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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Patrizia Rinaldi si è laureata in Filosofia all'Università di Napoli Federico II e ha seguito un corso di specializzazione di scrittura teatrale. Vive a Napoli, dove scrive e si occupa della formazione dei ragazzi grazie ai laboratori di lettura e scrittura, insieme ad Associazioni Onlus operanti nei quartieri cosiddetti "a rischio". Dopo la pubblicazione dei romanzi "Ma già prima di giugno" e "La figlia maschio" è tornata a raccontare la storia di "Blanca", una poliziotta ipovedente da cui è stata tratta una fiction televisiva in sei puntate, che andrà in onda su RAI 1 alla fine di novembre.
Gabriella Genisi è nata nel 1965. Dal 2010 al 2020, racconta le avventure di Lolita Lobosco. La protagonista è un’affascinante commissario donna. Nel 2020, il personaggio da lei creato, ovvero Lolita Lobosco, prende vita e si trasferisce dalla carta al piccolo schermo. In quell’anno iniziano infatti le riprese per la realizzazione di una serie tv che si ispira proprio al suo racconto, prodotta da Luca Zingaretti, che per anni ha vestito a sua volta proprio i panni del Commissario Montalbano. Ad interpretare Lolita, sarà invece l’attrice e moglie proprio di Zingaretti, Luisa Ranieri.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: Gabriella Grieco
Titolo: Colpevole - La mia morte è la tua
Genere Thriller
Lettori 3426 30 48
Colpevole - La mia morte è la tua
Da questo romanzo, il primo della serie “Colpevole” è stato girato l'omonimo film.

Quinto passo, la costrizione.

Oggi, 18 maggio, ore 8.30 Finalmente era pronta.
La sede del commissariato si trovava in un palazzo a forma di L, con il lato più lungo che guardava il mare e quello più corto che sul retro godeva della gradevole vista degli alti alberi antichi della Villa cittadina e delle sue aiuole fiorite.
Sebbene fosse maggio inoltrato, a quell'ora del mattino faceva ancora fresco e la lunga giacchetta di tela della donna, abbottonata quasi fino al collo, non destava alcun sospetto.
Isabella salì i tre gradini di marmo della Questura e varcò con passo tranquillo l'ingresso del commissariato, rivolgendo un sorriso al piantone di guardia.
“Se ti rivolgi a qualcuno sorridendo in modo gentile” pensava, “e avanzi con l'aria sicura di chi sa dove andare, difficilmente lo invogli a fare domande indiscrete sulla tua presenza”. Inoltre, il suo aspetto mite le faceva gioco. Era soltanto una donna di mezza età ancora piacente, vestita con un semplice tailleur pantalone e mocassini di pelle scamosciata.
Sapeva perfettamente come raggiungere la sua destinazione. Nei mesi precedenti si era recata più volte, a vario titolo, nell'edificio. Portava una borsa a zainetto sulle spalle, non piccola ma nemmeno tanto grande da destare sospetti e spingere il piantone a controllare.
Si sa, le donne mettono di tutto nelle loro borse.
Per sua fortuna il commissariato non presentava rivelatori di metallo agli ingressi per il pubblico.
Aveva anche pensato a più complesse soluzioni alternative, ma era evidente che nessuno si aspettava che entrassero cittadini armati proprio lì, nel tempio dei custodi della Legge. Salì la rampa di scale che la portò al primo piano, inoltrandosi nel corridoio scarsamente affollato. Il suo obiettivo era la quarta e ultima porta prima dell'ascensore sulla destra. Una targhetta di plastica avvitata sul legno recava la scritta “Ispettore Capo Lamberti”. Evidentemente, l'uomo aveva
fatto carriera in quei cinque anni.
«Quando uno merita...» borbottò ironica tra sé e sé. Portava al collo un piccolo registratore vocale, seminascosto dalla giacca. Lo accese con un gesto rapido. Era predisposto per mettersi in funzione al suono della voce e per andare in stand by dopo dieci secondi di silenzio.
Bussò alla porta.
«Permesso?» chiese mentre già varcava la soglia.
«Prego.»
L'uomo seduto alla scrivania rispose senza alzare lo sguardo dalle carte che aveva davanti. Dimostrare di essere molto impegnato era una tecnica già rodata per sbrigare in fretta i seccatori. Isabella entrò nell'ufficio. Era una stanza di discrete dimensioni, ma talmente ingombra da risultare quasi soffocante. Sulla destra una parete ingiallita recava un orologio da muro e il cartello “vietato fumare”. Lungo la parete di sinistra si incontrava per prima cosa un tavolo ricoperto di carte e faldoni, poi una più ampia scrivania occupata da un uomo intento a leggere dei documenti. Sul fondo, una finestra si affacciava sul mare increspato.
Il poliziotto aveva un viso regolare, privo di tratti distintivi. Capelli corti appena brizzolati, sopracciglia un po' troppo perfette per essere naturali. Nulla di più. Era alto, lo si intuiva anche da seduto, ma il suo restava un volto anonimo.
Isabella diede un opportuno colpetto di tosse e girò silenziosamente la chiave nella serratura, senza che il poliziotto - ancora a capo chino - si accorgesse di nulla. Poi si avvicinò alla scrivania, slacciò la giacca che la celava e impugnò la Beretta semiautomatica che portava appesa a tracolla con una cinghietta di pelle. Aveva studiato a lungo prima di scegliere quale arma procurarsi, poi a casa aveva fatto diverse prove per controllarne la maneggevolezza e l'impugnabilità. Non aveva mai posseduto una pistola e voleva essere certa di adoperare quella più adatta alla sua mano e di acquisire la giusta confidenza. Si era esercitata in luoghi isolati fino a riconoscerla come una sua estensione; in questo modo avrebbe dimostrato di saperla usare e di non avere alcun timore nel farlo.
Non disse nulla, aspettando che il poliziotto la guardasse per la prima volta.
«Prego, si sieda» disse lui mentre richiudeva la cartellina.
«Mi dica pure...»
Alzò finalmente lo sguardo e sobbalzò alla vista della pistola puntata contro di lui.

Isabella temeva che la voce le tremasse. Nella sua vita non aveva mai avuto a che fare con la violenza, per cui ora interpretava un ruolo che non le era congeniale, ma la sua vita era profondamente cambiata e lei di sicuro non era la stessa persona di cinque anni prima.
Il suono le uscì aspro e tagliente, ma tranquillo.
«Sta' zitto e fai come ti dico.»
Anche la sua mano era ferma mentre reggeva l'arma. Aggiunse:
«Alza le braccia e incrocia le mani dietro la nuca.»
«Ma cosa... cosa vuole?»
Il poliziotto era sconcertato, non avrebbe mai creduto possibile una cosa del genere lì, al commissariato. Era una squilibrata? Sembrava troppo calma. Una terrorista, allora?
Lei sembrò intercettare quelle riflessioni.
«Non muoverti e non parlare. Non pensare neppure.»
Sfilò lo zainetto dalla spalla, lo aprì con la mano libera e ne tirò fuori un paio di manette e una fascia elastica per capelli. Posò i due oggetti sul ripiano della scrivania.
«Prendi lentamente con la mano sinistra le manette e la fascia, poi rimettiti nella posizione di prima, mani dietro la testa.»
Una volta che l'uomo ebbe eseguito gli ordini ingiunse ancora:
«Ora alzati in piedi e allontanati dalla sedia. Cammina lungo la parete. Okay, fermo e faccia al muro.»
Stava bene attenta a tenersi a distanza dall'ispettore. Non aveva idea di come avrebbe potuto reagire e sapeva di non essere in grado di sostenere uno scontro fisico. Per il momento l'uomo sembrava accondiscendente, ma era logico pensare che stesse prendendo le misure per capire con chi avesse a che fare.
«Qualsiasi cosa abbia in mente» le disse il poliziotto mentre volgeva il viso contro la parete, «sta commettendo una sciocchezza. Si rende conto che siamo circondati da agenti e che non appena capiranno cosa sta succedendo interverranno? Che speranze crede di avere contro un intero commissariato? Le spareranno senza esitare. Vuole forse morire così?»
Cercava di spaventarla, ma non ebbe successo.
«La morte è un'opzione prevista e accettabile» rispose lei, in tono freddo e distaccato. «Ora inginocchiati.»
Alla sua esitazione nell'obbedire aggiunse:
«Posso anche spararti a una gamba e ottenere lo stesso risultato. Scegli tu.»
Il poliziotto avvertì l'approssimarsi della paura. Non riusciva a catalogare la donna. La gelida calma delle sue parole contrastava con la pericolosità del suo comportamento. Si inginocchiò.
«Ora metti la fascia sul viso a coprirti gli occhi.»
Lei aveva preparato ogni parola, ogni mossa. Non poteva rischiare una reazione improvvisa. Mantenere il controllo era fondamentale quanto tenere sotto tiro il prigioniero.
«Maledizione, ma che vuoi da me?» protestò l'uomo mentre obbediva, conscio di consegnare la propria vita nelle mani di quella pazza.
«Porta le braccia dietro la schiena e ammanettati. E stringi bene!»
A casa aveva provato, si poteva fare.
Solo dopo che Lamberti si fu stretto le manette ai polsi, si avvicinò per controllare. Appoggiò la canna della pistola sulla sua nuca, vide le spalle dell'uomo contrarsi al tocco del metallo, e si chinò a esaminare i polsi. Come prevedibile, le manette erano molto lente. Gliele strinse con forza senza commentare.
«In piedi» ordinò. «Non ti muovere.»
Lo perquisì in cerca della pistola d'ordinanza.
«Non sono armato. Quando sono in ufficio tengo la pistola nella scrivania. Controlla pure se vuoi, sta nel primo cassetto.» In effetti non aveva armi addosso, l'unico rigonfiamento era riconducibile al cellulare, che lei prese e ripose nella tasca posteriore del suo pantalone. Poi Isabella indietreggiò fino alla sedia su cui aveva posato lo zainetto, lo aprì e ne estrasse una cintura di tipo militare, alla quale aveva legato sei piccole cariche esplosive e un ricevitore elettronico di impulsi. Pose la cintura esplosiva sul ripiano, infilò nuovamente la mano nella borsa e prese una fascetta di plastica da cablaggio. Tornò vicino al prigioniero ormai inoffensivo, lo afferrò per un braccio e lo spintonò fino alla scrivania.
Lui tentò di farla ragionare.
«Senti, siamo ancora in tempo per tornare indietro. Facciamo finta che non sia successo nulla. Nessuno si è fatto male, non è stato sparato nemmeno un colpo. No?»
«C'è una sedia dietro di te, siediti» gli intimò la donna come se non avesse sentito una parola. Lui obbedì in silenzio. Isabella si portò alle sue spalle, infilò la fascetta tra le sbarre dello schienale e bloccò la catena delle manette. In questo modo il poliziotto non sarebbe riuscito nemmeno ad alzarsi in piedi.
Si voltò verso la finestra. Per il momento non c'era nessuno che potesse vedere cosa stava succedendo, ma non poteva rischiare. Tirò giù le veneziane, girando le lamelle orizzontali in modo che precludessero completamente la visuale della stanza. Poi tornò vicino all'uomo legato, afferrò la cintura con l'esplosivo e gliela passò attorno alla vita, serrandola ben stretta sulla pancia.
Lamberti, ancora bendato, si agitò.
«Che stai facendo?» le chiese.
Lei lo ignorò. Prese dallo zainetto un oggetto dalla forma sottile, lungo una decina di centimetri e simile a un accendino. Soltanto allora gli tolse la benda dagli occhi.
L'uomo valutò velocemente la situazione e deglutì due volte prima di riuscire ad articolare una frase.
«Cristo santo, che cosa vuoi fare?»
«Vedi questo arnese? È un detonatore a pressione o meglio, a cessazione di pressione. Ora io lo collego elettronicamente al ricevitore di impulsi che ho posizionato sulla cintura, in questo modo.»
Premette il primo di due bottoncini, che si illuminò di una lucina rossa. Impugnò bene lo strumento con la mano sinistra, stringendolo fra le quattro dita.
«Poi schiaccio questo pulsante in cima al detonatore e...»
«No!» la interruppe spaventato Lamberti tentando inutilmente di alzarsi. «Non lo fare!»
La luce rossa sul ricevitore prese a lampeggiare.
«Non temere, non è ancora giunto il momento» e gli mostrò il detonatore, il pollice saldamente premuto sul pulsante.
«D'ora in poi, l'esplosivo brillerà solo se verrà meno la pressione del mio dito. L'idea me l'ha data un film che piaceva tanto a mio figlio.»
Lo sguardo vagò per un breve attimo nel vuoto.
«Ti rendi conto di cosa significa, ispettore capo?» riprese subito dopo.
«Sì, non sono un idiota. Se qualcuno fa irruzione, io sono morto» rispose lui con voce tremante.
«Non solo questo. Pensaci bene. Se i tuoi colleghi mi dovessero sparare, e mi uccidessero sul colpo, il mio dito non sarebbe più in tensione e boom! Se qualcuno avesse la bella idea di usare un gas, stesso risultato. Boom. Capisci, occorre un atto di volontà per mantenere schiacciato il pulsante, ed è quindi sufficiente che venga meno la coscienza per innescare la reazione.»
«Ma si può sapere che cazzo vuoi da me? Cosa sei, una cazzo di terrorista o cosa?»
«Voglio giustizia. E il turpiloquio non mi fa nessuna impressione.»
«Giustizia? Per cosa? Ma se neanche ti conosco!» esclamò l'uomo con voce alterata dalla paura e dalla rabbia.
«Io sì» rispose lei fissandolo sprezzante negli occhi. «E abbassa la voce, se non vuoi che qualcuno interrompa la nostra chiacchierata. Perché in quel caso...»
«Sì, lo so. Boom.»
«Già.»
Tranquilla, seduta alla scrivania al posto del poliziotto, Isabella si accese una sigaretta. Sorrise tra sé, osservando il cartello “vietato fumare” esposto sulla parete. Stava commettendo un altro reato.
Silenzio. Lamberti ascoltava il ticchettio dell'orologio, riflettendo per cercare una via d'uscita da quella situazione, ma più ci pensava più gli sembrava che la donna avesse preparato un ottimo piano. L'unica sua argomentazione, alquanto patetica, era che sarebbero morti entrambi, ma questa evenienza non sembrava incuterle timore.
Lui ne aveva di paura invece, anche perché si rendeva perfettamente conto che la faccenda, così come era messa, non poteva finire che male, a meno di una resa. Se i colleghi fossero stati costretti all'irruzione, sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa.
“Voglio giustizia.”
Che diavolo intendeva dire? Lui era sicuro di non averla mai incontrata, ma nel suo lavoro era facile inimicarsi qualcuno. E cosa stava aspettando adesso? Perché diavolo non avanzava le sue richieste?
Decise di chiederglielo.
«Non dovresti dire cosa vuoi, adesso? Che so, centomila euro, un elicottero, una pizza».
Cercava di celare la paura dietro l'ironia.
«Centomila euro? Ritieni di valere tanto? Ti sopravvaluti» lo apostrofò lei. «Non sottovalutare me, piuttosto, solo perché sono una donna.»
Spense la sigaretta per terra, ormai i portacenere erano in- trovabili negli uffici pubblici. Infine rispose alla sua domanda.
«Spiacente, non voglio soldi.»
Guardò l'ora. Mancava poco per l'entrata in scena del secondo attore



Lo scambio

Oggi, 18 maggio, ore 11.10

Isabella sedeva, scrutando di tanto in tanto i suoi prigionieri. Attendeva la telefonata del commissario da un momento all'altro, ma non era in ansia. La decisione era stata presa tanto tempo prima.
La scelta, in fondo, non dipendeva da lei. Esistevano due possibilità e per ognuna di esse aveva pronto un finale.
Quando il telefono suonò, dopo aver attivato il vivavoce lasciò che ancora una volta fosse Lamberti a rispondere.
«Lamberti, sono Frangipane.»
Ci fu giusto un attimo di silenzio che le fece pensare che il commissario avesse delle novità, poi l'uomo riprese a parlare.
«Prima di tutto voglio sapere come state tu, l'ispettore Tardio e Cassandra Bono.»
A quelle parole Isabella fece il gesto di applaudire. Cassandra invece venne fuori dal torpore. Allora sapevano che anche lei era chiusa in quella maledetta stanza! Iniziò a piagnucolare piano, tirando su col naso, esausta per la tensione. Voleva andar via da lì, lei non c'entrava nulla, adesso che anche gli altri lo sapevano perché non la facevano uscire?
«Inoltre» proseguì Frangipane, ignaro della reazione che aveva suscitato «esigo di parlare direttamente con la donna che vi tiene in ostaggio.»
I due prigionieri si guardarono l'un l'altro; da una parte c'era il timore che una presa di posizione netta facesse perdere la calma alla donna, dall'altra si rendevano conto che quella era la strategia suggerita dalle procedure.
«Complimenti, commissario!» esordì Isabella.
Non si era infuriata affatto, anzi, sembrava che la cosa la divertisse.
«Mi fa piacere constatare che la polizia sa agire veloce- mente e bene, quando si tratta dei suoi uomini. È stata un'ottima prova di efficienza, davvero. Peccato che in altri casi... Ma lei vuole notizie sulle persone presenti, ritengo per assicurarsi che siano tutti vivi. Finora.»
Il tono tranquillo ma glaciale con cui terminò la frase, quel “finora” pronunciato dopo una lievissima esitazione, fu fin troppo esplicito e un brivido corse lungo la schiena dei sequestrati.
«Prego signori, rispondete pure» aggiunse lei, facendo cenno a Cassandra di parlare per prima. «La precedenza alle donne, vi pare?»
«Io sto bene, ma voglio tornare a casa. Per favore, fatemi uscire di qua.»
«Ok, basta così.»
Isabella diede brevemente la parola a Tardio, poi riprese in mano la situazione.
«Commissario, io ho fatto delle richieste. Sono arrivate le persone che vi ho indicato?»
«Il vicecommissario Zambelli è presente.»
«Jimmy!»
L'improvvisa esclamazione di Cassandra interruppe bruscamente la frase di Frangipane, ma venne prontamente zittita da Isabella.
«Silenzio!» ordinò.
Zambelli aveva sempre aiutato Cassandra, sin da quando lei era solo una bambina. Stavolta però la situazione era diversa.
«Continui» ordinò la donna.
«Ho cercato di contattare il magistrato, ma al momento non ho avuto successo. Il dottor Benincasa è impegnato in un'udienza in tribunale, tra poco però ci sarà un'interruzione e potremo...»
«Allora mi chiamerà quando sarà arrivato. A dopo.»
«Aspetti!» la bloccò Frangipane.
«Cosa c'è?»
«Come può vedere, io sto cercando di venirle incontro, e anche il dottor Zambelli è qui per lo stesso motivo. Lei però deve dimostrarci la sua volontà di collaborare, la sua disponibilità.»
«Volete che io rilasci un ostaggio, vero? Magari la ragazza, che non c'entra niente.»
Cassandra alzò la testa dal suo angolino, incredula. Possibile che quell'incubo stesse per finire?
«Sì, appunto, e lei avrebbe comunque due ostaggi in mano. Sarebbe una dimostrazione di buona volontà da parte sua, non crede signora? Mi dice il suo nome, visto che lei conosce il mio?» Se la donna avesse accettato di fornire un nome, anche fittizio, Frangipane avrebbe ottenuto un piccolo successo.
Avrebbe infatti dimostrato che la sequestratrice accettava l'instaurarsi di un rapporto meno rigido.
«Il mio nome non è rilevante» rispose secca Isabella, che comprendeva perfettamente il significato di quella domanda.
«Le sia ben chiara una cosa, commissario» proseguì. «Che questa vicenda si concluda bene o male, per me non ha nessuna importanza. Quale che sia il finale, io otterrò ciò che voglio. Ho già messo in conto la mia morte, è un prezzo che sono disposta a pagare. Lei, invece, cosa è disposto a offrirmi per la vita di queste persone?»
Silenzio. Isabella continuò.
«Se vuole assicurarsi la vita di Cassandra, povera piccola innocente» e pronunciò queste parole con altera ironia, «me ne offra una in cambio.»
Fece una pausa calcolata, per dare maggior risalto alla sua proposta.
«Voglio Zambelli.»
Le due parole calarono con forza nell'attonita quiete dell'ufficio di Frangipane, quindi risuonò il clic della cornetta. La comunicazione era stata interrotta.
La richiesta della donna era giunta del tutto inaspettata. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una simile proposta. E tuttavia, mentre Frangipane e Laurenzi erano concordi nel sostenere l'inaccettabilità dello scambio di persona, considerata anche l'assenza di garanzie in merito al rilascio dell'ostaggio, Zambelli in cuor suo aveva già deciso. Nonostante l'elevata possibilità di non uscirne vivo, riteneva di non avere scelta. Se era lui che la sequestratrice voleva al posto di Cassandra, avrebbe accettato. Ignorava se la donna avesse programmato tutto o se si trattasse di semplice casualità, e in fondo non gli importava. Per lui non faceva alcuna differenza.
«Non se ne parla nemmeno» sbottò Frangipane nell'udire la sua decisione. «È inammissibile che un funzionario di polizia si consegni nelle mani di una delinquente» asserì con forza. «Fosse anche per salvare la vita di un ostaggio giovane e piacente» aggiunse, quasi a voler insinuare che la proposta di Zambelli provenisse da un malinteso senso di eroismo. Tutti in questura conoscevano la nipote del barista e la sua bellezza.
«Conosco quella ragazza da quando lei aveva tre anni e io ventuno» ribatté con calma Zambelli, senza scomporsi di fronte alla palese insinuazione del commissario. «Non aveva nemmeno cinque anni quando entrambi i suoi genitori morirono in un incidente aereo, in Brasile. Erano partiti per festeggiare il loro anniversario di matrimonio, ma quella data è diventata l'anniversario della loro morte. Da quel momento Cassandra, che era la migliore amica di mia sorella, trascorse più tempo a casa nostra di quello che passava col nonno al quale venne affidata. È praticamente cresciuta sotto i nostri occhi, quasi come un'altra figlia per mio padre e mia madre, e un'altra sorella per me.
I miei erano già anziani quando nacque mia sorella. Ero io quindi che le portavo a giocare proprio qua dietro la Questura, alla Villa Comunale; andavamo al cinema a vedere i cartoni, a comprare il gelato al bar Vittoria che aveva i gusti alla frutta che preferivano. Eh sì, ero proprio un bravo fratello.»
Accennò un sorriso al ricordo delle due bambine che lo assillavano perché le portasse fuori. «Poi lei e mia sorella sono cresciute e non stava bene che un uomo andasse in giro con due ragazzine, e dopo qualche tempo io mi sono trasferito.
È vero, l'avevo un po' persa di vista. Ma resta sempre una seconda sorella, per me.»
Tolse la giacca, si slacciò la fondina con la pistola e posò tutto su una sedia. Guardò i due funzionari negli occhi e chiese:
«Se si trattasse di un vostro familiare, esitereste?»
La risposta echeggiò, muta, nel silenzio della stanza. Zambelli sorrise e cavò di tasca il cellulare, porgendolo poi al commissario. Gli sarebbe dispiaciuto perderlo, aveva i numeri delle persone più care in rubrica. Aprì la porta dicendo:
«Restate al vostro posto, conosco la strada.» Nessuno ebbe la forza di fermarlo.
C'era molta gente nel corridoio, poliziotti in divisa e uomini in borghese. Molti probabilmente si ricordavano di lui, ma nessuno lo fermò. Forse gli leggevano negli occhi una determinazione cui cedere il passo.
Era quasi arrivato alla porta di Lamberti quando l'agente Bruno arrestò la sua avanzata. Lo conosceva, era già là ai tempi in cui Zambelli prestava servizio come ispettore capo, ma gli ordini ricevuti erano chiari e gli si parò davanti.
«Nessuno può entrare nell'ufficio di Lamberti, mi dispiace» disse semplicemente.
«Io sì. Mi attendono» rispose lui.
Davanti alla porta si fece il segno di croce, tirò un profondo respiro e bussò.
«Sono James Zambelli» disse infine il vicecommissario.
«Sono disarmato.»
.


Il processo
Oggi, 18 maggio, ore 12.00

Isabella prese posto sulla sua sedia e accese un'altra sigaretta, scrutando gli uomini che aveva di fronte. Poteva leggere la paura sui loro volti, tenuta tuttavia a freno dalla speranza che è figlia dell'inconsapevolezza. Ancora non avevano idea del perché si trovassero lì.
Era giunto il momento di metterli al corrente.
Si accertò che il registratore fosse in funzione e lo appoggiò sul tavolo davanti a lei, poi compose il numero di Frangi- pane e inserì il vivavoce. Il commissario rispose subito.
«Il giudice Benincasa è arrivato?» chiese immediatamente.
«È qui, vicino a me.»
«Ottimo. Inserisca il vivavoce, voglio che possa sentire quello che diremo.»
«Sono Benincasa, la sto ascoltando» intervenne una voce sconosciuta.
«Ottimo» ripeté nuovamente Isabella.
Seguirono alcuni secondi di silenzio, durante i quali la donna parve raccogliere le idee, concentrandosi su ciò che stava per dire. Poi la sua voce risuonò sicura e tranquilla.
«Oggi, 18 maggio, sono davanti a me, ospiti involontari e riluttanti, il vicecommissario James Zambelli, l'ispettore capo Carmine Lamberti e l'ispettore Antonio Tardio, stimati tutori dell'ordine. Il mio nome...»
I tre sequestrati e i funzionari nell'altra stanza drizzarono le orecchie.
«Il mio nome lo pronuncerò in ultimo, a suggello di tutto ciò che sarà stato detto e rivelato.»
Il giudice e il commissario si guardarono perplessi. Era molto strano. Risultava evidente, dal modo di parlare, dal tono tranquillo e assertivo, dalle stesse parole adoperate, che la sequestratrice non era una delinquente comune. Sembrava più che altro una persona bene istruita, abituata a parlare in pubblico. Ma allora che ci faceva con armi e cariche esplosive?
«Dottor Benincasa, la invito a tornare indietro nel tempo, al mese di giugno di cinque anni fa, esattamente al 25 giugno.»
Isabella parlava senza distogliere lo sguardo dai suoi prigionieri. Un'ombra sembrò passare fugace sul volto dei due ispettori.
Zambelli non mosse un muscolo.
«Ci fu una rapina al piccolo ufficio postale di via Roma, una rapina finita male, ricorda? I giornali dell'epoca ne parlarono diffusamente perché ebbe un epilogo davvero tragico. Persero la vita un uomo anziano e il suo nipotino di due anni.»
«Ricordo, sì» rispose il giudice, «ma non capisco dove vuole arrivare.»
Intanto cercava tra i file del suo computer quelli relativi agli ultimi cinque anni.
«Capirà. Il rapinatore, descritto da numerosi testimoni come un uomo alto, con una pistola a canna corta, un berretto rosso a visiera che gli nascondeva il volto e un paio di occhiali da sole, entrò nell'ufficio postale scarsamente affollato e puntò la pistola contro i presenti.
I resoconti non sono chiari nello spiegare come sia accaduto, ma a un tratto l'anziano sembrò scagliarsi contro il rapinatore come se avesse voluto aggredirlo. Considerando che tra le braccia stringeva il nipote, è assai più probabile che abbia perso l'equilibrio per via di un mancamento. Il ladro sparò, trafiggendo nonno e nipote. Morirono entrambi sul colpo. L'uomo fuggì via.» Lamberti e Tardio si scambiarono un'occhiata rapidissima, che non sfuggì all'occhio indagatore di Isabella. Sì, loro ricordavano.
«Anch'io rammento quella tragedia, ma lei che ruolo ha in tutto questo?» intervenne Frangipane.
Non era stato lui a condurre l'inchiesta dall'inizio, però conosceva bene i fatti. Era arrivato in quella sede grazie a un avanzamento di carriera circa un mese dopo l'accaduto e quando era subentrato al precedente dirigente le indagini, non ancora concluse, erano passate sotto il suo controllo.
Ricordava quindi bene i parenti di quei due poveretti, sia la vecchia moglie dell'uomo sia i genitori del bambino. Era stato terribile sentire quella giovane madre disperarsi perché aveva acconsentito al capriccio del figlio di restare in braccio al nonno che andava a incassare la pensione e notare gli sguardi colpevoli che senza rendersene conto lanciava al marito, lui dal volto immobile e duro come pietra. Era sua, solo sua la colpa. Avrebbe dato tutto ciò che possedeva, anche la sua stessa vita, per tornare indietro a quei pochi secondi che avevano segnato in modo incancellabile la differenza tra il prima e il dopo.
Se solo non avesse pronunciato quel maledetto sì. Se solo.
Se solo.
Se solo.
L'ininterrotto lavorio della mente era chiaramente visibile. Era stata esclusivamente colpa sua. E suo marito gliene caricava tutto il peso.
Frangipane aveva due nipotini che all'epoca potevano avere la stessa età della piccola vittima e il lamento continuo della mamma - “mio Dio, se solo mi fossi imposta, se non avessi acconsentito, se l'avessi costretto a seguirmi, Andrea sarebbe ancora vivo, ancora vivo” - aveva scavato solchi profondi nel suo cuore. Cosa avrebbe fatto se fosse accaduto al suo Fabio oppure ad Annapaola? Ecco perché subito aveva riconosciuto la vicenda.
Tuttavia, a giudicare dalla foto estratta dal filmato delle telecamere, la donna ritratta era troppo giovane per essere la vedova del vecchio e troppo vecchia per essere la mamma del bambino. La prima all'epoca poteva avere poco più di settant'anni, quindi adesso - ammesso che fosse ancora viva - ne aveva poco meno di ottanta. Troppi. La seconda, la giovane madre, aveva al tempo ventisei o ventisette anni. Trentadue, trentatré al massimo, adesso. Troppo pochi. Non poteva esserci nessuna attinenza con la donna che stava parlando.
«E comunque il rapinatore fu arrestato subito dopo» concluse Frangipane ad alta voce dopo quel rapidissimo flashback nei ricordi.
«Già. Il giudice Benincasa lo condannò a ventisette anni di carcere dopo un processo per direttissima.»
Intanto il magistrato, dopo una breve ricerca, aveva individuato la causa cui faceva riferimento la donna. L'imputato si chiamava Danilo Antinori, ventiquattro anni, giudicato per omicidio volontario.
«È vero, ecco qua, sto rileggendo gli atti» rispose mentre era ancora concentrato sullo schermo del computer. «Fu tutto regolare, mi pare. Mi dia il tempo di controllare meglio.»
«Certamente.»
Lei non aveva fretta.
Ci furono lunghi minuti di silenzio mentre il magistrato riguardava con attenzione i dati che gli scorrevano davanti agli occhi, affiancato dal commissario.
Il registratore andò in stand-by.
«Sì, infatti.»
Il sensore di voce rimise in moto il piccolo apparecchio.
«Il colpevole fu arrestato praticamente in flagranza di reato, mentre fuggiva pochi secondi dopo aver sparato. Non ammise mai la sua colpa, è vero, ma non fornì nemmeno una prova solida in sua difesa. Nessuno peraltro confermò l'alibi inconsistente che aveva dichiarato. Non c'erano dubbi sulla sua colpevolezza e la condanna fu adeguata al reato. In piena coscienza posso dirle che fu un giusto processo con una giusta sentenza.»
«Di questo sono convinta» ribatté con freddezza Isabella. «Lei non ha colpe. Altrimenti, glielo assicuro, anche lei si troverebbe qui, legato a una sedia con indosso cartucce di esplosivo. In qualche modo sarei riuscita ad averla mio ospite.»
Un brivido partì dalla nuca del giudice e scivolò in fretta lungo la schiena mentre gli si presentava alla mente l'immagine di sé stesso minacciato dalla voce impietosa. Quale inferno aveva attraversato quella donna per diventare così?
In quel momento Zambelli comprese che il sequestro di Cassandra non era stato per niente un evento casuale. Il rapimento della ragazzina era stato sicuramente pianificato per ottenere il suo sacrificio. Si chiese per quanto tempo fosse stato tenuto d'occhio, e con quanto impegno la donna avesse frugato nei recessi della sua vita.
«Se il processo è stato regolare» proseguì Benincasa, «non capisco davvero cosa vuole da noi, signora.»
«Voglio ciò che è venuto a mancare. Signor giudice, io voglio solo giustizia.»
«Quale che sia il torto che crede di aver subito» intervenne Frangipane, «non è certo così che potrà avere giustizia. Basta, sono stanco di stare a sentire le sue farneticazioni e le sue minacce! Esigo che lasci liberi i miei uomini, poi potremo parlare.»
Benincasa lo guardò confuso, ma il commissario scosse la testa. Era solo un tentativo.
«La scelta è solo sua, commissario. Se non vuole darmi altro tempo, per me va bene ugualmente.»
Le parole uscivano dalla bocca di Isabella con la tranquillità di sempre, sembrava che nulla potesse scalfirne la fermezza. Ogni sua piccola frase, ogni sua affermazione pesava come piombo su una nuvola di incertezza.
Proseguì dicendo:
«Quando ho dato inizio a questa cosa, avevo ben chiaro in mente che ci sarebbero state solo due opzioni: la giustizia o la vendetta. Lei ora sta scegliendo la seconda. D'accordo, per me non fa differenza.
Farò detonare l'esplosivo.
Perché se non posso avere giustizia, allora avrò vendetta. Era una possibilità già prevista e valutata, e non ho nulla in contrario.»
Un ghigno sarcastico attraversò il volto del commissario.
«Ma così salterà in aria anche lei. Ha davvero intenzione di morire? Non ci posso credere.»
«Ciò che crede lei non ha nessuna importanza. Ciò che credo io è che se questo è il prezzo, sono disposta a pagarlo.»
Nessuno riuscì più a rispondere, né i due funzionari né gli ostaggi che ancora non si erano resi conto del repentino peggioramento della situazione.
«Le chiedo soltanto» proseguì Isabella con la stessa, gelida calma, «di sgombrare il corridoio qui fuori. Sono sicura che è pieno di gente e non vorrei coinvolgere degli innocenti.»
Si rivolse agli uomini che la fissavano allibiti.
«Se credete in un qualche dio, vi concedo del tempo per pregare. Per quanto mi riguarda, ho smesso di aspettarmi misericordia e conforto dagli dei tanti anni fa.»
Guardò l'orologio che aveva al polso e proseguì.
«Avete due minuti per le vostre orazioni.»
«No, maledizione, non puoi farci questo, stronza!» inveì Lamberti agitandosi sulla sedia, cercando inutilmente di strappare la fascetta che lo teneva bloccato.
«Cazzo, non ti conosciamo nemmeno, figlia di puttana, ma chi cazzo sei?» tuonò anche Tardio, confondendo le sue imprecazioni con quelle del collega.
Zambelli non parlava, sentiva in bocca il sapore rancido della paura, come un rigurgito di cibo guasto, e il rimbombo del cuore nelle orecchie.
La ragione gli diceva che non era possibile che tutto finisse così, sicuramente era una minaccia rivolta ai suoi avversari per innervosirli, ma dentro di sé non aveva dubbi che la donna non avrebbe esitato a compiere quel gesto folle.
Cercava di ricordare le suppliche che aveva imparato da bambino, ma gli venivano in mente solo parole sparse, inutili sbocconcellature di preghiere. Chiuse gli occhi e aspettò, sperando che lo scoppio giungesse tanto rapido da non soffrire, e prima di perdere la sua dignità come gli uomini che aveva accanto.
Trascorsero attimi agghiaccianti. La donna era davvero pronta a morire per avere vendetta.

Benincasa decise di intervenire. Era evidente che Frangipane aveva valutato male la determinazione della sequestratrice, il suo intervento era stato deleterio e aveva messo in pericolo la vita degli ostaggi.
«Per favore, non lo faccia. Ritiene di aver subito un'ingiustizia? Ebbene, parliamone.»
Il giudice credeva di aver compreso la forza che animava la donna. La sua non era una vuota minaccia, era davvero disposta a morire.
Era convinta di aver subito un grave torto e ascoltarla risultava necessario. Sapeva bene che nessuno si spinge oltre certi limiti se non per follia o disperazione, e quella donna tutto sembrava fuorché una pazza esaltata. Doveva essere, invece, disperata, in quello stato d'animo che si impadronisce di coloro che non hanno più nulla da perdere, avendo già perso tutto. Non si sarebbe tirata indietro.
Il suo non era fanatismo, ma freddo calcolo.
«La prego» insisté Benincasa, avvertendo su di sé lo sguardo colmo di riprovazione del commissario. Sapeva anche lui che era vietato implorare un sequestratore, onde evitare di metterlo in una posizione di forza, ma la donna era già abbastanza determinata e a nulla sarebbe servito intimorirla.
Finalmente Isabella ruppe il suo silenzio.
«D'accordo.»
Il giudice si voltò a prendere una bottiglietta d'acqua che qualcuno, forse Laurenzi, aveva messo sul tavolo. Bevve una lunga sorsata, quindi spronò la donna.
«Parli, l'ascolto.»
Gabriella Grieco
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