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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Simona Adriani
Titolo: Storia d'amore e d'ayahuasca
Genere Realismo Magico
Lettori 3319 31 49
Storia d'amore e d'ayahuasca
Ayahuasca.

Ci ritrovammo tutti nella villa al mare dell'organizzatore del ritiro, una grande villa di due piani con più di sei stanze e una ventina di posti letto in tutto, che tuttavia non servirono perché rimanemmo quasi tutti a dormire nel salone dove si svolsero le cerimonie.
Eravamo tanti, più di quanti immaginavo. Più di trenta, forse una quarantina. Il salone era pieno: lungo tutte le pareti c'era una fila ininterrotta di persone, ognuna seduta sul suo materassino e appoggiata con le spalle al muro, in attesa che iniziasse il rito. Qualcuno era anche posizionato al centro, senza nessun appoggio per la schiena. Non c'era nessuno spazio libero.
Lo sciamano e quella che doveva essere la sua compagna erano seduti davanti a un grande camino antico che faceva bella mostra di sé nel mezzo della parete più lunga del salone. Anche loro erano seduti su dei cuscini, due grandi cuscini presi in prestito dall'arredamento di cui era stata spogliata la sala, per permettere a tutte le persone di sistemarsi. Davanti a loro era disposto quello che poi scoprii essere “l'altare”: una stuoia di chiara provenienza etnica con sopra sistemate statuine di divinità, piume d'aquila, cristalli, croci, rosari, candele, un grande vaso con tanti bellissimi fiori colorati e poi tabacco, incensi non essendo io per nulla avvezza a questo tipo di cose – in vita mia forse non avevo mai neanche acceso un incenso – tutto mi sembrava molto esotico.
Meno lo sciamano.
I tratti somatici non erano senz'altro quelli di un europeo. Non avrei saputo dire all'epoca se fosse o meno peruviano, ma sicuramente le sue linee avevano qualcosa di indigeno. Naso e fronte schiacciati, labbra molto carnose, colore della pelle scuro, fronte bassa, corpo tarchiato, altezza medio-bassa. Lei invece no. Capelli biondo platino, lunghissimi e riccissimi, carnagione chiara, corpo sinuoso, unghie ricostruite e super laccate, seno abbondante, vitino di vespa e aspetto vistosamente curato. Senza dubbio un'europea. Ma tutta quella bellezza non stonava affatto, non era una bellezza arrogante e sfrontata, che suscitasse invidia e commenti sprezzanti da parte delle altre donne. Aveva un non so che di angelico. Anche perché aveva il gran merito di saper stare al suo posto. Non mi accorsi di lei fino a che non iniziò la cerimonia e non cominciò a muoversi tra le persone per andare in aiuto di chi ne avesse bisogno. Una bellezza notevole, ma per nulla ostentata.
Verso le otto di sera fummo tutti chiamati a raccolta, ci sistemammo ognuno al nostro posto e quando il brusio si spense lo sciamano cominciò a parlare. Parlava in spagnolo, c'era un ragazzo che faceva la traduzione simultanea in un italiano essenziale, non proprio eccelsa ma utile: io all'epoca non capivo una parola di spagnolo. Ricordo il succo di quello che disse, le sue parole ancora oggi sono stampate nella mia memoria. Quella prima cerimonia ha scritto un capitolo così incisivo nella mia anima, che per quante altre io ne abbia fatte da allora in poi, per quante altre introduzioni abbia ascoltato, per quante altre intuizioni o visioni abbia avuto, quelle di quella prima, irripetibile esperienza, sono rimaste indelebili.
Più o meno disse così: - Stasera siamo qui perché siamo stati chiamati ad avere un incontro con il divino. Anche se possiamo non esserne completamente consapevoli, la nostra anima ci ha portati a questo incontro perché sa che per risvegliare la nostra scintilla divina abbiamo bisogno di fare l'esperienza dello spirito che dimora dentro di noi.
Averne una conoscenza intellettuale, magari attraverso quello che leggiamo nei libri, non basta. E la nostra anima sa che qui, stanotte, questo può avvenire. Noi siamo esseri divini, dentro di noi c'è una luce che non si spegne mai, può essere offuscata ma giammai si spegne.
Possiamo dire che la nostra anima è come una lampada di vetro, con al centro questa fiamma sempre accesa. Più la lampada è sporca, meno saremo in grado di vedere la fiamma e la luce che emana, o di percepirne il calore. Tuttavia la fiamma è sempre lì e tutto quello che dobbiamo fare è pulire la nostra lampada, la nostra anima, per permettere alla luce di manifestarsi. Ecco, noi siamo venuti qui stasera per pulire la nostra lampada, per poterci permettere di incontrare e manifestare la nostra luce.
A seconda di quanto la nostra lampada è sporca, questa operazione sarà più o meno difficile e richiederà più o meno tempo. Ma la nostra fiamma non ha fretta, è eterna. Sa che stiamo facendo il primo passo e che al primo passo ne seguiranno altri, fino a che non diventerà trasparente e pura come il cristallo.
Che sia dunque una meravigliosa notte di pulizia e di incontro con la nostra fiamma divina! Auguro buon lavoro a tutti - .
Alla fine delle sue parole gli assistenti cominciarono a muoversi freneticamente per la stanza, portando il necessario a ogni presente e sbrigando le ultime faccende pratiche: ognuno doveva avere a portata di mano un sacchetto per il vomito, dei fazzoletti di carta per pulire la bocca o asciugare le lacrime, una bottiglietta d'acqua e una coperta.
Ci era stato spiegato, a noi novizi, che l'ayahuasca poteva procurare – e procurava molto di frequente – il vomito, che il vomito era considerato un veicolo fisico di purificazione, che poteva sopraggiungere all'improvviso e quindi era necessario tenere sempre a portata di mano il sacchetto. Se sentivamo la necessità di vomitare non dovevamo alzarci dal nostro posto, ma semplicemente farlo dentro il sacchetto; poi chiuderlo, annodandolo, e lasciarlo lì di fianco. Sarebbe arrivato uno degli assistenti nel più breve tempo possibile per rimuoverlo e gettarlo nella spazzatura.
Ci era stato raccomandato di non interferire mai per nessuna ragione con l'esperienza degli altri, che ognuno doveva fare il proprio viaggio in autonomia. Per quanto sentissimo intorno a noi le altre persone agitarsi, piangere o stare male, non dovevamo preoccuparci, c'erano gli assistenti, e c'era lo sciamano, per questo. Noi dovevamo rimanere tranquilli al nostro posto e pensare solo al nostro viaggio.
Ci era stato anche descritto in quali “spazi”, all'interno di questi mondi sottili in cui stavamo per andare a passeggiare, avremmo potuto capitare: secondo la cosmovisione andina “l'altro mondo” era suddivisibile in tre dimensioni: il mondo del serpente, il mondo del puma e il mondo del condor.
Il mondo del serpente era lo spazio della psiche e delle paure più remote, dell'inconscio profondo: quando si finiva in questo spazio si poteva entrare in contatto con traumi del passato, paure inconsce, rivivere esperienze dolorose. Questo era il meno piacevole dei mondi, tuttavia se l'ayahuasca decideva di portarci lì era perché quello era ciò di cui avevamo bisogno per la nostra guarigione.
Il mondo del puma era il mondo delle relazioni, e anche del corpo. Se entravamo in questo spazio avremmo avuto esperienze che ci avrebbero portato insegnamenti sulla nostra vita quotidiana, sulla nostra relazione con il mondo esterno e con noi stessi, sul nostro comportamento verso i nostri genitori, i nostri figli, i nostri cari. O semplicemente riguardo al fatto che non ci stavamo curando abbastanza di noi stessi, oppure consigli su come agire per alleviare qualche malattia, nostra o di altri...
Appartenevano al mondo del puma anche quelle esperienze in cui non si avvertiva nessun tipo di cambiamento a livello della coscienza, ma solo sensazioni fisiche.
L'ultimo mondo, quello del condor, rappresentava la vetta più alta delle esperienze possibili quando si beveva l'ayahuasca. Il condor rappresentava lo Spirito. In questo mondo si potevano avere incontri con esseri superiori, con divinità o con figure archetipiche. Era sempre caratterizzato da molta luce, da una grande chiarezza, una sensazione di amore e di calma, di pace, di tranquillità, di piena realizzazione. Era quello che tutti speravano che accadesse, sempre, quando bevevano ayahuasca.
Tuttavia, per poter entrare in questo ultimo mondo, attraversare tutti gli altri era spesso necessario se non inevitabile. Quindi non dovevamo sentirci delusi o frustrati se non avessimo avuto subito un'esperienza nel mondo del condor: l'ayahuasca, la Madrecita – così la chiamavano – sapeva sempre ciò che era più giusto per noi. Quindi dovevamo soltanto affidarci a Lei ed essere sicuri che, qualsiasi cosa stesse accadendo, era la cosa migliore per noi.
“Affidarsi” era la parola magica che risolveva qualsiasi problema. In ogni momento, se le cose avessero preso una piega che non ci piaceva, la mossa migliore da fare era quella di lasciarsi andare. Rilassarsi.
Sembrava tutto molto facile.
Nel frattempo lo sciamano armeggiava sul suo altare con un liquido scuro che da una bottiglia versava in alcuni bicchieri di plastica, che subito gli assistenti portavano a ognuno dei partecipanti. Tutti aspettavano fiduciosi seduti al proprio posto. Ci dissero che quando ognuno avesse avuto il suo bicchiere, tutti insieme avremmo bevuto contemporaneamente.
A noi nuovi sarebbe stata data una quantità media, una dose di test per così dire, per saggiare la sensibilità del nostro corpo. Ad alcuni infatti – ci spiegarono – basta bere pochissimo per sentire gli effetti quasi subito, ad altri sono necessari più bicchieri: passata un'ora gli assistenti sarebbero venuti con molta delicatezza a chiederci se ci sentivamo “normali” o “differenti”.
Se ci sentivamo normali avremmo avuto il nostro secondo bicchiere e poi, se dopo altri trenta-quaranta minuti non avessimo ancora sentito nessun effetto, potevamo chiedere di bere ancora. Lo sciamano avrebbe valutato di volta in volta come procedere, se dare un ulteriore bicchiere oppure aspettare ancora.
E così verso le nove di sera avevamo tutti in mano il nostro bicchiere. Lo sciamano alzò il suo e pronunciò la frase propiziatoria: “Todos al Espiritu! [Tutti allo Spirito]” e tutti mandammo già quell'intruglio amaro.
Dopo aver bevuto qualcuno si sdraiò, altri restarono seduti con la schiena appoggiata alla parete, altri ancora si guardavano intorno, altri chiusero gli occhi. Tutti aspettavamo.
Incominciò la musica.
Lo sciamano sceglieva la musica da una vasta collezione di compact disc che aveva portato con sé. Quella della prima ora fu una musica molto evocativa e molto tribale, con suoni ritmati di percussioni etniche e strumenti indigeni, accompagnati da una voce molto profonda che non intonava parole, ma solo vocalizzi evocativi. Una musica molto misteriosa. Potrei dire scelta apposta per indurre uno stato di trance.
Passò la prima ora e a me non successe niente. Quando l'assistente arrivò a chiedermi come mi sentissi dovetti ammettere con un po' di delusione di sentirmi “normalissima”. Senza battere ciglio lei subito andò dallo sciamano e mi portò un altro bicchiere. Bevvi senza esitazione.
Continuava a passare il tempo. Ma io continuavo a sentirmi normalissima. O forse no? Sicuramente la mia mente cominciò a processare la situazione che si stava creando traendone la conclusione che io, come al solito, ero “la diversa”, quella incapace, quella difettosa. Mentre tutti intorno a me si agitavano, vomitavano, urlavano o ridevano in preda alle loro visioni e ai loro viaggi, o semplicemente se ne stavano tranquilli nel loro materassino a seguire il filo dell'esperienza che li stava conducendo chissà dove, io ero l'unica, che non stava provando niente. La diversa, l'esclusa, l'inadatta.
Questo mi proccurò un po' di tristezza, anzi non un po', un po' tanta tristezza. Ero già rassegnata al fatto che per me quella notte avrebbe rappresentato un buco nell'acqua, l'ennesima riprova della mia inettitudine, l'ennesima sconfitta. Non avrei più fatto niente, non avrei chiesto mai di bere ancora, se non fosse stato che forse lo sciamano se ne accorse, perché senza che io gli dicessi niente venne verso di me. Nel frattempo mi ero seduta, abbracciando le ginocchia tutta rannicchiata, e stavo fissando la stanza intorno: era evidente che non mi trovavo nello stato del rapimento estatico dovuto all'ayahuasca.
Lo sciamano mi si avvicinò e mi chiese come mi sentissi.
- Tutto bene - risposi io.
- Todo bien? - fece eco lui, come per dire “sicura che va tutto bene?” poi continuò: - Estás normal o diferente? [ti senti normale o differente?] - . Cercai di spiegargli che non stavo sperimentando niente e la cosa mi rendeva nervosa e triste.
- Nada de nada? [Niente di niente?] - mi chiese ancora, - Que fuerte! [Come sei forte!] - esclamò tutto sorridente, per sdrammatizzare l'accaduto e sottolineare la cosa, non so se per farmi un complimento o per darmi uno spunto di riflessione.
- Quieres tomar un poco mas? [Vuoi bere un altro po'?] -
Io lo guardai un po' insospettita, si che volevo ma...
- Io, boh, non lo so... - risposi.
Lui con il pollice e l'indice fece cenno a una quantità minima e disse: - Poquito poquito [Pochino pochino] - .
Andò al suo altare e fece ritorno con un altro bicchiere.
- Sicuro che non mi farà male? -
- Seguro [Sicuro] - rispose.
- Nel senso, non è che posso morire? -
- Estoy seguro [Sono sicuro] - ribadì sorridente.
A quel punto svuotò ancora un po' il bicchiere e poi me lo allungò nuovamente, come per dire: “Ecco, è ancora di meno, non ti farà male, fidati”. E io a quel punto bevvi il mio terzo bicchiere di ayahuasca. Quindi mi invitò a sdraiarmi sul materassino e si allontanò, tornando al suo posto davanti al camino.
Tempo qualche decina di minuti, o forse di più, di meno, non potrei dire con certezza – a quel punto il tempo aveva già cominciato a dilatarsi, o a restringersi, insomma a perdere la sua connotazione lineare e schematica tipica dello stato vigile – incominciai a sentire la nausea salire dallo stomaco, però non sentivo la necessità di vomitare, sentivo solo una grande nausea e un gran fastidio.
A livello mentale ero ancora perfettamente lucida.
Ancora una volta si avvicinò un assistente, a cui spiegai come mi sentivo e che mi consigliò di sdraiarmi, nel frattempo infatti mi ero di nuovo sollevata a sedere, con le ginocchia contro il petto. Quando mi sdraiai cominciai a sentire che qualcosa cambiava a livello della percezione, tuttavia la mia mente era ancora “normale” e non voleva in nessun modo perdere il controllo su quello che stava accadendo. Molto probabilmente era questa la lotta che mi procurava la nausea.
Da sdraiata la nausea si era un po' placata e in questa situazione di maggior rilassatezza cominciai a vedere come una tela di ragno che si chiudeva sopra lo schermo visivo davanti ai miei occhi chiusi. Ad occhi chiusi certo che si vede nero. Ma in questo caso questa ragnatela, man mano che avanzava, rendeva il nero ancora più nero. Era come se si stesse mangiando la mia consapevolezza, e con lei le mie ultime resistenze.
Prima che lo schermo fosse completamente chiuso dalla ragnatela, ricordo che pensai, o meglio un pensiero “arrivò” come dall'esterno, come un consiglio, come un monito: “Se non ti lasci andare, non ti afferra”.
A quel punto la ragnatela che aveva chiuso il mio schermo mentale si era trasformata nella rete che avrebbe sostenuto la mia caduta: quell'unica, breve e concisa frase e quell'immagine mi stavano dicendo che dovevo lasciarmi andare con fiducia perché qualcosa mi avrebbe sorretto e non sarebbe accaduto niente di male; e allo stesso tempo che, se non lo facevo, tutto quello che speravo accadesse quella notte e per cui ero lì non sarebbe accaduto, perché, affinché accadesse, era necessario il mio consenso. Niente infatti poteva accadere senza che io lo permettessi.
“Se non ti lasci andare, non ti afferra” era allo stesso tempo “lasciati andare con fiducia, perché tanto ti afferra” e “se non le dai il tuo consenso non ti può afferrare”. E così nell'arco di un nanosecondo – il tempo fulmineo in cui si capiscono questo tipo di concetti in questo tipo di stati della coscienza – tutto divenne buio davanti allo schermo dei miei occhi chiusi, perché qualcosa dentro di me decise di lasciarsi andare, di dare il permesso a questa cosa affinché mi afferrasse. Era la prima volta che ne facevo esperienza e non dimenticherò mai con quanta sorpresa salutai questo nuovo tipo di paradigma cognitivo.
Persi completamente la cognizione del tempo. Non so per quanto tempo rimasi immobile sdraiata sul materasso e sprofondata in un abisso milioni di chilometri sotto terra. Solo chi ha assistito dall'esterno può dirlo. Se furono secondi o furono minuti o furono ore. Io ricordo tutto in un'istante, perché non ebbi alcuna consapevolezza del tempo passato nell'abisso nero.
Ricordo solo il momento in cui qualcosa mi richiamò con la forza imperativa di un comando a cui non ci si può sottrarre e, come trascinata verso l'alto alla velocità della luce dall'abisso in cui mi trovavo, mi misi di scatto a sedere nel materassino, feci in tempo a prendere il sacchetto – incredibile ma vero! – e vomitai un grumo nero solido come un sasso. Era stata quella forza saggia e gentile che aveva chiesto il mio permesso per irretirmi ad averlo tirato fuori chissà da quale recondita parte della mia psiche o della mia anima o del mio corpo.
E così era cominciata la festa.

Musica

Appena finito di vomitare questa specie di grumo solido, sembrava che tutto fosse tornato tranquillo. Anche il mio stato mentale era abbastanza lucido, ero cosciente che qualcosa di “diverso” era finalmente accaduto, ma non era così chiaro cosa. Un assistente mi si avvicinò e mi chiese se andava tutto bene, risposi di si, mi proccurò un sacchetto per il vomito nuovo e si portò via quello pieno.
Bevvi un po' d'acqua e mi rimisi sdraiata, in attesa, ancora una volta, ma più tranquilla di prima. Dopo pochi minuti mi resi conto che quello che avevo vomitato prima non era altro che una specie di “tappo”. La nausea ricominciò più forte di prima e pochissimo tempo dopo il provvidenziale nuovo sacchetto che l'assistente mi aveva appena portato era di nuovo pieno di liquido fuoriuscito dal mio stomaco. E vomitai ancora, e ancora e ancora. E a un certo punto ero visibilmente in difficoltà per il tanto vomitare e per la pressione a cui i conati sottoponevano il mio corpo.
Mi si avvicinò allora la compagna dello sciamano. In quel momento si che mi resi conto che qualcosa di diverso era accaduto al mio stato di coscienza. Il suo avvicinarsi fu anticipato da un'immagine che apparve da sola nel famoso schermo nero davanti ai miei occhi chiusi: un meraviglioso fiore rosa purpureo circondato da aloni di luce bianca, che ondeggiava come sospinto da una brezza primaverile, in modo sinuoso e morbido.
Avevo la faccia praticamente quasi incastrata nel sacchetto di plastica, perché la frequenza con cui arrivavano i conati era tale che non facevo in tempo a rimetterlo a terra, che subito lo dovevo riprendere. Così, per comodità, e anche perché la mia concentrazione era tutta spesa nel monitorare il mio stomaco, tenevo ben saldo il sacchetto all'altezza della bocca e aspettavo il prossimo flusso.
Lei arrivò, profumata e bella come il fiore della mia visione, cominciò ad accarezzarmi la schiena e mi tolse il sacchetto dalle mani. Mi chiese in spagnolo come stavo e mi disse altre parole di conforto e di rassicurazione che non capii, ma il cui tono sortì l'effetto sperato. Mi sembrò che mi avesse detto qualcosa del tipo: - Adesso andrà meglio - .
Mi fece odorare un olio essenziale buonissimo, intensissimo, che sapeva di cose balsamiche.
- Respira - .
Presi boccate a pieni polmoni e ogni inalazione sembrava restituirmi la vita e la tranquillità che avevo perso nella foga di vomitare.
- Respira - .
Cominciò anche a farmi aria con una delle piume d'aquila che erano adagiate sull'altare improvvisato. Ecco a cosa servivano dopotutto, non erano solo simboli e feticci, avevano un'utilità pratica.
- Respira - .
Al terzo “respira” cominciai veramente a sentirmi meglio. Lo schermo mentale si riempì di luce e cominciai a sperimentare maggiore tranquillità. Sembrava che quella serie infinita di conati e di fluidi che fuoriuscivano dal mio corpo si fosse finalmente interrotta.
Continuai a respirare, assaporando l'aria fresca e profumata che entrava nelle mie narici e confluiva nei miei polmoni. Mi resi conto che l'atmosfera era molto cambiata nella sala da quando ne avevo l'ultima memoria, ma non avrei saputo dire quanto tempo fosse passato da quando la mia consapevolezza aveva smesso di essere “normale”.
La musica ora era diventata molto emozionale, non più ritmica ed evocativa come all'inizio, ma sinfonica, melodiosa, molto struggente. Anche le persone sembravano più calme. La maggior parte erano stese sul loro materassino ma si vedeva che non stavano dormendo. C'era chi seguiva la melodia tracciando ampie gestualità nell'aria, c'era chi malgrado la posizione distesa aveva il viso completamente rivolto all'indietro, in una chiara postura di rapimento estatico. C'era chi stava seduto nella posizione del loto, qualcuno che scriveva, altri che si guardavano intorno come se vedessero il mondo per la prima volta.
Dissi al mio angelo biondo che adesso stavo meglio. Lei mi fece un gran sorriso, unì le mani all'altezza del viso nel segno tipico del saluto indiano, e si allontanò. Mi sdraiai nuovamente e adesso, finalmente, incominciò il “viaggio” tanto atteso.
Protagonista ne era lo schermo mentale davanti ai miei occhi chiusi. Era pieno di forme e di colori che cambiavano seguendo le evoluzioni della musica. Ad un certo punto vidi una specie di funivia, con tanti “palloncini” colorati attaccati, che salivano e scendevano trainati da questi fili. Questi fili nel loro salire e scendere seguivano alla perfezione l'intensità e l'intenzione della musica. Salivano quando la musica saliva di tono, scendevano quando scendeva, si contorcevano quando la musica si faceva meno lineare. Seguii le funivie salire e scendere per un tempo infinito, solo godendo del gioco di colori e di forme che mi rendeva veramente allegra. Sembrava davvero un bel videogioco.
Ma in un attimo mi fu tutto così estremamente chiaro!
Quel videogioco aveva un significato!
Quelle funivie erano la musica!
E quei palloncini eravamo noi! Le nostre anime!
Una serie interminabile di tremende implicazioni scaturirono come una cascata d'acqua cristallina – ma gelida – sulla mia coscienza.
Quindi la musica ha questo potere enorme sulle anime!
Quindi quello che ascoltiamo ha il potere – letteralmente! – di trasportarci nei mondi e negli stati d'animo!
Quindi la musica che ho ascoltato fino ad ora – il metal, le sonorità distorte, le voci urlate e bestiali – dove portano le anime? Cioè dove hanno portato la mia anima finora? Ma quindi che responsabilità enorme hanno le persone che fanno musica!
Qui non si tratta semplicemente di gradire o non gradire un certo tipo di musica, o di far passare dei bei quarti d'ora alle persone. Questo è un tipo di influenza molto più profonda, che bypassa completamente la mente razionale e quello che noi possiamo capire, rispetto a ciò che sta accadendo realmente mentre ascoltiamo la musica! La musica può distruggere un'anima, può portarla all'inferno e contemporaneamente può salvarla, può portarla in paradiso!
Che straordinaria intuizione! Che modo meraviglioso di intendere le cose! E immediato! E inequivocabile!
Avrei potuto leggere milioni di articoli riguardanti questo tema, e forse chissà, li avevo anche letti. Ma nulla mi era rimasto così impresso, nulla mi aveva convinto così profondamente e aveva cambiato la mia attitudine nei confronti della musica in modo così radicale e istantaneo.
L'esperienza! L'esperienza diretta!
Forse era a questo che si riferiva lo sciamano, quando all'inizio aveva parlato della necessità di sperimentare la nostra essenza divina, e non solo di leggere della sua esistenza in qualche libro o ascoltare qualche “maestro” parlarne.
Che straordinaria esperienza! Che emozione indescrivibile! Che gioia! Una vera e propria realizzazione!
Da quel giorno non ho mai, mai più in tutta la mia vita, ascoltato una musica che non fosse armonica, gioiosa, ispiratrice, e che non fosse scritta con l'intento di elevare lo spirito. Anche se ormai la cerimonia stava volgendo al termine, direi che non era male come prima volta.
Il tempo infatti era volato alla fine molto in fretta. La maggior parte di quella prima volta l'avevo passata a cercare di resistere. Forse più della metà. Quando finalmente quella “cosa” che avevo bevuto era riuscita a farsi spazio tra le pieghe della mia diffidenza, forse solo un'altra ora o poco più erano rimaste prima che lo sciamano dichiarasse apertamente e ad alta voce che la cerimonia era finita.
Alla fine avevo avuto un'esperienza “differente”, si, non potevo dire di no. Certo non quello che mi aspettavo, non avevo passeggiato con i miei calzini nei prati eterici della “realtà sottile”, ma avevo comunque sperimentato qualcosa che mi incuriosiva e che mi spingeva ad andare avanti.
Avevo fatto fatica a lasciarmi andare, ma la vomitata, così mi dicevano tutti, era stata una grande purificazione, che avrebbe reso più facile la cerimonia successiva, il giorno dopo.
Simona Adriani
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