungo il grande recinto, osservavo la vastità del deserto, che con le prime luci dell'alba sembrava ancora più sconfinato.

Saltuariamente si intravedeva, in lontananza, del fumo di qualche altro villaggio o di qualche accampamento di indios.

Le salsole rotolavano lungo la sabbia asciutta, il vento fresco delle prime ore del mattino faceva sventolare le bandierine lungo i portici e, nel mentre l'atmosfera si faceva più viva e si sentivano le prime voci, i cani randagi riprendevano posto nei loro rifugi, ai margini del centro abitato.

Lo stradone principale, che tagliava a metà tutto il villaggio e portava da un'uscita all'altra, di terra battuta per la comodità dei carri, cominciava a ospitare i primi passanti.

C'era chi raggiungeva le porte delle proprie botteghe, chi si prodigava nello spegnere le lanterne esterne, chi portava i bambini al centro di istruzione... Qualcuno andava, qualcuno veniva.

Quasi tutto come al solito, se non fosse che quella era una di quelle mattine.

Uno di quei giorni dove, senza preavviso, uno straniero si fermava per riposarsi, ignaro del fatto che non avrebbe più lasciato, almeno per un bel po' di tempo, quei luoghi. Come se ci fosse una regola non scritta.

Come se una qualche forza superiore scegliesse per noi e, nel tragitto di una vita inserisse come esperienza, il sostare qui, in questo villaggio disperso nel deserto, abitato da poche anime dannate.

Per quanto improbabile, escludendo l'impossibile, tutto ciò che rimane è potenzialmente possibile.

Possiamo davvero scegliere o le poche opzioni da vagliare sono preventivamente, già, state scremate, per far sì che il cammino sia quello stabilito? È, quindi, fattibile credere che il nostro destino sia segnato?

D'altronde il mio libero arbitrio parrebbe non avere, poi, troppe possibilità per essere messo in pratica.

L'addio a questi luoghi si faceva, infatti, sempre più sbiadito, all'orizzonte...

5 LO STRANIERO DILEGUATO

Ogni tanto mi capitava di pensarci.

Davvero le persone avevano timore di me?

Cosa avevo fatto per meritarmelo?

Era, questo, un fattore positivo? O lo percepivo come tale perché mi permetteva di stare in silenzio ovunque, senza dovermi sforzare, per forza di cose, nel conversare?

Lo trovavo un lato della mia presenza, qui, interessante.

E credo che anche Dena lo reputasse così.

Ogni suo sguardo, di sfuggita, mi faceva sentire più vivo. Ogni parola da lei pronunciata, nei miei confronti, era come la punta di un pugnale poggiato sulla schiena. Tremendamente gelido, ma così incisivo da mettere i brividi. Una sensazione di angoscia ed eccitazione mi permeavano il corpo, a ogni sua sillaba.

Eppure non le avevo, ancora, mai parlato. Il massimo che mi concedevo di fare era sollevare leggermente il cappello, fissarla di sbieco e alzare il sopracciglio; quello, dei due, meno visibile.

A lei credo piacesse...

E poi, prima o poi, una parola l'avrei detta. La tenevo a mente, per non scordarla. Me la ripetevo in testa prima di entrare nel locale e ogni volta che ne uscivo, mentre sorseggiavo e quando, anche se per poco, rimanevamo soli. In ogni caso, mica ero un codardo.

Anche se, quel "hey", ancora non ero riuscito a dirlo.

Ricordo che, mentre pensavo a tutto questo, e mentre le persone erano ancora intente nel cercare il figlio di Kate Jones, mi tagliò la strada, pensando l'avesse fatto di proposito, lo straniero nuovo.

Uscì di corsa dal villaggio, in direzione del cerchio di sassi, ma non feci in tempo a raggiungerlo che già si era dileguato.

Tutto questo - la scomparsa del bambino, lo straniero, il cerchio di sassi - rendeva quella giornata dall'animo lento, davvero misteriosa.

Il sole era quasi all'orizzonte quando trovarono il bambino, intontito, rinchiuso nel solaio della sua abitazione e io, irrigidito dalla sparizione del fugace straniero, mi sentivo, da un lato, come più leggero, dall'altro avevo come un pessimo presentimento.

Chi era quell'uomo? Da dove veniva? Che intenzioni aveva? Ma, soprattutto, come era riuscito a lasciare, nella stessa giornata, questo villaggio?

C'era gente che ci provava da anni.

La coltre di polvere che si alza nel deserto, nei giorni di vento, rende l'atmosfera ancora più inquietante di quanto già non lo sia, considerando i tanti scricchiolii delle insegne delle botteghe, gli ululati dei coyote e il silenzio tombale, in strada, non appena scende il buio.

Mi diressi, in modo quasi inconsapevole, verso il cerchio di sassi e non mi stupii del fatto che trovai l'area sgombera.

D'altronde si era taciuto sulla strana composizione già dalla mezza. A qualcuno doveva aver dato molto fastidio.

Rimasi lì per un po', cercando di capire da dove potessero provenire quei sassi, cercando qualche impronta o qualche indizio che mi potesse far venire un'idea, riguardo l'accaduto.

Non mi venne in mente nulla, così mi sedetti su un pezzo di carro abbandonato lì da anni.

I cactus fischiavano, al contatto con il vento.

Riempivo i polmoni di polvere.

Gli occhi cominciavano a essere stanchi.

E sopra di me il cielo iniziava a mostrare le prime lucine dei corpi celesti più luminosi.
ero Fa al biVio
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