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Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Rossana Pasian
Titolo: Dolori postumi
Genere Narrativa
Lettori 3206 29 44
Dolori postumi
Ingrid.

Call me Cesare.

Alcuni anni fa, non importa quanti, con solo una laurea triennale in Lettere in tasca mi trasferii dal mio paese natale verso il Nord per continuare gli studi. Abbandonai tutto ciò che avevo costruito nel mio luogo natio, fregandomene dei sentimenti degli altri e di tutte le comodità che non avrei mai più provato, se non per brevissimi periodi. Mi diedi all'arte della lettura spasmodica, della caccia alle situazioni (quelle più complicate) e ai fallimenti clamorosi. Sono l'uomo che odia le donne. L'unico scopo della mia vita è conoscere me stesso a scapito degli altri.

La ragazza che abbandonai si chiamava Ingrid.

L'avevo conosciuta all'università, quando entrambi studiavamo per la triennale. Era molto bella, appariscente, e faceva la modella per i fotografi della zona.

Era stata la mia prima ragazza, la prima in tutto (o quasi). Iniziai a frequentarla con il gruppo di amici dell'università perché dovevamo preparare un esame abbastanza tosto di linguistica, e serviva tutto l'aiuto possibile. Era impossibile non notarla: bellissima, perfetta, lunghi capelli biondo scuro e occhi azzurrissimi.

Non mi sarei mai aspettato che una ragazza così appariscente potesse notarmi, timido com'ero a quell'epoca, soprattutto senza una buona dose di alcol nel corpo.

- Ehi, svegliati, non hai visto come ti sorride? - mi dissero un giorno.

Le proposi allora (non con poco imbarazzo) una birra sul lungomare della città, in un tentativo quasi estremo e senza speranza di essere romantico e di stupirla. Quella sera iniziammo a frequentarci come fidanzati e il mio mondo cambiò.

Non ero più il Cesare timido, solitario, “sei-così-carino-come-mai-non-trovi-una-ragazza?”.

Finalmente mi ero normalizzato, e oltre: avevo trovato una ragazza da far invidia a ragazzi e uomini della zona, ricca, di buona famiglia, addirittura cattolica semi-praticante (cosa che a me in realtà non dava così tanto prestigio, ma era importante per gli altri). I miei genitori erano felici che avessi trovato Ingrid, mia sorella adorava quella ragazza a cui qualsiasi vestito stava bene.

Dopo pochi mesi, Ingrid si era inserita perfettamente nella mia famiglia, adorata da tutti e trattata meglio di una figlia; io pure ero riuscito a farmi amare dalla sua, che vedeva in me un ragazzo a modo e senza grandi pretese, che avrebbe condotto la loro bambina, dopo la fine degli studi ovviamente, all'altare con tutti gli onori del caso.

Riuscimmo anche a inserirci bene nei rispettivi gruppi di amici storici: i ragazzi la trovavano “troppo gnocca”, non riuscii mai a capire se fossero contenti della sua presenza perché era la mia ragazza ed erano felici per me, oppure perché era proprio un bel vedere tonico e senza cellulite; le sue amiche e le sue numerose sorelle mi presero sotto la loro ala protettiva, il fidanzato da tenere d'occhio e trattare al meglio, finché si fosse comportato come tutte si aspettavano.

Ingrid fu soprattutto la prima volta. Avevo vent'anni ed ero ancora vergine, lei aveva già avuto un paio di esperienze e riuscii a guidarmi nonostante il mio nervosismo e la mia ansia da prestazione. La prima volta fu dolce, non durò molto ovviamente, ma ancora ricordo bene i baci e le coccole post-coito. Mi sentivo finalmente adulto, potevo parlare con i ragazzi di sesso in modo partecipe, sapendo quello che stavo dicendo. Pian piano iniziai a non avere più paura del suo corpo né del mio, ci esploravamo a vicenda, senza esagerare però: ci limitavamo alle posizioni tradizionali (uno sopra l'altro e viceversa) e alle carezze che sfioravano i nostri corpi in maniera quasi casta, ma che riuscivano ad accenderci. Mi piaceva guardarla mentre dormiva, con i capelli scompigliati. Pensavo è mia, la mia ragazza.

Andammo avanti così, tutto rose e fiori, per due anni circa. Poi qualcosa in me scattò. Iniziai a chiedermi se fosse davvero quella la vita che mi ero scelto, se fossi effettivamente felice con quella ragazza.

Era una modella, si giravano tutti per strada quando passava e io ero fiero di poter farmi vedere mano nella mano con una ragazza del genere. Ma in realtà non era simpatica e intelligente: non era una rozza ignorante e la sua compagnia era piacevole, però non aveva quel qualcosa in più, non era in grado di reggere una conversazione seria per più di dieci minuti, passava le giornate a postare sulla mia bacheca di Facebook frasi del tipo “io e te tre metri sopra il cielo”, faceva battute che solo lei capiva, trovava divertenti cose che nessuna persona normale avrebbe trovato degne di nota. E quella risata da oca diventava ogni giorno più insopportabile, falsa.

Comunque, nessuno vedeva queste cose e tutti si aspettavano che di lì a poco saremmo andati a convivere: io mi ero appena laureato alla triennale, lei aveva già iniziato la magistrale, e sicuramente grazie alle numerose conoscenze dei genitori avrebbe trovato presto un lavoro in qualche azienda, e anche per me.

Il paese era già in festa, convinto che mancasse poco alla proposta di matrimonio: sentivo gli occhi addosso ogni volta che andavamo a mangiare al ristorante, perché i presenti si aspettavano che da un momento all'altro avrei tirato fuori un anello di diamanti e le avrei chiesto di essere mia per sempre.

I nostri genitori, un po' più con i piedi per terra, riflettevano sulla possibilità che io e Ingrid andassimo a convivere. Entrambi avevamo una stanza nella città universitaria vicino al nostro paese, quindi: “Perché non vi prendete una doppia insieme? Così iniziate una convivenza e poi si vedrà”. Questa possibilità era già certezza per Ingrid, infatti si era subito messa di impegno a cercare delle doppie nel centro storico, o magari un monolocale da dividere noi due soli. Io invece non ne ero per nulla convinto, ripetevo meccanicamente “Sì sì, si può fare”, ma con poca sicurezza.

Alla fine decisi che quella non era la vita che faceva per me, almeno non al momento. Lessi un articolo di un'università sempre in cima alle classifiche italiane e decisi che quello era il posto giusto per me: mi sarei trasferito a molti chilometri da casa, avrei fatto una nuova esperienza di vita da solo, poi sarei tornato una volta laureato e avrei iniziato la mia vita da marito di provincia come tutti si aspettavano.

Prima ne parlai con i miei genitori, dicendo che sarebbe stata una grossa opportunità per me, avrei fatto un'esperienza in un posto nuovo e avrei imparato a cavarmela completamente da solo, inoltre mi sarei laureato in una delle migliori università. Sembrai convincente, perché i miei genitori non ci misero molto a darmi la loro benedizione. Anche mia sorella ne era entusiasta, perché studiava in una città vicina a quella che avevo scelto, quindi avremmo potuto vederci molto più spesso durante i mesi invernali.

Meno felice ne fu naturalmente Ingrid, che già dava per scontato il nostro imminente trasferimento in una nuova casa. Parlammo a lungo, ripetei le stesse cose che già avevo detto ai miei genitori, le confermai il mio amore, che mai l'avrei tradita, che per una futura carriera quel nome era prestigioso, che lei sarebbe potuta venire quando e quanto voleva nella mia nuova città di adozione, che per ogni ponte e festività saremmo stati insieme per recuperare il tempo perduto. Alla fine fu costretta ad accettare, vedendo l'euforia nei miei occhi e sapendo che non mi sarei arreso molto facilmente.

All'inizio dell'anno accademico mi trasferii. Mantenni con Ingrid contatti quotidiani, via telefono, messaggio e Skype, ci vedevamo nei weekend. Tutto sembrava procedere secondo i piani, le cose tra me e lei non sembravano essere cambiate.

Tranne solo che non sentivo così tanto la sua mancanza.

Non mi struggevo per la sua assenza, nemmeno quando ero da solo nella mia stanza. Legai molto con i miei coinquilini, conobbi i loro amici e diventarono il mio gruppo con cui fare serata. Era tutto un mondo nuovo, fatto di persone che arrivavano da luoghi diversi, da realtà diverse e con storie diverse. Pensai a quanto ero rimasto bloccato nella mia vita limitata al paese, dove non c'era tutto questo viavai di personaggi e la realtà culturale moriva di anno in anno. Lì era tutto fresco e nuovo.

Arrivarono le vacanze di Natale.

Mi faceva piacere tornare per un periodo a casa, ma ero irrequieto e avrei voluto tornarmene presto alla mia vita da fuorisede lontano da tutti. Furono tre settimane pesanti, io e Ingrid litigammo molto spesso per stupidaggini, ma nessuno dei due tirò fuori la vera questione: la nostra storia non poteva avere un seguito perché io vivevo completamente su un altro pianeta, in cui lei non era ben voluta.

Ciononostante non la lasciai: mi sentivo in colpa nel farlo, avrei creato tumulto nelle nostre famiglie, i nostri amici avrebbero cercato in ogni modo di farmi cambiare idea, mia sorella mi avrebbe ucciso perché ormai Ingrid era diventata una delle sue migliori amiche. E anche perché lei era la mia prima ragazza, la prima che si fosse innamorata di me, e io non ero sicuro che avrei trovato un'altra persona che volesse starmi accanto.

Un giorno, d'improvviso, mandai un messaggio a Ingrid dove le dicevo che ormai non avevamo più nulla da spartire e che per me la nostra relazione era finita, poi bloccai il numero, feci finta di non conoscerla e sparii dalla faccia della terra. Non mi interessavano i commenti che avrebbero fatto i compaesani e i parenti, volevo escludere tutto il mondo che avevo lasciato a chilometri di distanza. Io. Ci sarei stato solo io.

Mi sentii sollevato. Finalmente la tortura era finita, il passo decisivo era stato fatto e ora potevo continuare la mia vita.

Mi sentii finalmente maschio, virile. Le sue urla al telefono e le lacrime, che mi sembrava di vedere attraverso il suono del suo singhiozzare strozzato, mi davano conforto, mi ricordavano che anche io ero capace di manovrare qualcosa, che non ero un semplice spettatore della mia vita, ma potevo modificarla a mio piacimento, insieme a quella dell'altra persona.

Quando finisce una relazione, chi lascia è sempre felice. È un'idea troppo forte da respingere, e urlarla è un'esigenza. Quando pronunciamo le parole ci sentiamo più leggeri, più felici appunto.

C'è una gioia sadica nel vedere l'altra persona cambiare umore da triste ad arrabbiato di continuo, nelle sue lacrime e nelle sue urla. In quel momento hai la sua vita in mano, le sue emozioni completamente sotto il tuo controllo. Nulla può darti la stessa sensazione di onnipotenza come chiudere una relazione con qualcuno.

Essere abbandonati e gettati via è tutta un'altra questione. La prima cosa a cui si pensa, anche solo inconsciamente, quando il proprio partner dice di non voler più stare con te è cosa dire agli altri. Sono molto poche le anime elette che piangono la perdita della persona, i più pensano a come sarà la propria vita sociale da soli, senza l'appiglio dell'altro. La maggioranza delle persone non vuole amare: vuole solo il consenso sociale. Essere in coppia significa che qualcuno ci ha voluto e non facciamo così schifo; essere single invece dimostra che nessuno ci vuole, perché evidentemente non valiamo nulla. Alcune persone non riescono a concepire una vita di solitudine, denigrano sé stessi e gli altri se non riescono a trovare una compagnia da poter mostrare a tutti i passanti mentre si sta mano nella mano. Ma a chi, davvero, piace stare in quella posizione? Non hai libertà di movimento, d'estate diventano sudaticce e ancora più calde del resto del corpo. Ma lo devi fare, per il tuo prestigio sociale. Devi prendere quello che passa per il convento, non puoi selezionare perché significa che sarà più difficile per te trovare qualcuno.

Meglio con qualcuno anche se male accompagnati, che soli. Questo è l'imperativo.

Io avevo scelto la solitudine, quindi ero diventato pericoloso: chi è solo è pericoloso, perché dimostra che in verità gli altri si stanno sbagliando, che sono dei bastardi ipocriti che usano l'altro solo per sentirsi tranquilli agli occhi del mondo.

Quanti amano davvero? Quanti non hanno avuto una relazione con una persona che non apprezzavano per la paura della solitudine? Quanti hanno cercato di “piazzare” qualcuno dei propri amici perché era single? Quanti vogliono sposarsi o convivere a prescindere dalla persona che hanno di fronte? Quanti hanno organizzato la propria cerimonia, il numero di figli e i loro nomi prima di aver compiuto i diciotto anni? Quanti hanno cercato con tutte le loro forze la persona che potesse andar bene, quella che gli avrebbe fatto fare bella figura con i parenti e i conoscenti? Quanti hanno pensato di essere più fortunati per aver trovato una persona con un buon lavoro e una famiglia perbene, mentre gli altri sono ancora soli?

Io lo so che sono in molti. Perché anche io ero uno di loro. Anche io mi sono sentito meglio quando mi sono finalmente fidanzato dopo anni di attesa. Mi sono improvvisamente sentito migliore, non ero più lo sfigato della situazione e potevo trovare un posto al tavolo di quelli che ce l'avevano fatta. Ed ero sollevato che fosse una ragazza bella, che tutti adoravano: se non c'è l'approvazione del pubblico, lo spettacolo non può andare avanti.

Mi chiusi in me stesso, dissi ai miei genitori e a mia sorella che era già da un po' che le cose tra me e Ingrid non andavano bene, quindi avevo preferito chiudere la faccenda in modo brusco e repentino. Si aspettavano delle spiegazioni e mi supplicavano di tornare sui miei passi, oppure di tornare a casa per cercare un confronto e parlarne.

Io però ero irremovibile: la scelta era stata fatta e non avevo alcuna intenzione di tornare indietro.
Rossana Pasian
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