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Dacia Maraini nasce a Fiesole (Firenze). La madre Topazia appartiene a un’antica famiglia siciliana, gli Alliata di Salaparuta. Il padre, Fosco Maraini, per metà inglese e per metà fiorentino, è un grande etnologo ed è autore di numerosi libri sul Tibet e sull’Estremo Oriente. Nel 1943 si trova con la famiglia in Giappone e vive la drammatica esperienza di un campo di prigionia. Ad oggi, è considerata a pieno titolo "la signora della letteratura Italiana".Gli ultimi romanzi pubblicati con Rizzoli, sono Corpo Felice e Trio.
Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
"Il destino di ogni uomo è un segreto sepolto nel silenzio" A pronunciare queste parole è Glenn Cooper, uno scrittore che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo e che ha un legame particolare con la storia Italiana. Il suo ultimo libro si intitola Clean - Tabula Rasa e racconta di una epidemia mondiale molto simile a quella che abbiamo appena vissuto.
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP, ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo già formattato che per la copertina.
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Sharif
Titolo: Sogno Vendetta
Genere Thriller
Lettori 1575 9 27
Sogno Vendetta
ORE 12:00
L'assassino era in piedi di fronte alla finestra e guardava il campanile di una chiesa, ma in realtà guardava un vecchio ricordo; un ricordo che a sua volta sembrava guardarlo da laggiù, dai merli della torretta.
Dietro di lui c'era Silach, ferito alla testa e legato a una sedia con del nastro adesivo grigio. Come riprese i sensi, cerco di liberarsi, ma invano; allora si guardò attorno e riconobbe il proprio salotto.
- Ma che succede? - si chiese Silach, e il sangue sgocciolò giù dal mento, una goccia per ogni parola. Poi si rese conto di non essere da solo. - Sei tu che mi hai colpito? Chi diavolo sei? Che vuoi? -
A quel punto l'assassino si volse verso di lui — in-dossava una maschera, la faccia di Lala, la Teletub-bies gialla — e svelò la propria identità solo dopo averlo fissato per alcuni secondi, lasciandolo a bocca aperta.
Quegli occhi, non più dietro la maschera, sembra-vano però occhi di maschera, fissi nel vuoto, color di confine, tra il triste e lo spietato, il passato e il presen-te.
- Tu?! -
- E chi, se non io? -
- Ma perché? -
- Perché, mi chiedi? - L'assassino sembrò riflettere, ma sapeva fin troppo bene cosa dire. - Perché quando non puoi più vivere non ti resta che sognare. Ma quando non puoi più nemmeno sognare... non ti resta che questo. - Dal giubbotto, estrasse un coltello da cuoco, lungo, pesante, con il manico nero. - Non ti re-sta che uccidere - chiarì.
- Ma che razza di scherzo è questo? -
- Ti sembra uno scherzo? - Si avvicinò a Silach e gli punse la guancia con la punta della lama fredda. - A me sembra invece molto affilato. -
- Pauli! Carlsen! Uscite fuori. Non mi diverto affat-to. -
Silach aveva capito subito che non si trattava di uno scherzo, ma non gli restava che quella speranza involontaria, e non gli riuscì più di tenere ferma la te-sta.
- Credi davvero che si siano nascosti? Sì, in qualche modo hai ragione, si sono nascosti... proprio come te. Ma il problema è che nessuno di loro verrà a salvarti. Come non sono venuti a salvare me. -
- Salvarti?! E come? Sei tu che... -
- Con un atto di coraggio, ecco come. Un piccolo... semplice... atto d'amicizia. -
- Stai delirando. - Assieme al sangue, adesso goccio-lavano anche le lacrime, ma queste non si potevano contare. - Non stai bene. -
- Tu invece stai bene? Riesci a dormire la notte? -
- Non sei in te! Saranno i farmaci. Nella flebo c'erano anche... - Silach si interruppe, l'assassino era infatti balzato alle sue spalle.
Quest'ultimo gli afferrò quindi i capelli, li tirò forte e accostò la lama al collo ben disteso, come se impu-gnasse un violoncello, ma poi lo fissò in un momento d'esitazione, e un brillantino di commozione balenò in quegli occhi al limite.
- Ti prego, non farlo! - implorò Silach, come un ven-triloquo, solo che lui sembrava il pupazzo.
Di nuovo un'altra speranza senza speranza, e infat-ti, come fece per dire altro, la lama corse sul collo, da giugulare a giugulare, come l'archetto, da corda a cor-da.
Infine, mentre la gola gorgogliava, tra lacrime e sangue, l'assassino cacciò una spina dalla tasca, taglia-ta da un elettrodomestico a caso, e gliela ficcò in boc-ca. 
Se un po' di sogno è pericoloso,
quel che ce ne guarisce non è sognare di meno,
ma di più, fare tutto il sogno.
M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

ORE 15:30
- Alla fine dei sogni... inizia l'incubo. Hihihi - grac-chiò Zrael. - Lo sapevi, Shane? -
- Quello che so è che mangerò la tua regina - risposi.
Eravamo sulla cima di un'altissima torre nera, all'angolo di una scacchiera chilometrica.
Le fiamme ci circondavano, pure il cielo bruciava, ma quella tempesta rovente s'infrangeva contro l'invisibile cupolone che ci separava da tutto il resto.
Violoncelli orientali accompagnavano la nostra par-tita. Stavolta, la musica l'aveva scelta lui, e quando la sceglieva lui era sempre troppo malinconica.
- Certo che la mangerai. È un sacrificio troppo ghiotto per non accettarlo. Ma perderai la partita, co-me sempre. Hihihi. -
- No, questa volta ti farò scacco matto - obiettai.
- E credi, così facendo... di non perdere? -
Tolsi lo sguardo dalla scacchiera e fissai quei suoi occhi diabolici, rossi dall'inferno; quel suo ghigno pungen¬te, uno squarcio con dietro il buio; e quella sua faccia pallida, una macchia di vitiligine sulla notte, immersa in un cappuccio di tenebre nuvolose, come tutto il resto del corpo.
Lui era infatti tutt'ombra, evanescente, sinuosa.
- A proposito di regine, come sta Erin? - chiese sen-za più sogghignare, lo fecero le sue parole.
Lo mandai a fanculo senza rispondere, lo fece il mio sguardo.
- Prima o poi, tua moglie morirà - continuò.
- Credi che non lo sappia? - urlai.
- Hai mai pensato che, invece, potrebbe destarsi? -
- Ci penso continuamente. Ma non posso farci nien-te. Non posso proteggerla né dalla morte né... dalla vita. -
- E che cosa le dirai qualora si risvegliasse? -
- La verità - risposi. Eppure sembrò una domanda.
- Ma gliel'hai già detta. E non le è piaciuta per nul-la... la verità. Hihihi. - Le sue risa scricchiolarono a lungo. - Vuoi che ti consigli una bugia da dirle? -
Lo ignorai e afferrai la mia regina, quella nera, pron-to a mangiare la sua, ma mi arrestai.
Era un giocatore troppo scaltro per commettere un simile errore. Si trattava sicuramente di una trappola, ma non riuscivo a vederla.
- Oppure preferisci che dica una bugia a te? -
- Stai parlando a vanvera, Zrael, come sempre. Fatti i cazzi tuoi e limitati a giocare, ok? -
Invece continuò a punzecchiarmi. - Potresti portarla via, lontano da tutti e da tutto, e cercare di convincer-la che vostra figlia Elodie non sia mai esistita. Oh, scusa, l'hai già fatto. Hihihi. -
- Smettila! Perché vuoi farmi incazzare? -
- Oppure potresti cancellarle la memoria. Ops, hai già fatto anche questo. Hihihi. -
Riabbassai lo sguardo sulla partita, masticando du-ro, ma lui rincarò la dose.
- Il vero problema, però, è che le tue bugie funzio-nano solo qui. Fuori non funzioneranno. Non hanno mai funzionato. -
- Ma che cos'hai oggi? Ti sei svegliato male? -
- Credi che io dorma? -
- Non me ne frega niente se dormi o no! Gioca e non rompere. -
- Povero amico mio. Sai qual è la verità? - Allargò il suo ghigno cigolando. - La verità è che tu desideri, più di qualunque altra cosa... che Erin non si svegli mai. Speri con tutto il cuore che non si alzi mai da quel let-to d'ospedale. - Sorrise di più. Le parole friggevano. - Non è mica una bella cosa da sperare. -
- Questa sarà la nostra ultima partita, poi ti manderò a fanculo per sempre, povero amico mio. -
Tornai a concentrarmi sulla scacchiera, ma in realtà pensavo alle sue parole.
- Pensaci, sì, bravo. Ma non ora. Ora... devi sve-gliarti, Shane! - E mi mollò uno sberlone. - Svegliati! -
- Come cazzo ti sei permesso? -
- Hihihi. Non sono stato mica io a colpirti. - Ma mi rifilò un altro schiaffone. - Svegliati! -
- Come sarebbe a dire che non sei stato tu? -
Scattai in piedi, pronto a rovesciargli addosso l'intera scacchiera, ma mi trattenni: non avevo mai vinto contro di lui, e non potevo certo buttare all'aria una partita così promettente.
- Non provare a toccarmi mai più, brutto demonio! -
- Hihihi. Svegliati, tossico puzzolente! -  
Ho fatto un incubo... Ho sognato la realtà.
Barbato-Freghieri-Stano, Dylan Dog, Necropolis

ORE 16:00
Mi presi un altro ceffone e a quel punto mi risve-gliai, sdraiato sul mio lettino portatile.
- Finalmente ce l'hai fatta! - imprecò Pauli, e mi die-de un'altra sberla.
Fui in grado di parlare solo dopo essermi schiarito la voce più volte. - Mettiti quelle mani in culo. Toc-cami di nuovo e finisci su questo lettino. -
- Diamine! Siamo qui da almeno due ore! Ho dovu-to staccarti quella dannata flebo per svegliarti. -
Fissò disgustato la pozzanghera di pipì sul pavi-mento; pipì che gocciolava sia dal lettino sia da una gamba del mio pigiama.
Poi, con le braccia larghe e un paio di smorfie, si guar¬dò intorno: nel garage, oltre ai mucchi di cianfru-saglie lasciate dal precedente affittuario, c'erano solo il lettino, un grosso comò, uno specchio, un frigorife-ro, un lavandino e un bagno chimico.
Non c'erano finestre, ovviamente, solo pareti grigie; e l'aria, viziata, sembrava avere lo stesso colore.
Pareva un grande loculo, ma in disordine e senza fiori.
- Perché vivi in un garage, Shane? -
- Per vedere chi si fa i cazzi i suoi. E tu non sei uno di quelli. -
- Ma come hai fatto a ridurti così? Nemmeno un barbone vivrebbe qui dentro. -
Non era dispiaciuto del mio degrado, anzi, era ben contento di potermelo sbattere in faccia, così lo igno-rai e mi misi a sedere sul lettino.
Ahi. Avevo la schiena a pezzi, non stava in posi-zione eretta da parecchio tempo.
- Che giorno è? - chiesi.
- È giovedì. -
- Che data? Che mese? -
- Che mese?! - ripeté allibito. - Come sarebbe a dire che mese? È giovedì 4 maggio. Ma da quant'è che dormi? -
- Non sai proprio farteli i cazzi tuoi, eh? Dov'è Dar-ren? -
- Si sarà stufato di cambiarti il pannolone e di pulirti quell'uccellino che hai in mezzo alle gambe. -
- Si sarà pure stufato, ma è pagato per fare quello che fa. A te, invece, chi ti paga per essere così coglio-ne? -
Avvicinò la sua faccia alla mia, come un cane che fiu¬ta, e tirò fuori la lingua, schifato dalla mia fiatella.
Fui di nuovo costretto a schiarirmi la voce, non parlavo da parecchio tempo. - Vuoi un bacio, bellez-za? -
- Un cesso puzza di meno. -
- Ma una merda, no - ribattei, alitandomi su un pal-mo. - Ora dimmi che vuoi. Perché mi hai svegliato? -
- Silach è morto - rispose, pacato tutt'a un tratto.
- Bene. Ora che me l'hai detto, puoi tornartene a fanculo da dove sei arrivato. Ma torna pure a trovar-mi, se vuoi. Torna quando muori anche tu. -
Gli sorrisi velenoso, ma lui si allisciò quella sua ridi-cola frangetta spalmata sulla fronte e si coprì gli oc-chi. Cercava di tenerli fermi con le dita, come un compasso che si apre e si chiude, ma sbattevano an-che da chiusi; come la bocca, che si muoveva anche senza parlare.
Poi disse: - È stato ucciso, Shane... Verso mezzo-gior¬no, nemmeno quattro ore fa. - Respirò preoccupa-to, ma tornò subito viscido. - Datti una ripulita. Ci in-contriamo tutti allo Spirito tra un'ora. Carlsen è qui fuori, ti porta lui. Te la dai una ripulita, vero? -
Stavo per mandarlo a fanculo di nuovo, ma mi limi-tai a fissarlo con gli occhi socchiusi.
Basso e troppo largo, pareva il mostro del mostro di Frankenstein. Era più antipatico di quanto lo ricor-dassi. Lo avevo sempre odiato.
Avrei tanto voluto ridargli qualche schiaffone, non mi piaceva avere debiti, ma la situazione imponeva un certo contegno. In verità, però, malmesso com'ero, se fossimo venuti alle mani, avrebbe avuto facilmente la meglio.
Risentito per il mio silenzio, buttò le mani in avanti, come per lanciare un pallone da basket, e se ne andò.
Io scesi dal lettino solo dopo una decina di minuti, e caddi a terra, non muovevo le gambe da... cinque settimane esatte.
Dopo ogni risveglio, mi ci voleva sempre un po' di tempo per ricordarmi che il corpo pesa, che le cose sono dure, che i giorni... sono così veloci.
La realtà è così reale da esserlo davvero, aveva detto Erin una volta. Ma te ne accorgi solo dopo che sei caduta.
Che brutta faccia! Davanti allo specchio, quasi non mi ero riconosciuto. Passi la barba lunga, ma avevo più rughe e meno capelli di quanti ne avevo nei sogni, ed ero pure molto più brutto. Un vecchio che invecchia-va, così mi sentivo. Il problema è che non avevo nemmeno cinquant'anni.
Amen. Piangere di fronte a me stesso non mi avreb-be certo reso più bello né più giovane.
Inoltre, non avevo tempo da perdere: dovevo tor-nare a nanna prima possibile, dovevo tornare da mia moglie.
Attaccai quindi la pompa al lavandino, feci una doccia fredda e mi vestii. Tutto in dieci minuti.
Stavo per riabbassare la porta del garage e uscire, e invece rimasi a fissare la maschera sul comò: Lala, la Teletubbies gialla, la preferita di mia figlia, e non po-tei non pensare a lei.
Ma la mia bambina non c'era più, così me ne andai anch'io, e raggiunsi l'auto dell'altro coglione, Carlsen. 
Questa notte dove stai dormendo?
Sono dentro un attimo, che non ha tempo.
Strike The Head, Anche questa notte

ORE 16:30
Fuori dall'auto, soltanto nebbia. Il mondo sembrava una galleria con l'uscita sempre più in là, sempre do-po.
Immersi in quell'umidità, il sole era una luna diurna che nessuno avrebbe visto, e il pomeriggio, solo una sfumatura tra un grigio e l'altro.
Oltre ai continui sorpassi della polizia, dei pompieri e delle ambulanze a sirene spiegate, non si riusciva a vedere nient'altro.
Carlsen andava così piano che sarebbe arrivato in ritardo anche con una macchina del tempo.
Guidava con la testa bassa, come sotto l'ipotenusa di una mansarda, e non smetteva di pulirsi le unghie con le unghie, lanciando a caso le palline di sporco accumulato.
Che fastidio. Non si era mai tolto quello schifo di vi-zio.
Come se non bastasse, la macchina puzzava di... bara appena aperta, ecco. Sì, era proprio quel tanfo che avevo sentito in quell'unico giorno di lavoro al cimitero; o meglio, in quell'unico giorno di lavoro, punto.
Due settimane d'incendi in tutto il mondo. A parlare era la voce femminile di una radio locale. Le foreste e i bo-schi attorno alla nostra città, nonostante i tempestivi interven-ti, sono stati colpiti anche loro: siamo circondati dalle fiamme.
Adesso mi era chiaro il perché di quell'andirivieni di sirene. E mi era chiaro anche il motivo per cui i so-gni fossero in fiamme: il mondo bruciava e gli uomini sognavano il fuoco.
Ma non finiva lì. Infatti, a detta della radio, stupidi piromani di ogni nazionalità avevano iniziato a bru-ciare le auto, le case e ogni altra cosa capitasse loro a tiro.
Molto probabilmente si trattava di alcuni di coloro che sognavano il fuoco: un grottesco circolo vizioso, e tutto il mondo era in stato d'emergenza.
Carlsen cambiò stazione radio, nonostante il mio palese interesse. Cinque settimane prima, infatti, quando mi ero addormentato, lo avevo fatto in un mondo normale; o meglio, non in fiamme.
Gli lanciai quindi un'occhiataccia, ma non lo si po-teva guardare. Era più pallido di me, che prendevo il sole me¬no di un vampiro. Anche le labbra erano più screpolate delle mie. Un lebbroso ne avrebbe avuto pietà.
Sembrava uno zombi, forse uscito dalla bara di prima, ecco perché stava così curvo.
Riusciva a essere ipocrita pure in silenzio. Avevo sempre odiato anche lui.
Sentendosi osservato, si volse verso di me, come se avesse il torcicollo, e indicò le mie mani. - Come mai hai un filo al posto della fede? -
- È come farsi un nodo al fazzoletto - spiegai fissan-do il filo. - Lo fai per ricordarti qualcosa. È una cosa che si faceva una volta. Erin... lo faceva spesso. -
- E tu che cosa dovresti ricordare? -
Bella domanda! Non ricordavo affatto di averlo mes-so, né quando né perché.
Brutta domanda, però, da parte sua, perché stava a significare: cosa devi ricordare se dormi sempre?
- Devo ricordarmi... di non salire più in macchina di un coglione. -
Ci fissammo per alcuni istanti, poi, senza più niente da dirci, dopo circa un quarto d'ora, arrivammo final-mente allo Spirito, uno schifoso bar frequentato sia da quei ricconi che fanno finta di non esserlo, sia da quei poveracci che si comportano al contrario.
Mi facevano pena entrambi i gruppi, ma i primi un po' di più.
Fuori dalla porta, come ci vide, Pauli sgridò en-trambi, manco fossimo due ragazzini.
- Ma come caspita ti sei vestito, Shane? Jeans e camperos?! Pensi di essere a un rodeo? Perché l'hai fatto venire così, Carlsen? -
- Non è mica mio figlio - rispose lui seccato, non tanto da quel rimprovero, ma perché mi stava a fian-co.
- Non potevi farti almeno la barba? - continuò Pauli. - Sembri un tossico, diamine! -
- Ma ti sei visto, cazzo? - Cercai un difetto nel suo abbigliamento, non ne aveva, ma dovevo comunque controbattere. - Un tossico preferirebbe morire per overdo¬se, piuttosto che vestirsi come te. -
Entrai. I due imbecilli entrarono invece dopo un paio di minuti, per non farsi vedere con me. Ci siste-mammo nella sala fumatori, illuminata a zona da lam-pade basse; le poltroncine e i tavolini erano tutti uguali, vecchi e uno più schifoso dell'altro; in sotto-fondo, un jazz lento.
Oltre a noi, c'era poca gente seduta ai tavoli: un uomo e una donna, che si parlavano appena; due uo-mini, che neanche si guardavano; infine, due donne e un uomo, che non smettevano di ridere.
Ricarda, la moglie di Carlsen, era andata a prendere Marga all'aeroporto, e a breve ci avrebbero raggiunti.
Nell'attesa, ci perdemmo ognuno nei fatti propri, fra whisky e grappa gialla.
Carlsen era ipnotizzato di fronte al telefonino.
Pauli sospirava rumorosamente, fisso nel vuoto.
Io mi ero messo a fumare di fronte alla finestra, un rettangolo di cenere bagnata.
Non mi dispiaceva affatto per la morte di Silach. Non eravamo mai stati amici, non ero mai stato amico di nessuno di loro, e non li vedevo da due anni. Tutti loro facevano parte del gruppo dei primi.
Ci sono morti che ti mancano per sempre. Tanti vivi, invece, non vedi l'ora che spariscano una volta per tutte.
Io, per loro e per tutto il resto dell'umanità, ero uno di quei vivi, ed era una cosa reciproca.
Finalmente, dopo quasi mezz'ora, arrivarono Ricar-da e Marga. Ci sedemmo tutti.
Per un po' nessuno parlò, come un minuto di silen-zio per il morto, tra brevi sguardi reciproci.
Marga, invece, con un fazzolettino premuto contro il nasino perfetto, lanciava i suoi occhi egizi al pavi-mento, a sinistra e a destra.
- Chi può avere ucciso Silach? - attaccò Carlsen. - Conoscete qualcuno che ce l'aveva con lui? -
- Silach non aveva nemici, non ne ha mai avuti - ri-spose Pauli guardandomi invelenito. - Lui era davvero una brava persona. Qui, l'unico pezzo di merda sei tu, Shane. Lo sappiamo tutti quello che facevi prima di diventare la bella addormentata nel bosco. Non è che c'entri qualcosa? Scommetto che sai chi l'ha sgozzato e perché. -
- Vai a fanculo! - Mi scolai un bicchierino di grappa e ne riempii subito un altro. - Prova a ripeterlo e di sgozzati ce ne saranno due. -
- I bambini hanno finito? - chiese Ricarda, con quel-la sua irritante bocca larga di pesce all'amo, guardan-do me e Pauli fissi l'uno sull'altro.
Non sospettava davvero di me e sapeva bene che non c'entravo niente, gli dava semplicemente fastidio la mia presenza.
Ma allora perché mi aveva svegliato?
- Bene. Se avete finito, cerchiamo di comportarci tutti da persone civili. Non potrebbe essere solamente una rapina finita male? -
- Una rapina finita male?! - sbottò Pauli. - Ma se non hanno rubato nulla. E poi ti sfugge un piccolissimo dettaglio, Ricarda: dove diavolo è Luison? Perché il suo telefonino è spento? Diamine! Ti sembra un caso? Perché fai finta di niente? -
- Non faccio finta di niente. A differenza tua, io cerco di ragionare. -
Wow! Ero sveglio solo da un'ora e i colpi di scena si susseguivano serrati: Silach ucciso e Luison scompar-so; senza dimenticare il mondo a fuoco e gli stupidi piromani di ogni nazionalità.
- Qual è la tua idea? - chiesi a Pauli.
- E la tua qual è, genio? È chiaro, qualcuno ci sta uccidendo uno alla volta. -
- Ehi, adesso non facciamoci prendere dalla para-noia - suggerì Ricarda. - Capita spesso che Luison prenda e si faccia un giro nei boschi. -
- Boschi?! - Pauli diede una manata sul tavolino. - Ma se non c'è nemmeno un maledetto albero che non stia arrostendo! E comunque non spegne mai il cellulare. -
- Magari non prende - propose lei. - Magari si è scari-cata la batteria. Oppure, magari... Luison e Silach han¬no litigato, e... -
- Luison che uccide Silach? Luison che uccide qual-cu¬no? - chiese Pauli. - Ma non dire stupidaggini. Lui-son è morto, ci scommetto le palle. È stato ucciso an-che lui. - Guardò tutti con attenzione. A me, come se avesse voluto sputare a terra. Poi continuò. - Ascolta-temi bene. Dobbiamo beccare quel bastardo che li ha uccisi, e ucciderlo prima che uccida anche noi. -
- Smettila di dire che Luison è morto - ordinò Ricar-da. - E smettila anche di dire che vogliono ucciderci tutti. -
- Tu invece smettila di pensare che sia tutto norma-le - contrordinò Pauli. - Tieni a bada tua moglie, Carl-sen. O cerca di farla ragionare, diamine. -
Ricarda strinse denti e occhi, prima su Pauli, dopo sul marito, non intervenuto in sua difesa, e lo fissò promettendogli una severa scenata una volta tornati a casa. Poi congiunse le mani e parlò indispettita.
- Non si è trattata di una rapina, ok. Luison e Silach non hanno litigato, ok. Ma potrebbe tranquillamente essere una questione che riguarda solo Silach. Oppu-re, se anche Luison è morto, come dici tu, solo loro due. -
Prima di risponderle, Pauli fece un respirone. - Ascoltami. Sei libera di credere a tutto quello che vuoi, ma io non starò senza far niente sperando che tu abbia ragione. Anche tuo marito la pensa come me. Avanti, diglielo, Carlsen. -
Quest'ultimo annuì, e gli occhi della moglie con-fermarono e inasprirono la strigliata promessa.
- D'ora in poi, dobbiamo rimanere sempre insieme - continuò Pauli. - Tutti, pure tu, Rosaspina. E dobbia-mo muoverci in fretta, altrimenti, di questo passo, fi-niremo tutti belli che stecchiti nel giro di due o tre giorni. -
- E cosa vorresti fare? - gli urlai sottovoce. - Tu sei un imprenditore, Carlsen lavora in borsa, Marga è una pittrice e Ricarda una blogger. -
- E tu un ghiro di merda! -
Era stato ovviamente Pauli a continuare la mia li-sta.
- Sentimi bene, imbecille. Quello che voglio farti capire è che non potete fare proprio un bel niente. -
- Tu non puoi fare un bel niente. Non è quello che fai sempre? -
- Calmatevi, voi due - intervenne Carlsen, poco cal-mo. - Non siamo qui per litigare. Spero che Luison sia vivo, accidenti! Che non sia lui l'assassino e che sia davvero nei boschi. Ma per il momento lasciamolo perdere. Una cosa che possiamo fare c'è. Potrem-mo... - S'interruppe e mi fissò.
- Potremmo, che? - chiesi.
- Potremmo rivolgerci... - S'interruppe di nuovo, ma senza più fissarmi.
- Parla, cazzo! - Stavo esaurendo la pazienza. Non li sopportavo proprio.
- Se ci affidiamo alla polizia, siamo spacciati - conti-nuò Carlsen, grazie al cielo. - L'unica cosa che posso-no fare è sorvegliare le nostre abitazioni, ma solo per qualche giorno. Dopo, noi ci ritroveremo nella stessa identica situazione di adesso. Dobbiamo quindi rivol-gerci a qualcuno che ci protegga e che al contempo cerchi il responsabile. Dobbiamo rivolgerci... alla ma-lavita. -
- Malavita?! Ma come parli? Pensi di essere negli anni Venti? - Irritato, increspai un sorriso e li guardai male, come un necrologio di persone purtroppo anco-ra vive. - Adesso capisco: è solo per questo che mi avete svegliato. -
- No, Shane. Non è solo per questo - obiettò Carl-sen. - Sei qui perché sei in pericolo come tutti noi. Tu, però, sei anche l'unico che... -
- L'unico che ha agganci con la malavita? - Mi alzai furioso. - È questo che stavi per dire? Andatevene tut-ti a fanculo! Per voi, sono sempre stato soltanto un avanzo di galera. -
Pauli si alzò pure lui e mi si parò davanti, faccia a faccia. - Perché, non è quello che sei, Shane? -
Pensai di fracassargli una bottiglia sulla faccia, ma evitai di farlo, come prima al garage. Sveglio solo da poche ore, ero bello anchilosato, e me le sarei prese di santa ragione. Alzai quindi le mani, mostrando i pal-mi, e mi avviai all'uscita.
- Non svegliatemi più - dissi, girato di schiena. - Sve-gliatemi solo quando vi ammazzano tutti. -
- Sì, torna a dormire - urlò Pauli. - Ve l'avevo detto che sarebbe stato inutile chiamarlo. -
- Aspetta! - disse Marga, le sue prime parole.
Mi ero quasi dimenticato che ci fosse.
Lei era l'unica per la quale sarei rimasto, l'unica di loro che non odiavo, ma andai via lo stesso: non avrei mai accettato di incontrarli se non avessi dovuto ve-dermi con Milko, e lui mi stava appunto aspettando fuori dal bar. Ne avevo quindi approfittato per sentire le loro cazzate e levarmeli dai piedi una volta per tut-te. Ma anche per bermi qualche bicchierino e farlo pagare a loro.
Per quanto avessi rimandato il problema, era arriva-to il momento di affrontarlo: ero al verde e Milko era la soluzione.
Non avevo paura di finire in mezzo alla strada co-me un barbone, avevo paura di dormire come le per-sone normali, qualche oretta al giorno.
Per me, invece, era imperativo dormire in modo continuato: dovevo stare con Erin, dovevo sognare.
Inoltre, senza di me, i sogni... funzionavano male. 
I giuramenti, pure i più solenni,
son per il sangue come paglia al fuoco.
W. Shakespeare, La tempesta

ORE 18:00
La sera, sebbene appena iniziata, era già in fin di vi-ta. Le mezze atmosfere avevano fatto la stessa fine delle mezze stagioni.
Era un mondo in nebbia e nero, i soli colori rimasti.
Degli altri, solo qualche fuggevole comparsata: co-me l'insegna del bar rosso elettrico alle mie spalle, il semaforo verde intermittente in mezzo alla strada o il lampione blu appannato che si accese al mio passag-gio e che subito si spense.
Attraversato il parcheggio, salii in macchina.
- Chi si rivede - disse Milko. Mise in moto e partì.
- Come te la passi? -
- Meglio di te. Come mai sei sveglio? -
Rise ironico, e tutta la sua brutta faccia di iuta si raggrinzì intorno al naso storto e agli occhi scollegati; un pallone sgonfio che sembrava venisse preso a calci ogni volta che apriva bocca.
- Ma è vero che dormi per intere settimane? Da due anni? È vero che hai completamente perso la brocca? -
Stavo per mandarlo a fanculo, ma mi serviva il suo aiuto, così lasciai perdere. - Non ti ci mettere anche tu, per favore. Mi è già bastato l'aperitivo con quegli im-becilli. -
- I tuoi amici? -
- Non sono miei amici. -
- No, hai ragione. Noi non siamo tipi da averne... di amici. Eppure, il mese scorso prendo il cellulare e trovo delle chiamate di un vecchio amico. Si chiama Shane, lo conosci? -
- Piantala. -
- Sarà urgente, penso. Così lo richiamo, ma lui non risponde. Evidentemente la sveglia non era ancora suonata. -
- Neanche tu hai risposto, quindi siamo pari. Ora parliamo di cose serie: mi serve una mano, e mi serve per davvero. -
- Lo so, altrimenti non mi avresti telefonato quindici volte. Ma prima o poi, si smette di fare certe cose. -
- Mi stai dicendo che hai smesso di fare il briccon-cello e che sei diventato una persona perbene? - Mi accesi una sigaretta. - Ma per favore. -
- Infatti non parlavo di me. Ma di te. -
- Senti, finiscila. Mi servono dei soldi, Milko. Subi-to. -
- So anche questo. A quanto pare, per qualcuno, dormire non è più gratis. E sognare... gli costa addi-rittura di più. - Si guardò attorno con un ghigno. - Ti metterai nei guai. Non sei più quello di una volta. -
- Sì, invece - obiettai, ma poco convinto.
Mi guardò così dalla testa ai piedi, per sottolineare la mia totale mancanza di forma e di vigore, nonché di eleganza.
Ma ce l'aveva uno specchio a casa?
Sembrava vestito come un ottantenne in pensione da ottant'anni.
- Da quant'è che non ci vediamo, Shane? -
- Oh, cazzo. Hai sentito la mia mancanza, piccola? -
- C'è stato un periodo in cui ho avuto bisogno di te. -
- Bisogno di me?! Ma di che parli? In città è pieno di balordi disposti a fare di tutto per mettersi in tasca due spiccioli. E tu avevi bisogno di me? Ma falla fini-ta. -
- Avevo bisogno di uno con un po' d'esperienza. Uno che non mandasse tutto a puttane, come invece è successo. -
- Saranno passati almeno quattro anni da quella sto-ria. Io ero già fuori dal giro. -
- Certo. Trovi una bella moglie... ricca. Trovi dei begli amici, ricchi anche loro. E dopo un po', di punto in bianco, decidi di scordarti da dove arrivi. - Si girò verso di me, ma con gli occhi sulla strada. - Tu arrivi dalla fogna, amico. Come me. E anche se indossa una cinghia di coccodrillo, un giubbotto di cammello e una sciarpa di ermellino, un topo resta sempre un topo. -
Dura come cemento, la nebbia era attraversata da deboli striature granata; erano gli alberi ai lati della strada che salutavano infuocati.
Non si vedevano che pezzi di persone: gambe, braccia, schiene e cappotti, ognuno per i fatti propri; i volti galleggiavano in quel silenzioso oceano grigio e svanivano in fretta.
Passeggiavano indifferenti alla guerra, quella contro il fuoco, tra la polizia, i pompieri e gli infermieri, che correvano da una parte all'altra della città, in tutte le città del mondo.
- Avrei dovuto lasciare quella vita molto tempo prima. Ma quando è nata Elodie... è cambiato tutto. Quando l'ho presa in braccio la prima volta... - Do-vetti tacere alcuni istanti, o avrei pianto; ma anche per evitare di fare la figura del tenerone. - Tu che cosa avresti fatto al mio posto? Sentiamo. -
- La stessa cosa che hai fatto tu, ma con la differen-za che, sì, l'avrei fatto molto tempo prima. - Rise bef-fardo. - Devo continuare a fare il duro, perché è di questo che si è innamorata Erin: non ti ricordi di avermelo detto, vero? Certo che no, eri ubriaco mar-cio. Inoltre, diversamente da te, avrei salutato tutti i vecchi amici, mi sarei ubriacato con loro un'ultima volta e, di tanto in tanto, avrei fatto qualche soffiata su quei benestanti dei tuoi amici, in modo che potesse-ro spillargli qualche soldo. -
Scossi la testa, perché non erano miei amici e lui lo sapeva bene, voleva solo irritarmi.
- Cosa che invece non hai mai fatto. Sono in molti a esserci rimasti male. -
- Fammi questo favore, e giuro che cercherò di ri-mediare. -
Non ci pensavo per niente a rimediare. Non me ne fregava niente né di lui né degli altri del vecchio giro.
- Certo che te lo faccio. Credi che ti abbia richiama-to solo per vedere la tua bella faccia? L'ho fatto non appena mi è arrivato il messaggio che il tuo telefonino era di nuovo raggiungibile. -
- Di che si tratta? -
- È un lavoretto facile, e tu sei l'uomo giusto: devi rubare un libro. -
- Un libro?! Stai scherzando? -
- È un'edizione quasi unica, introvabile: Il sonno e i sogni di Aristotele. -
- Mi prendi per il culo? -
- Sì, in effetti potrebbe sembrare, ma non è così. - Rise divertito, per l'ennesima volta, e io iniziavo a non sopportarlo più. - Conosco un tizio disposto a sganciare un sacco di grana per quel libro e io so chi ce l'ha. Ti do venti bigliettoni da cento. -
- Preferirei fare un passaggio di coca o di erba. Op-pure... qualcos'altro. -
- O questo o niente. Senti, Shane, se ti sei rifatto vivo dopo tutto questo tempo, vuol dire che hai a ma-lapena i soldi per le sigarette. Forse, neanche quelli. La vecchia, una certa Amita Sartre, è fuori città, ma rientra a casa domani. Il lavoro quindi va fatto subito, stanotte. È co¬me... un segno del destino, non ti sem-bra? Ti sei svegliato appena in tempo. Allora, ci stai? -
- E va bene, cazzo! -
Non avevo altra scelta. Aveva ragione lui: avevo a malapena i soldi per le sigarette. Forse, neanche quel-li.
- Ascoltami bene: deve essere un lavoro pulito, e non deve sembrare un furto mirato. Dovrai quindi ru-bare altri libri e altre cose. Tutta roba che puoi tenerti. Io voglio solo il libro di Aristotele. -
Mi diede l'indirizzo e mi fornì alcuni dettagli, affin-ché rubassi la copia giusta, anziché una senza valore.
Poi fermò l'auto e ci salutammo, ma quando scesi mi trattenne.
- Aspetta un attimo. Non sei mai stato uno stupido, e non mi sembri nemmeno uscito fuori di testa. Hai un aspetto che fa schifo, sì, e puzzi di piscio agli aspa-ragi, ma questi sono tutti cazzi tuoi. Dimmi una cosa però: come riesci a essere sempre cosciente nei sogni? Io non sono mai riuscito a fare un sogno lucido. Sì, ci sono riuscito una volta, ma solo per caso. -
- Non si tratta di sogni lucidi. Si tratta di... Senti, lascia stare. Non ho voglia di parlarne. -
- Facciamo così, allora: insegnami a fare sogni lucidi e ti do altri venti bigliettoni. -
Stavo per ripetergli che non si trattava di sogni lu-cidi, ma non sarebbe servito a niente, così sbattei la porta e me ne andai via: non avrebbe creduto a quello che avevo scoperto, nessuno lo aveva mai fatto. 
Se c'è una morale, non so quale sia,
tranne che dovremmo scambiarci gli addii appena possiamo.
N. Gaiman, Sandman

ORE 19:00
Dopo aver lasciato Milko, ero andato al cimitero.
Soffocato dalla nebbia e dalla sua luce viscida, pa-reva un purgatorio di nostalgia creato per custodire una sola tomba, quella di mia figlia Elodie.
Inginocchiato davanti alla sua lapide, ne accarezza-vo la foto fredda e bagnata.
Ero arrabbiato, perché aveva un volto serio, in bianco e nero; sembrava lei dopo la morte, non prima, triste per essere morta.
Chissà chi era stato a sceglierla, non certo io ed Erin, all'epoca troppo infelici.
Doveva essere assolutamente cambiata; un proposi-to che, però, avevo sempre rimandato.
Mi guardai l'anello di filo: forse era di questo che dovevo ricordarmi. Strano però, perché oltre a non ri-cordarmi affatto di averlo messo al dito, era una cosa che non avevo mai fatto, tranne una volta, quando...
- Chi ricorderà i nostri ricordi? - domandò a un tratto una voce alle mie spalle.
Per il sussulto, roteai malamente su una caviglia, quasi cadendo, e sterzai lo sguardo: era Marga.
- Quando non ci saremo più, intendo. - La bocca piangeva al posto degli occhi; le parole, al posto delle lacri¬me. - Qualcuno ricorderà i nostri ricordi o andran-no perduti per sempre? -
Cercai una risposta, ma non avevo capito niente delle sue parole, così continuò.
- Quando Elodie morì, non fu solo la fine della tua famiglia, fu la fine di una storia. Lei era figlia di tutti noi. Per lei ero una seconda madre. - In effetti, era la sua madrina. - Le nostre vite torneranno mai normali, Shane? -
- Quelle vite sono sepolte lì sotto, con lei. -
Annuì con un sospiro dal naso e posò un fiorellino sulla tomba. - Sì, la morte uccide chi resta in vita: fa-miglie, amici... ricordi. Quindi non smetteremo mai di soffrire? -
- Forse, un giorno, tu ci riuscirai. Io non posso. Ri-cordarla e soffrire sono la stessa cosa per me. -
Mi tirai su, arrugginito, di fianco a lei.
Mi ero dimenticato di quanto la realtà potesse fare male. Lo dimenticavo sempre.
Nei sogni, invece, il dolore faceva meno male.
- Lo sai cosa dicono tutti di te? -
- Sì, che sono impazzito. -
- Dicono che dormi sempre, attaccato a una flebo. E che sei convinto di andare... nel mondo dei sogni. -
- È la verità. Il mondo dei sogni esiste. E posso di-mostrartelo, se vuoi. Devi solame... -
Mi afferrò delicatamente un polso, sempre fissa sul-la foto di Elodie. - Non devi dimostrarmi niente. An-che se fosse vero, io voglio che i miei sogni... restino sogni. - Abbassò lo sguardo. - Dicono anche che sei convinto di aver trovato Erin in quel mondo. -
- Mi ci è voluto molto, e non è stato facile, ma ci sono riuscito. Devi credermi: non sono sogni e basta. Quel mondo... -
- Siete felici? -
Stavo per dirle di sì, però preferii la verità, anche se non mi credeva. - Non lo so. Ma lì, perlomeno, lei non ha mai perduto Elodie, non l'ha mai... conosciuta. Lì, non ha mai tentato il suicidio e non è su un letto d'ospedale. Non sa nemmeno di essere nel mondo dei sogni. -
Il custode in bicicletta pestò la ghiaia del vialetto; la campana suonò soltanto una volta, ma a lungo, an-cora adesso; qualche tomba più in là, una donna scoppiò a piangere.
Marga si accese una sigaretta, bruciandosi la punta di alcuni capelli che il vento aveva schiaffeggiato e spinto sulla fiamma.
- Se non stai attento, finirai per confondere sogno e realtà, passato e presente. E la tua vita... la tua vita diventerà un incubo. È arrivato il momento di aggiun-gere una tomba, Shane. Lì... accanto a quella di tua figlia. -
Mi voltai per domandarle che diavolo intendesse con quelle parole, ma mi arrestai spaventato: aveva appiccicata in faccia della roba nera, che in parte co-lava.
Nonostante rimasi a bocca aperta, non riuscii però ad aprir bocca per alcuni secondi.
Sembrava neve, ma era nera, e iniziò a cadere co-piosa.
- Che cos'hai in faccia, Marga? -
- Ma da quanto tempo è che dormi? -
Quella domanda fu l'unica risposta che diede, ma io non ne capii il significato, e non ebbi nemmeno il tempo di chiedere chiarimenti. Infatti, prima salutò Elodie lanciandole un bacio, poi si congedò abbas-sando un mento di compassione rivolto a me, e infine rientrò nella nebbia, uno slargo di silenzi, come un fantasma del cimitero. 
Sharif
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