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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Eleonora Castellani
Titolo: Il silenzio delle rose bianche
Genere Romance Narrativa
Lettori 3162 30 48
Il silenzio delle rose bianche
27 giugno 2019
- Lucia, svegliati, Lucia! - la voce di mio marito interrompe il mio sonno.
- Mmm, altri dieci minuti... - farfuglio ancora a occhi chiusi voltandomi dall'altra parte.
- Lù, sono quasi le otto, la sveglia è suonata già da un pezzo! - ripete mentre con la mano mi sposta una ciocca di capelli dal viso.
- Come le otto? - con un balzo salto giù dal letto e cerco di connettermi con il modo.
Fabio, è già alzato e vestito in modo insolito, e per insolito intendo soprattutto la cravatta che sta sistemando sul vestito delle occasioni.
- Sei già pronto! Perché quella cravatta? -
- Questa sera festeggeremo una vittoria, ne sono sicuro! - Mi risponde con un sorriso soddisfatto.
- Di quale vittoria parli? - chiedo incuriosita.
Non so nulla, a parte che sta lavorando alacremente a un progetto cui tiene tanto, ma raramente me ne parla.
- Sono sicuro che la commissione tecnica sceglierà il nostro progetto - risponde con un tono deciso e compiaciuto.
- Bene, allora organizzerò una cenetta speciale, considerando che potremo festeggiare anche qualcos'altro. - .
- Sì, amore mio. Io penso al dolce, passo in pasticceria prima di rientrare. Pensavo di andare in quella che hanno inaugurato la settimana scorsa. - Risponde senza dare importanza a ciò che ho appena sottolineato.
- Ho sentito dire che fanno delle cheesecake alle fragole che sono la fine del mondo, potresti prendere quella, visto che è la mia preferita. -
- Va bene, allora cheesecake! Tu hai molti impegni? -
- No, anzi oggi mi sbrigherò presto: devo consegnare dei gadget di fine festa per compleanno dei gemelli, quelli che ti ho fatto vedere in foto, ricordi? Alle sedici, poi, deve passare la signora Ferri a scegliere i segnaposto per i suoi cinquant'anni di matrimonio, dopo di che avrò il resto del pomeriggio libero; giusto per organizzare una cenetta con i fiocchi. -
- Perfetto. Allora io vado. Ti amo, buona giornata! -
- Per quale ora pensi di rientrare? - Gli chiedo proprio mentre esce da casa.
- Non farò tardi, massimo per le otto e dieci sarò di ritorno. -
- Ti farò trovare la cena in tavola, te lo prometto. Buon lavoro. Ti amo! - riesco a dire mentre chiude il portone alle sue spalle.
Fabio e io stiamo insieme da cinque anni, ma siamo sposati da un mese. Credo che non potrei essere più felice di così. Lui è la persona migliore del mondo, un idealista. È un architetto, e i suoi progetti sono sempre rivolti agli altri.
Sta lavorando, infatti, a un progetto che prevede la realizzazione di un centro ricreativo per bambini disabili e le loro famiglie. Da quel che ho capito la commissione comunale si è finalmente espressa, seppur in via ufficiosa, ma oggi arriverà l'ufficialità, e la sua euforia è dovuta proprio a questo, visto che nonostante la mia battuta non ha proprio ricordato che domani sarà il nostro primo mese di vita matrimoniale.
Una sera, durante il nostro viaggio di nozze, mentre eravamo sul ponte della nave da crociera ad ammirare il sole sparire all'orizzonte, mi ha chiesto un figlio. Non mi aspettavo quella proposta, o almeno non così presto. E da allora è ciò che desidero di più al mondo.
Inizio anch'io la mia giornata.
L'aria di giugno mette sempre di buonumore, i colori vividi delle campagne, il vento tiepido e leggero. Viviamo al terzo piano in un condominio di cinque.
Lo Scalo, con il passare degli anni, è diventato sempre più popolato e il traffico sempre più caotico, ma la nostra è ancora una zona tranquilla, e dal balcone del salotto possiamo ammirare la nostra cara, vecchia Narni in tutto il suo splendore.
Ogni volta che esco in terrazzo, la guardo come fosse la prima volta, e mi torna in mente una vecchia canzone che sentivo canticchiare da mia madre, “Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato...”, carico di storia che solo le sue mura sanno raccontare.
Sbrigate le poche cose che avevo in agenda, mi dedico alla spesa e ai fornelli. La serata sembra adatta per apparecchiare in terrazzo, così preparo una bella tavola, e cerco di rendere tutto perfetto per “le” occasioni.
Soltanto mentre tolgo il grembiule e alzo gli occhi verso l'orologio appeso in cucina, mi rendo conto che Fabio è in ritardo.
Sono le 08:45, mi aveva detto che sarebbe stato di ritorno per le 08:10. Prendo il cellulare per comporre il suo numero, e nello stesso attimo qualcuno suona alla porta. Sorrido.
- Arrivo! - grido dal salotto. - Hai dimenticato di nuovo le chiavi? - Non è la prima volta, infatti, che esce da casa senza prenderle.
Mi sistemo l'abito sbarazzino che ho indossato per l'occasione, e con un sorriso smagliante apro la porta. Sorriso che si smorza subito.
Davanti a me ci sono un agente di polizia e un uomo in borghese. Una sensazione mi attraversa tutto il corpo, e non è affatto bella.
- B-buona sera! - dico fissandoli.
- È lei la signora Poggi? -
- Sì, so-sono io, perché? -
- Sono l'ispettore Valli, lui è l'agente Serra, possiamo entrare? -
Mi sposto leggermente per fare strada; qualcosa che sale in gola mi toglie il respiro.
- È sola in casa? -
- Sì, sto aspettando mio marito che dovrebbe essere qui a breve, perché? - ripeto con insistenza.
- Fabio Nori, è suo marito? -
- Sì! Perché? -
- Signora... ci dispiace, ma suo marito ha avuto un incidente, e... -
Non c'è bisogno che aggiunga altro, improvvisamente sento una voragine aprirsi sotto i piedi, inizio a precipitare nel più buio e profondo degli abissi.
Mi sento afferrare dai due uomini che mi accompagnano fino al divano.
- Signora, ci dica chi possiamo chiamare della sua famiglia - chiedono, ma le parole mi girano intorno, grevi, violente come schiaffi. Li fisso, e con un sibilo rispondo: - Federico Poggi, mio fratello. -
Vedo l'agente allontanarsi e tornare dopo pochi istanti.
- Suo fratello sarà qui tra pochi minuti, fortunatamente era in zona. -
Resto in silenzio, fisso il pavimento e non sento nessuna emozione, è come se qualcuno mi avesse strappato via anche l'anima. Non mi muovo, sono paralizzata da qualcosa che non ho mai sentito, non ho lacrime e non riesco a capire più nulla. Passano pochi minuti, che sono sembrati un'eternità, e sento entrare in casa trafelato e sconvolto mio fratello Federico. Viene di corsa verso di me e mi stringe a se, solo tra le sue braccia mi lascio andare al pianto più disperato.
- Dov'è? Come è successo? Vogliamo vederlo. - Federico si rivolge agli agenti con foga, nelle sue parole c'è ansia e disperazione. Mentre io non riesco a fare altro che piangere.
- Signor Poggi, capisco il vostro stato d'animo, se volete potete seguirci fino al luogo dell'incidente. I colleghi stanno facendo tutti i rilievi del caso. È accaduto in fondo alla via, a un paio di chilometri da qui. -
Le parole dell'ispettore hanno la stessa violenza degli artigli di una fiera che ti strappa il cuore. Federico annuisce, prende il mio soprabito e me lo appoggia sulle spalle. Usciamo dall'appartamento e seguiamo la volante.
Il silenzio in macchina è assordante, solo pochi minuti di strada e siamo già arrivati. La prima cosa che vedo è la sua borsa portadocumenti scaraventata a terra, una scarpa a un paio di metri da essa e più avanti, di almeno cinque metri, il telo bianco che copre il suo corpo.
I lampeggianti delle volanti sono le uniche cose che riesco a distinguere, il resto è solo un enorme sipario nero.
L'agente solleva con due mani il lenzuolo: - È suo marito? - mi chiede.
Non sono in grado di rispondere, la disperazione esplode in un urlo che squarcia la sera e corre lungo tutta le via.
Vengo spostata da una parte all'altra senza opporre resistenza, sento solo la presa forte di Federico che mi sostiene, il resto sono lacrime, lacrime, e ancora lacrime.
È tutto finito.
Non c'è più nulla nella mia vita. Quelle che seguiranno saranno ore tremende: le domande della polizia, l'inizio delle indagini, la speranza di trovare quel bastardo che non si è fermato a chiamare i soccorsi; la scelta della bara per il funerale. Eravamo sposati da un mese, e nella stessa chiesa, davanti allo stesso parroco dove avevo pronunciato quel “Sì”, dovrò dire addio per sempre all'uomo con cui volevo costruire una famiglia, e con il quale pensavo di invecchiare.

Sei settimane dopo
L'aria calda e soffocante di agosto toglie il respiro. Sono le quindici e non riesco ad alzarmi da questa panchina ormai resa rovente dal sole battente. Sto qui a fissare il vuoto e quasi spero che il caldo mi soffochi, mi stramazzi a terra, così che tutto possa finire. Finire come finiscono i sogni, finire com'è finito il mio ultimo barlume di speranza, al quale sono rimasta attaccata con tutte le forze, senza mai arrendermi. Ma non è servito a nulla.
- Signora Poggi? - La voce della dottoressa Deangelis mi chiama.
- Signora Poggi, ma che fa con questo caldo, sotto al sole? Rientri, venga a bere un po' d'acqua. -
La fisso per un lungo attimo, la dottoressa è una persona buona, è una specie di mamma per le sue pazienti, bassa di statura, dalle forme morbide, affettuosa e premurosa.
- Non ho più nulla da perdere, che importanza ha se il sole scotti o meno? Nessuna. -
- Non dica sciocchezze, potrei essere sua madre, e non ho intenzione di assecondare questi capricci. Venga rientri. -
- Perché continua a chiamarmi signora Poggi, sono settimane che sono ricoverata nel suo reparto e continua a chiamarmi signora. Mi chiami semplicemente Lucia. -
- Va bene, ti chiamerò soltanto Lucia, ma adesso vieni. -
- A quante donne succede? - chiedo, come a voler credere o sperare che il mio non sia un caso isolato, che io sia una tra tante.
È crudele, ma desidero che il dolore che sento adesso lo sentano anche altre donne. Non è giusto, lo so, è moralmente scorretto, ma se è toccato a me perché non può accadere anche ad altre?
- Quante donne sopportano, quante subiscono ciò che ho subito io e ciò che dovrò ancora sopportare? Dimmi, quante? - Continuo a chiedere alla dottoressa, che mi guarda, poi accenna una smorfia, e mi risponde.
- Lucia, vorrei dirti che sei l'unica, ma ciò aumenterebbe il tuo dolore e io mentirei. Tuttavia, anche la verità ti farebbe male, forse anche più della menzogna, perché la verità la conosci bene, e sai che ogni giorno ci sono donne che patiscono la medesima sofferenza. -
Ha ragione la dottoressa Deangelis, lo so perfettamente che ogni giorno nel mondo ci sono donne che perdono i loro figli, prima di metterli al mondo o anche dopo.
Sono ricoverata in questo ospedale da ormai sei settimane, dalla sera del funerale di Fabio, quando, nel rientrare a casa, sono svenuta davanti alla porta d'ingresso del mio appartamento, probabilmente devastata da un stress che non sono riuscita a sostenere.
Non ricordo nulla di quel momento se non la disperazione delle ore precedenti. Ricordo mio fratello Federico che mi sorreggeva, poi il vuoto. Mi sono risvegliata il giorno dopo in questo ospedale, non capivo, non sapevo, poi è entrata la dottoressa Deangelis in camera, si è messa ai piedi del letto, mi guardava con gli occhi della compassione.
- Come sta? - mi chiese.
- Come dovrei stare? Non lo so dottoressa, non so nemmeno cosa sia successo. Ricordo soltanto il funerale di mio marito, e... - Il pianto tornò a salire, non potevo trattenerlo, perché avrei dovuto d'altronde? L'amore della mia vita non c'era più. Qualcuno me lo aveva brutalmente strappato, perché avrei dovuto controllare i miei sentimenti?
- Non si agiti signora Poggi, cerchi di ritrovare la calma, faccia dei lunghi respiri. - Mi esortò la dottoressa. Io la fissai un attimo, volevo mandarla al diavolo. Dovevo calmarmi? Avevo tutto il diritto di essere disperata e di manifestarlo. Volevo urlare il mio dolore e invece lo soffocavo nei singhiozzi. Chi era lei per dirmi di stare calma?
- Voglio tornare a casa! - Esclamai convinta.
- Non è il caso signora, non oggi e probabilmente nemmeno domani. - Continuava ad avere un sorriso benevolo mentre mi parlava, ma io non l'ascoltavo.
- È stato soltanto un malore, ho salutato per l'ultima volta mio marito, e nel modo più crudele che la vita potesse offrirmi. Un malore, soltanto un malore. -
- Signora Poggi, so perfettamente cosa le è capitato, e ha tutta la mia solidarietà, ma non può tornare a casa, non nei prossimi giorni. -
- Perché? Voglio stare in pace, mi faccia parlare con qualcuno, chi è lei? Voglio tornare a casa, è stato un capogiro, non avevo più forze. Ho perso mio marito, lo capisce questo, vero? -
Non sono una persona scortese, né tantomeno sgarbata eppure ricordo che, mentre la dottoressa mi fissava, io non riuscivo a far altro che essere scontrosa, come se sentissi il bisogno di scaricare le mie angosce, le mie frustrazioni su qualcuno, e in quel momento quel qualcuno era lei.
- Sono la Dottoressa Deangelis, sono una ginecologa! - Si presentò con un tono di voce dolce e affabile.
- Bene, chi sono io già lo sa, visto che mi chiama con il mio cognome. E poi, con tutto il rispetto dottoressa, un capogiro, un malore dopo il funerale del proprio marito non vedo perché debba interessare a una ginecologa. La prego, mi dica cosa devo fare per lasciare questo posto. -
Soltanto adesso, nel ripensare a quei minuti, mi rendo conto che in me non c'era più un barlume di logica e di lucidità, ero soltanto prigioniera della mia disperazione.
- Signora Poggi! - La dottoressa alzò la voce di un tono, per ricevere l'attenzione che mi rifiutavo di darle, e soltanto allora continuò: - Il suo è stato un malore dovuto allo stress per le forti emozioni e per la perdita che ha subito, nessuno lo nega. C'è dell'altro però, e merita che lei mi stia ad ascoltare. -
Sbuffai e cercai di darle la mia attenzione, quasi come le stessi facendo un favore.
- Mi dica, cos'è questo altro? -
- Lei è incinta di cinque settimane e due giorni... -
La fissai, incredula, spaventata, turbata, probabilmente il mio volto traspariva tutte le emozioni che stavo provando e tutte le domande che avrei voluto porre, ma che non riuscivo a esprimere. Visto il mio smarrimento la dottoressa continuò.
- Ha capito bene, lei è alle prime settimane di una gravidanza, e tutto ciò che disgraziatamente le è accaduto può ben capire che non le sta giovando, e rischia di compromettere la gravidanza stessa. -
Continuavo a fissarla, sentivo il cuore in gola, ma non riuscivo a capire se era gioia, dolore, o paura. Sentivo solo tanto smarrimento, e fu in quel momento che mi resi conto che avevo un ago in un braccio ed ero attaccata a una flebo.
Affondai la testa nel cuscino, e voltai lo sguardo verso le finestre, in silenzio.
- Capisco il suo smarrimento, la lascio un po' da sola, più tardi quando avrà metabolizzato la cosa, ripasserò da lei, e parleremo più tranquillamente. -
Restai a guardare fuori dalle finestre in silenzio, poi mi lasciai andare a un pianto disperato, silenzioso e composto.
Lasciai scorrere via lacrime e dolore. Avrei dovuto essere felice.
“Facciamo un figlio!” Mi aveva chiesto Fabio pochi giorni prima, invece quel figlio c'era già e noi non lo sapevamo ancora.
Sono rimasta in questa stanza per sei settimane, la gravidanza si è mostrata da subito difficile, e le mie condizioni psichiche di certo non sono state d'aiuto. Ho cercato di essere forte, di difendere a spada tratta l'ultimo immenso regalo che Fabio poteva farmi.
Non è servito a nulla. Ieri la mia piccola goccia di vita a smesso di esistere, a undici settimane e tre giorni è scivolata via. Non sono stata in grado di trattenerla, di difenderla. In sei misere settimane ho perso mio marito e il dono più grande che la vita potesse farci. In sei settimane ho smesso io stessa di vivere, perché adesso tutto vedo tranne il senso della mia esistenza


- Domani potrai tornare di nuovo a casa. Sarà difficile, lo capisco, ma tutte le volte che vorrai, potrai venirmi a cercare, io sono qui. -
- Grazie dottoressa, ne avrò bisogno. -
- Facciamo un patto: tu sei soltanto Lucia, e io per te sarò semplicemente Anna. -
Sorrido, nella disgrazia e nel dolore, penso di aver trovato un'amica. Non che io non ne abbia, sono ricoperta di attenzioni: ho le mie amiche Susanna e Beatrice – che chiamo Susy e Bea –, mia madre, mio fratello, sono piena di affetto ma anche di tanta commiserazione, e la cosa mi devasta ancora di più. Se non avessi loro al mio fianco sicuramente sarebbe tutto peggiore, anche se non so davvero, peggio di così come possa essere.
In queste settimane la vicinanza di Anna è stata fondamentale, ha la stessa età di mia madre, pertanto ha la giusta misura, la giusta esperienza, il giusto distacco per confortare la vita devastata di una trentenne come me.
Mia madre è unica, ma nel mio dolore è coinvolta anche lei. Io mi sento vuota, persa, intrappolata in una realtà che non voglio, in una realtà che sto semplicemente subendo. Nonostante tutto però, se rifletto su mia madre, non faccio altro che pensare che non vorrei mai vestire i suoi panni.
Anche lei ha perso un figlio, è così che considerava Fabio, un figlio; ha perso la speranza di veder nascere un nipote, e sta perdendo lentamente me, che non riesco e non faccio nulla per reagire.
Eppure, mia madre ogni giorno viene a trovarmi, varca la porta della mia camera d'ospedale con il migliore dei sorrisi, con un - buongiorno amore, oggi ti vedo bene, stai meglio! - Mente, sapendo di mentire.
Il sorriso non maschera i suoi occhi gonfi di dolore, sono sicura che passa le ore del giorno e della notte a piangere per Fabio, per me, per la vana speranza di una nuova vita che adesso non c'è più. Per il dolore che sa che sto sopportando, e di cui probabilmente si sente impotente e, nonostante tutto, so che vorrebbe strapparlo via a me per farsene carico lei. Dunque è così che si sente una madre? Davvero ella sopporta stoica anche i dolori dei propri figli? Forse io non sono pronta, forse il mio piccolo miracolo lo aveva capito. Aveva capito che non sarei stata in grado di proteggerlo nel giusto modo e mi ha lasciata. Sento un gran senso di colpa, e continuo a ripetermi che mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.
Anna, in queste settimane, mi è stata davvero vicina, mi sono chiesta diverse volte il perché, e la risposta che mi sono data è stata sempre una: le faccio pena. Da sempre fa un lavoro straordinario, da sempre aiuta le donne a mettere al mondo vite. Probabilmente ha preso a cuore la mia storia. Mettere al mondo una nuova vita avrebbe potuto aiutarmi a superare tutto, avrà pensato. Questa volta non c'è riuscita, e io dovrò affrontare il dolore armata di altro dolore. La sua presenza però in qualche modo mi conforta. Spesso è entrata in stanza, si è seduta sul mio letto e abbiamo iniziato a parlare. Non mi ha mai chiesto di Fabio, dell'incidente, se così vogliamo considerarlo, mai una parola.
È stata sempre attenta a portare il discorso altrove, e ogni volta, appena lei usciva e mi lasciava sola sul mio letto, io mi rendevo conto che in quei minuti di conversazione non pensavo più a nulla. È una brava dottoressa, e forse anche una buona amica.
Domani torno a casa, tutto cambierà. Domani il mio dolore non sarà soltanto fisico e mentale, diventerà anche materiale; tornerò tra le mie cose, tra le nostre cose. Aprirò l'armadio e troverò i vestiti di Fabio. Mi infilerò nel letto e abbraccerò il suo cuscino. Prenderò tra le mani la sua tazza da latte preferita, la sua tuta blu vecchia di dieci anni, ma guai a chi gliela toccava. Il plaid sul divano, troppo piccolo per entrambi, adesso sembrerà enorme per me soltanto.
Ieri ho ricevuto un messaggio dal fotografo del nostro matrimonio.
“Signora Poggi, il book fotografico del matrimonio è pronto, quando vuole può passare a ritirarlo” scriveva.
No, io non riuscirò a sopportare tutto questo, io non voglio sopportare, io voglio chiudere gli occhi, addormentarmi e scivolare via da questa vita. Poi penso alle persone che amo, a mia madre: con quale coraggio potrei sovraccaricarla di altri dispiaceri?
Domani uscirò da questo ospedale, e dovrò essere forte. Mi farò accompagnare alla tomba di Fabio, gli porterò una rosa, parlerò con lui e so che mi aiuterà.
Andrò anche alla polizia, devo andarci, voglio sapere se le indagini stanno procedendo. Devo trovare in me la forza necessaria per affrontare tutto, perché voglio vedere in faccia chi mi ha distrutto la vita, soltanto in quel momento potrò tornare alle mie fragilità. Devo spezzare la catena che mi imprigiona l'anima, trasformare la mia sofferenza in determinazione e usarle per ottenere verità e giustizia.
In questo tempo, nell'affannato desiderio di portare avanti la gravidanza, è stato come se avessi respirato in un sacchetto di carta, poca, pochissima aria rarefatta. La mia priorità era la mia futura maternità, non ho pensato ad altro. Il piccolo ha capito tutto prima di me, che madre sarei stata se prima di ogni cosa non lotto per conoscere la verità dei fatti? Domani, riprenderò in mano la mia vita, e troverò tutta la forza necessaria per capire cosa è successo quella sera. Io, Fabio, e ciò che stavamo costruendo, meritiamo giustizia.

È tutto pronto, ho sistemato le mie cose nella borsa e aspetto che qualcuno mi venga a prendere. Non ho capito ancora chi, mia madre ha detto che sarebbe venuta lei, poi Bea e Susy si sono offerte di venire loro. Io sono qui, seduta sul letto ad aspettare.
- Sei pronta? - mi chiede Anna entrando nella stanza.
- Sì, sto aspettando qualcuno che mi aiuti con la borsa e le varie cose. -
- Lucia, questo è il mio numero di cellulare, non esitare nemmeno un attimo a chiamarmi, per qualsiasi motivo, a qualsiasi ora, non esitare. - Anna è affettuosa, lo nego a me stessa, ma in realtà so che avrò bisogno di lei. In queste settimane ha saputo ascoltarmi, e temo che dovrà farlo ancora.
- Tranquilla, ti prometto che ti chiamerò presto, anche se non dovessi averne bisogno. - Le sorrido, anche se mi riesce ancora difficile farlo.
- Allora, sei pronta? - È la voce allegra di Bea che irrompe nella stanza, sembra sparata da un megafono.
Anna si volta verso di lei e le sorride. Bea è un anno più piccola di me, ci conosciamo da sempre, è stata la fidanzata del migliore amico di Fabio per anni.
Erano poco più che bambini quando iniziarono la loro love story, poi un bel giorno, si ritrovarono a ridere come scemi per le battute di un film che in realtà avrebbe dovuto far piangere, si fissarono negli occhi e si dissero: - Io non ti amo più. -
Se la cosa andò realmente così non lo saprò mai, ma da quel giorno si lasciarono. Continuano a essere buoni amici e la cosa ci diverte, perché si vogliono un bene fraterno.
Bea è una pila sempre carica, se non ha nulla da fare se lo inventa, è sempre allegra, ironica e spesso svampita. In queste settimane non è mai mancata la sua presenza, ha fatto di tutto per farmi sorridere, ma ancora non c'è riuscita.
- Dai, io prendo la borsa e tutto il resto, tu prendi la cartellina delle dimissioni. - È imperativa, le sue direttive non si discutono, accenno un sorriso forzato e lei continua: - Giù al parcheggio c'è Susy che ci aspetta, non abbiamo trovato un posto libero, così è rimasta in macchina. Arrivederci dottoressa Deangelis! -
Guardo Bea con occhi sconsolati, e forse è la prima volta dopo tante settimane che sentirla parlare mi regala di nuovo quel sapore di spensieratezza che mi sembra di aver dimenticato.
- Ciao Anna, grazie ancora di tutto, ti prometto che ci sentiremo presto. -
- Ciao Lucia cara, io sono qui, per qualsiasi cosa, anche solo per un caffè e due chiacchiere, non lo dimenticare. -
Anna mi stringe a sé in un abbraccio che sa di buono, e io contraccambio con altrettanto affetto.
- Te lo prometto, ti verrò presto a trovare. -
Carica delle mie cose, Bea si avvia per il lungo corridoio, io la seguo senza dire nulla. Faccio fatica a credere che per quasi sei settimane questa è stata la mia casa. Speravo servisse a qualcosa, invece non è servito a nulla. Sento Bea borbottare, ma non ascolto cosa sta dicendo, mi sento stranamente bene, è come se lentamente la voglia di tornare a vivere si sta riaffacciando alla mia mente. Merito di mia madre, di Anna, delle pazze amiche che ho, merito dell'amore che mi circonda, e soprattutto merito dell'obbiettivo che mi sono posta: dare un nome al pirata della strada che mi ha strappato l'amore della mia vita.
- Lù! Amica mia, come stai? Sono così felice di riportarti a casa. -
Ed ecco l'altra pazza, Susanna, quella che io chiamo Susy. Lei è la tranquilla del gruppo, la precisa delle tre, quella che guarda il mondo con gli occhi di una bambina, anche se ha trent'anni. Ci prendiamo spesso gioco della sua fanciullezza, lei fa finta di arrabbiarsi, poi ci ride su, sa perfettamente che siamo legate da un'amicizia molto più giovane rispetto a quella con Bea, ma che sarà difficile spezzare.
Il giorno del mio matrimonio loro erano le mie damigelle, sono state al mio fianco fin dal mattino, abbiamo riso e pianto come pazze, e quel giorno ci siamo rinnovate la promessa che ci saremo sempre state l'una per l'altra.
Anche il giorno dell'addio a Fabio c'erano, non hanno sbracciato per starmi accanto. Sono rimaste in silenzio, composte nel loro cordoglio, sempre dietro di me come fossero silenziose guardie del corpo. Loro sono il mantello caldo che tutti dovremo avere, quando dentro di noi si annida il più freddo dei dispiaceri.
Scende dalla macchina e con le braccia aperte mi viene incontro. Stiamo nel parcheggio dell'ospedale, Bea lascia cadere le borse a terra e ci ritroviamo tutte e tre strette in un abbraccio, e sento di nuovo il calore di quel mantello chiamato amicizia.
- Avete intenzione di soffocarmi, o di portarmi a casa? - chiedo.
- Dritte a casa, sali pure in macchina, io metto la borsa nel bagagliaio - risponde Bea. Mentre Susy sale e avvia il motore.
- Troverai un comitato di accoglienza non indifferente a casa, sai? - dice Susanna.
- No, non dirmelo? Non ho voglia di vedere nessuno tantomeno di conversare - sbuffo.
- Capisco, ma cerca di capire anche tua madre - interviene Bea - è stata così in pena queste settimane, ma nonostante tutto ha tirato fuori tutta la sua forza. Saperti di nuovo a casa le riempie il cuore. -
- Lo so Bea, non discuto, e apprezzo ogni singolo gesto che mi rivolge, è che... - non finisco la frase, Susy capisce che c'è qualcosa.
- È cosa? - mi chiede.
- Voglio andare a casa, infilarmi sotto la doccia e restarci il più possibile. Voglio andare da Fabio e stare un po' con lui, lì da sola, ne ho bisogno. -
- È comprensibile, ma vedrai, nessuno te lo negherà; anzi se vuoi ti accompagniamo, noi restiamo in macchina e tu ti prendi tutto il tempo necessario. -
Beatrice non si risparmia mai e io lo apprezzo.
- Vi ringrazio ragazze, ma no. Non ce n'è il bisogno credetemi, e poi... voglio andare anche in un altro posto. -
- Dove? - chiedono in coro.
- In Questura. -
- Alla polizia? Perché? Ci sono novità? - chiede Susanna.
- No, non ci sono novità, ma io le pretendo, mio marito è stato ammazzato e voglio avere la certezza che chi ha commesso questo crimine non resti impunito. -
Nell'abitacolo della piccola utilitaria di Susanna scende il silenzio, nessuna delle due aggiunge nulla, e io stessa evito di dire altro.
Percorriamo ancora qualche chilometro di strada, poi Susanna afferma: - Hai ragione, è un tuo sacrosanto diritto sapere come sono andate le cose e trovare quel maledetto, noi saremo al tuo fianco, sempre. -
- Sì, non ti lasceremo mai da sola, conta sempre su di noi. - Aggiunge Bea, motivata come non mai.
Mi sento commossa, i miei nervi sono sotto stress da troppo tempo, e la fragilità delle mie emozioni non mi aiuta, ma sono orgogliosa di avere delle amiche così, in cuor mio so che non sarò mai sola, anche se sicuramente sentirò di esserlo più di quanto immagino.
Siamo arrivate al parcheggio del condominio, alzo gli occhi verso il balcone al terzo piano, dove si trova il mio appartamento. I bulbi che Fabio aveva piantato nei vasi sono sbocciati per tutta la lunghezza del terrazzo, vasi di fresie, dalie e gladioli dai colori variopinti. Ricordo il giorno che comprammo i vasi, il terriccio e decine di bulbi.
- Non ne nascerà nemmeno uno - gli dissi ridendo. Invece adesso il nostro balcone è il più fiorito del condominio.
Mi sembra un paradosso, l'appartamento a cui è stata strappata la vita, è quello più vivo, sembra quasi allegro.
So per certo che, dei fiori di Fabio, se n'è occupata mia madre, passa ore nel suo giardino, sarebbe capace di far sbocciare nuovi boccioli anche ai fiori di plastica. Salgo da sola con l'ascensore, lasciando Bea e Susy parcheggiare e prendere i bagagli.
Appena arrivo al piano, le porte si aprono, la trovo lì, davanti alla porta ad aspettarmi, la guardo, ed è la prima volta in queste settimane che la vedo invecchiata. Ha sofferto, sta soffrendo, solo come una madre può soffrire il dolore dei figli. Non dico nulla, mi avvicino, ho solo bisogno di un suo abbraccio. Senza dire niente, nel silenzio assoluto, c'è tutto l'amore di una madre verso la propria figlia. Non c'è mai stato tra di noi un eccesso di smancerie, anzi, non siamo proprio avvezze a baci e abbracci. Abbiamo riso spesso su questa nostra apparente anaffettività, dico apparente perché, proprio adesso, mentre mi strige forte tra le sue braccia, sento tutto il suo amore.
- C'è anche papà in casa. - Mi avverte della presenza di papà, perché sa che al contrario di lei, non riesce a trattenere e controllare le sue emozioni. So che non appena mi vedrà farà un colpo di tosse e non riuscirà trattenere le lacrime. Mio padre è così, lo è sempre stato, tanto forte quanto fragile.
- Ciao papà, tranquillo, va tutto bene - gli dico prima che le emozioni prendano il sopravvento. Lui accenna un sorriso e il colpo di tosse non manca, ma si fa forte, e con mio grande stupore riesce a trattenere le lacrime.
- Come stai? - mi chiede premuroso.
- Passerà papà, non so ancora quando, ma passerà. -
Mi guardo intorno, mi sembra di essere mancata una vita, eppure è casa mia, i miei mobili, i miei oggetti... anche se adesso faccio fatica a riconoscerla, sembra tutto così vuoto.
Mi volto verso il divano e noto un grande pacco poggiato alla parete, sarà largo un metro, alto almeno un metro e trenta, forse un metro e quaranta; è avvolto nella classica carta da pacchi marrone.
- Cos'è? - chiedo guardando mia madre.
- È lì da diversi giorni, era troppo grande per portartelo in ospedale e ho pensato che lo avresti aperto quando saresti tornata. -
Non ricordo di aver fatto un ordine così ingombrante. Dalle dimensioni mi viene spontaneo pensare che sia un poster di qualche progetto, sicuramente Fabio lo stava aspettando, magari ne hanno bisogno in ufficio i suoi colleghi. - Da quanti giorni è qui? - chiedo a mia madre.
- È stato consegnato tre giorni dopo... - si blocca prima di terminare la frase.
- Tre giorni dopo che me lo hanno ammazzato, mamma. Chiamiamole per nome le cose, perché di questo si tratta: mio marito è stato ammazzato ed è stato lasciato lì, sull'asfalto. - Le inveisco contro senza motivo, ma con rabbia, tanta rabbia; lei resta in silenzio, ancora una volta comprensiva.
Mi rendo conto da sola che non è con le persone che mi amano che dovrei sfogare il mio rancore. Io non sono così, ma ciò che è accaduto nella mia vita, mi sta cambiando, mi sento cattiva dentro. Sento la rabbia crescere in ogni momento.
- Scusa mamma, sono soltanto molto stanca e molto nervosa. - Provo a giustificarmi e mi volto ignorando il pacco.
- È per te. - afferma lei.
La guardo con aria interrogatoria, poi ribadisce: - Il pacco è per te, lo ha consegnato un ragazzo e quando l'ho ritirato mi ha lasciato delle specifiche precise. -
La guardo smarrita, continuo a non capire. - Che vuoi dire? Che specifiche? - chiedo.
- Il giorno che è stato consegnato il fattorino si è raccomandato che fosse consegnato nelle tue mani. E il mittente ha inserito un biglietto all'interno. -
Eleonora Castellani
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