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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Adele Morasci
Titolo: L'angelo scalzo
Genere Romance Fantasy
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L'angelo scalzo
Chiudo gli occhi e sono di nuovo qui.
So che potrei andare ovunque ma questo posto, meglio di qualunque altro al mondo, mi ricorda di quando ero vivo.
Le scogliere della rovina sovrastano l'oceano di oltre duecento metri. Il sole è velato e il vento solleva la polvere, piega l'erba e agita il mare.
Mentre avanzo con falcate regolari sullo stretto sentiero a strapiombo, ascolto le onde infrangersi sulla roccia. I miei timpani si appropriano del ritmo discontinuo dell'acqua, i miei occhi vigili osservano la tempestosa massa argentea dirigersi ignara verso gli scogli, prossima all'impatto.
Scorgo la grigia torre di O'Brien a metà strada tra l'erba verde e l'oceano d'acciaio. Viste da qui, le persone che vi gravitano intorno stentano a raggiungere la dimensione di una formica.
Non mi stancherò mai di questo paesaggio, sono pronto a giurarlo. Chiudo gli occhi e raggiungo quell'insenatura. La torre è ancora visibile anche se ora sono sulla spiaggia.
Sebbene sia passato tanto tempo, ricordo quel giorno come se fosse ieri.
Avevo nove anni ed ero un ragazzino come tanti: mi bastava un pallone per essere felice. I paesaggi verdi e incontaminati dell'Irlanda hanno sempre affascinato mia madre, così, nell'estate del ‘75, mio padre, quasi senza dire niente, caricò la macchina e da Dublino partimmo alla scoperta di quelle terre che profumavano di legno, erba incolta e salsedine. Eravamo solo noi tre e Bingo ovviamente, il mio cane.
Mia madre era italiana, mio padre irlandese.
Ma ripartiamo dal principio, mi chiamo Eamonn e sono morto il 9 novembre del 1989.
Quando i miei occhi si sono chiusi e ho visto la luce in fondo al tunnel - a proposito, esiste davvero - mi è stata offerta una scelta: avrei potuto raggiungere quella luce o restare sulla Terra come angelo.
Avevo da poco compiuto ventiquattro anni ed ero stato strappato alla vita senza nemmeno rendermene conto: accettai di rimanere, ovviamente.
Una voce calda e rassicurante iniziò ad elencare con chiarezza le regole della mia nuova vita: avrei potuto raggiungere qualsiasi luogo in un battito di ciglia, non mi sarebbe servito denaro, non avrei più provato fame o sete, sonno o fatica, freddo o caldo.
Continuò a parlare per parecchio tempo e devo ammettere che ad un certo punto di quella lista infinita mi sono distratto. Il succo l'avevo colto, credo di aver staccato la spina poco dopo la notizia che non mi sarei mai ammalato che, per me, che da vivo soffrivo di otiti e raffreddori continui, poteva considerarsi la ciliegina sulla torta e in più non sarei invecchiato di un giorno.
In cambio di tutti questi benefit, avrei dovuto svolgere un compito semplicissimo: aiutare le persone a perdonare.
Signore e signori, mi presento: io sono l'angelo della pace.
Quando la gente litiga, intervengo.
Ce ne sono altri come me ma quando due di noi sono troppo vicini, invece di placare i dissidi ne fanno scoppiare di nuovi. Paradossale vero? Ma è così che funziona: sembra che troppa pace porti alla guerra.
Sono invisibile, gli umani possono vedermi solo quando decido di rivelarmi. Devo mantenere un profilo basso, perciò mi mostro di rado.
Non che sia particolarmente memorabile! Il mio aspetto è rimasto lo stesso di quando ero vivo, solo i miei occhi hanno cambiato colore diventando di un azzurro etereo. Per quanto ne so, tutti gli angeli ce li hanno così. E rilucono al buio, una piccolezza decisamente inquietante e difficile da spiegare agli uomini.
Non soffro di solitudine poiché non sono più in grado di provare emozioni umane, anche questo faceva parte della lista.
Tuttavia, ho sviluppato la malsana abitudine di parlare da solo e lo faccio come se mi stessi rivolgendo ad un pubblico: il pubblico del mio personalissimo programma radiofonico. Mi è sempre piaciuta la radio e ho una bella voce. Sarei stato un ottimo conduttore: a blaterare sono imbattibile. Per quanto riguarda il canto invece mi astengo, per il bene comune, ovviamente.
Non fraintendetemi gente, la mia esistenza è solitaria ma appagante.
Il mio lavoro consiste nel fare del bene. Sono l'angelo della pace, diamine!
Scivolo in punta di piedi nella vita di chi ha bisogno di aiuto, schiocco le dita e voilà, mi godo la risoluzione di cui sono l'artefice. Non cerco applausi né gloria ma a volte credo mi manchi se non il contatto, almeno uno scambio di vedute.
Ve lo dico sottovoce, alzate il volume: alcuni giorni mi piacerebbe persino litigare!
Lo so, sono pessimo.
Comunque se Dio mi ha scelto, chi sono io per biasimarlo? Di certo avrà avuto le sue ragioni.
E poi ci sono loro, i migliori amici dell'uomo.
Ecco un segreto: i cani riescono a vedermi. Avete notato come a volte i vostri amici a quattro zampe si fermino a guardare nel nulla? È probabile che stiano ammirando un angelo. Mi domando come appaiano gli angeli ai loro occhi, di sicuro in bianco e nero. Quel che mi chiedo è se ci vedano, che so, avvolti da una luce speciale, o magari a forma di osso.
Ad ogni modo, quando posso mi fermo per regalargli una coccola: ho sempre amato queste bestiole: mi ricordano il mio cucciolo.
Parlavo di cani ed eccone uno che spunta dal nulla correndo sulla spiaggia, è marrone e ha il pelo lungo. Raggiunge il bagnasciuga e si tuffa in acqua deciso. Rabbrividisce appena per l'impatto per poi lasciarsi avvolgere dall'oceano e sguazzare felice. Resta a mollo per un po' e, quando si ritiene soddisfatto, esce e si scrolla l'acqua di dosso.
Le labbra mi si increspano in un sorriso.
Sta per tornare verso la strada ma quando mi vede fa dietrofront per raggiungermi, così allungo la mano per accarezzarlo.
Quanto mi ricorda Bingo! Ha un collarino blu elettrico con una medaglietta dorata. Mi lascio annusare le dita prima di sfiorargli il muso, quando un fischio ci fa irrigidire entrambi.
Mi fissa per un istante coi suoi piccoli occhi neri, poi riprende a correre in modo sghembo verso la sua padrona.
La scorgo appena, sul ciglio della strada in prossimità di un'automobile rossa, i capelli castani al vento.

Gennaio 1990

Galway

All'inizio non è stato semplice: scegliere chi aiutare pareva un compito impossibile. Udivo una marea di conversazioni confuse senza capire da dove provenissero, molteplici voci si affollavano nella mia testa, sovrastandosi senza tregua. Avrei voluto allo stesso tempo aiutare tutti e infilarmi dei tappi per non sentire più nessuno. Sentivo urla che avrebbero potuto lacerarmi, sensi di colpa, mea culpa e scintille di odio che, se fossi stato capace di provare ancora qualche emozione, mi avrebbero distrutto.
Litigare fa parte dei rapporti umani, il più delle volte ci si riappacifica e spesso il merito va a uno come me.
Mi ci è voluto del tempo per imparare a distinguere i battibecchi dalle discussioni serie.
Mio padre era originario di Galway, invece io sono nato a Dublino dove ho vissuto saltuariamente fino ai sedici anni. Mamma ed io seguivamo papà che, nei panni di avvocato presso la Santa Sede, ci portava a Roma per sei mesi l'anno.
Ah, la città eterna, quanti ricordi e quante avventure! Anche se per me avrà per sempre un gusto dolce amaro.
Gli anni settanta erano anni ricchi di musica spettacolare: chiunque si dilettava a suonare uno strumento, ricordo che persino mio padre, nonostante i mille impegni, si ritagliava del tempo da dedicare alla batteria.
Suonavo anche io sebbene non benissimo: imparai il flauto traverso da autodidatta e, nonostante mi piacesse cantare, rimasi sempre stonato come una campana. Ancora oggi ci sono giorni che mi entrano in testa motivetti che non riesco ad ignorare, così continuo a cantarli - male - fino alla nausea, anche nei momenti meno opportuni. Provate a placare una lite tra ubriachi canticchiando Felicità di Albano e Romina - no, non sto scherzando - ero talmente distratto che quei due stavano per colpirmi in pieno!
A diciotto anni tentai di seguire le orme di mio padre iscrivendomi alla facoltà di giurisprudenza - entrai ad Oxford! - ma, mentre ero perfettamente bilingue e la memorizzazione dei termini in inglese e in italiano era innata in me, ricordare tutte quelle leggi, disposizioni e norme mi riusciva impossibile. Nonostante mi impegnassi con tutte le forze, non ebbi successo. Pensate che inventai persino dei motivetti per aiutarmi nello studio. Il mio slogan era puoi cantarlo, puoi farlo. Ridicolo, già.
Il mio cervello però aveva deciso da sé costruendo una barriera intorno a quella materia tanto astrusa. Così abbandonai gli studi deludendo mio padre, mamma ormai non c'era più da un po'.
Mi reinventai, o almeno ci provai.
Pensai a cosa mi riuscisse meglio e trovai la risposta appesa al mio collo, la mia Nikon F mi seguiva ovunque andassi: ho sempre adorato fare fotografie e devo ammettere che mi manca un po'. Immortalare paesaggi incontaminati, animali nei loro habitat e persone ignare ha sempre avuto un grande fascino per me. Sognavo di andare a visitare i posti più isolati del mondo, raggiungere l'Australia e arrivare fino in Patagonia.
Alla fine quei posti li ho visti, sebbene non fossi più tra i vivi.
Ma stavo parlando di Galway. Vedete? A furia di chiacchierare mi perdo il filo!
Quel giorno stavo passeggiando lungo il Corrib, i cigni scivolavano sull'acqua blu e il sole stava per tramontare quando due voci particolarmente adirate mi attirarono più delle altre. Da quando sono un angelo nella mia testa vorticano brusii costanti, se fossi umano soffrirei di emicrania, ma non lo sono e così seguo le discussioni che riesco a distinguere meglio. Di solito più è alto il volume, più è grave il litigio. E quei due stavano strillando.
Quel “caso” - mi piace chiamarli così - fu importante per me perché fu allora che finalmente imparai il mio lavoro.
Quando raggiunsi le voci capii che erano quelle di un padre e di un figlio. Il motivo della discussione era uno scontato “mi presti la macchina”, “sì ma prima passa a prendere tuo fratello agli allenamenti”, “non farei in tempo, non sono un babysitter”, “allora vai a piedi” per poi proseguire con imprecazioni che non riporterò sia perché non sono indispensabili per il racconto ma anche perché non posso farlo.
Piccola curiosità: gli angeli non dicono parolacce.
Vi ho lasciato di stucco o pensavate fosse probabile? Ebbene ci è vietato, anche se volessi dire una parolaccia, questa uscendo dalla mia bocca si trasformerebbe in una parola più accettabile - spesso buffa - e mai scurrile.
Non sapevo che pesci prendere, così procedetti per tentativi.
Dapprima provai ad agire stile angioletto buono sulla spalla del figlio. Il ragazzo mi ignorò - o forse non fui abbastanza convincente - così provai a fare lo stesso col padre. Fu inutile: erano due testoni. In quel caso il detto tale padre, tale figlio era proprio vero.
Ero pronto ad arrendermi, non mi sembrava un gran conflitto, dopotutto, potevano sbrigarsela da soli. Stavo per abbandonarli al loro destino quando ebbi un'idea. Un'idea sciocca, di una banalità sconcertante ma funzionò.
Il padre aveva accanto a sé una catasta di legna che stava spaccando per il camino, così mi voltai verso il figlio, lo fissai e gli dissi - Aiutalo con la legna -.
Rimasi invisibile ma ebbi la certezza che le mie parole lo avessero raggiunto.
Il ragazzo rimase immobile per qualche secondo prima di avanzare verso il padre e prendere l'accetta dalle sue mani. L'uomo sembrò sorpreso ma si fece da parte quasi subito. Il giovane spaccò una buona metà di legna e poi prese la macchina. Si offrì di andare a riprendere il fratello la settimana successiva e tutti vissero felici e contenti. Grazie a me.
Felice per aver risolto quel dissapore, non mi ero ancora allontanato quando un cane iniziò ad abbaiare nella mia direzione. Me ne andai prima di destare sospetti: ancora non avevo imparato come apparire e scomparire a mio piacimento, rischiavo che mi vedessero.

Londra

Luglio 1987

Da vivo consideravo invisibili i barboni, un po' perché sono loro a nascondersi, un po' perché da buon londinese ho imparato presto ad ignorarli. Ne avevo incontrati alcuni anche a Dublino e a Roma ma in proporzioni minori. Londra ne era piena già negli anni ottanta.
Ricordo quel martedì notte: era stranamente afoso per gli standard della capitale britannica.
Trafelato, entrai nella stazione di Paddington con lo zaino in spalla. Avevo trascorso la serata dalla mia ragazza, Kate. Era una delle tante, non sono mai stato capace di avere relazioni durature. A ventidue anni pensavo di avere tutta la vita davanti e all'epoca ero troppo preso a sfogare col fumo e col sesso la mia frustrazione per lo studio.
Da quando mamma è morta, papà si è buttato a capofitto sul lavoro per non pensare: collaborava con ben due studi di avvocati e accettava spesso casi pro bono pur di tenersi impegnato.
Io invece, che di tempo per pensare ne avevo fin troppo, mi trovavo ad affogare nei pensieri, così leggevo, suonavo e scattavo fotografie. Tentavo invano di memorizzare i codici, fumavo una sigaretta dietro l'altra e bevevo caffè per restare sveglio.
Il mio carattere compagnone ha fatto sì che fossi sempre circondato dalla gente, soprattutto di sesso femminile. Sebbene il flauto non affascini quanto una chitarra e una bella voce, per qualche inspiegabile motivo - nonostante le facce buffe che mi uscivano soffiando nel mio tubo argentato - attiravo un sacco.
Non potevo sapere che di lì a poco più di un paio di anni sarei morto, ma quella notte feci una buona azione.
Guardai l'orologio: erano le undici passate, se mi fossi sbrigato sarei salito sull'ultimo treno diretto a Hitchin.
Varcai l'entrata della stazione e vidi un barbone puzzolente che russava sonoramente.
Iniziai a riflettere sulla sua esistenza: pensai a tutta la gente che - come me - lo evitava, al fatto che a nessuno importasse di lui. Chissà se era affamato nel suo rifugio di cartoni, avvolto in una coperta sudicia con un cane pulcioso come unico compagno. Invece io stavo tornando nella mia comoda stanza, in un appartamento enorme appena fuori Londra che dividevo con due coinquilini che mi rispettavano, avevo mio padre nella stessa città e, per quanto a volte potessi sentirmi solo, non lo ero mai per davvero.
Affondai la mano destra in tasca e pescai una banconota cinque sterline, mi chinai e la misi in mano a quell'uomo. Il cane mi guardò uggiolando, il barbone invece neppure si svegliò.
Oltrepassai il tornello e volsi lo sguardo al tabellone degli arrivi, quando una voce roca mi sorprese urlando con gioia.
Quel grazie ancora lo ricordo.

Maggio 2015

Ho trascorso a Londra gli ultimi otto anni della mia vita.
Ho sempre apprezzato il caos della capitale britannica: mi faceva riflettere su quante persone ci fossero al mondo. Nonostante abbia perso mia madre all'improvviso, sono felice di aver ereditato il suo carattere solare, in più sono sempre stato un bravo osservatore e credo derivi da qui la mia passione per la fotografia. Sono in grado di capire se una persona soffre o è felice: analizzare le emozioni della gente mi è sempre riuscito facile.
È a Londra che sono morto e, sebbene ci sia tornato un milione di volte come angelo, continuo ad evitare il punto che ho visto per ultimo, a Barbican.
Datemi retta se vi dico che nella capitale britannica si litiga parecchio. Anche se non vincesse il primo premio come città più irascibile del mondo, il suo posto sul podio è assicurato.
Col tempo è diventata una città multiculturale, dove si riversa gente proveniente da ogni dove. Il problema è che le persone faticano a comprendersi tra loro, tutti provano a parlare in inglese ma solo in pochi ci riescono davvero.
I peggiori sono gli italiani - non sto puntando il dito, ricordate che sono italiano per metà - che pensano che basti gesticolare ed alzare la voce per farsi capire. Purtroppo non funziona così, perlomeno non sempre.
Con l'avvento dei cellulari, le cose sono precipitate. Li seguo sin dagli esordi e, per quanto siano di grande aiuto per comunicare un imprevisto o restare in contatto con chi è lontano, hanno peggiorato la qualità dei rapporti invece di migliorarla come tutti credono.
Vedo di continuo gente risucchiata dal piccolo schermo del proprio telefono che non si accorge di dove mette i piedi, che ride da sola, che ignora chi ha di fronte per parlare - anzi chattare con qualcun altro perché, diciamoci la verità, non ci si parla quasi mai a voce - è come se chi avesse davanti fosse sempre meno importante di chi c'è al di là dello schermo mentre digita furiosamente parole, scatta foto e crea stories su Whatsapp, Telegram, Instagram, TokTok e chi più ne ha, più ne metta. I peggiori sono quelli che girano video e scattano fotografie in cui sorridono e si divertono solo per condividerle e che, subito dopo aver mostrato la loro “felicità” al mondo, tornano ad essere le persone tristi e sole di prima.
Quando arrivo a Londra fatico sempre a lasciarla, c'è troppa gente che ha bisogno di essere riappacificata ma per fortuna qui operiamo in tanti.
Dopo Galway, è stato proprio nella capitale britannica che ho imparato a padroneggiare il mio nuovo mestiere.
Ho capito che non devo convincere nessuno a fare la pace se non me stesso: devo essere il primo a credere che esista un modo per appianare i dissidi.
So che non mi sarei dovuto distrarre durante la spiegazione delle mie mansioni, è probabile che la Voce mi abbia istruito su come svolgere questo mestiere. Purtroppo però era soporifera e non l'ho ascoltata fino alla fine.
Riappacificare chi tampona con le automobili è quasi impossibile, solo le liti tra ubriachi battono gli incidenti. Ho visto tirare fuori coltelli e pistole con una facilità agghiacciante.
Il segreto per placare le liti sta nel lanciare un'esca: non ho il potere di leggere nella mente delle persone ma ho imparato a leggere il linguaggio del corpo.
Un esempio pratico: due sorelle litigano perché una ha preso in prestito un paio di scarpe o una borsa senza chiedere il permesso alla proprietaria. Si tratta di una situazione tipo che capita mille volte al giorno in tutto il mondo. Individuo un oggetto che credo possa ricordare il legame - in questo caso - delle litiganti e lo sposto cosicché lo notino, spesso lo lascio persino cadere per terra, sì come un fantasma che muove le cose. Starete pensando che è inquietante ma vi giuro che è efficiente.
E, se questo non bastasse, mantenendo la mia invisibilità, mi rivolgo a brutto muso a quella che ha torto - sperando di indovinare quale sia - e la faccio scusare.
Questo funziona sempre.

Gennaio 2020

Parigi

Dicevo che sto bene da solo, anche se a volte sento il bisogno di farmi una chiacchierata. Non si tratta di una vera necessità, più di una curiosità. Capita che mi venga voglia di ricordare com'era essere vivi, così, travolto dalla nostalgia dei rapporti interpersonali, attacco bottone con qualcuno.
Memore della regola di passare inosservato, scelgo con cura i miei interlocutori: seleziono persone che non si ricorderanno di me o che non hanno nessuno a cui raccontare di avermi incontrato, come gli ubriachi o i barboni.
I miei occhi ipnotici restano impressi, persino io ho faticato ad abituarmi al loro colore opalescente all'inizio.
Gli ubriachi però non ve li consiglio: a volte sono troppo tristi, a volte troppo euforici, a volte troppo attaccabrighe.
I senzatetto, invece, si sentono soli, spesso sono malnutriti ed è raro che siano pericolosi. Scambiare due parole con qualcuno fa più bene a loro che a me.
Sono a Parigi e risolvo conflitti con facilità ormai.
Non sono mai stato nella Ville Lumière da vivo ma sulla mia lista delle cose da fare c'era anche visitare il Louvre. Quando passo per Parigi trovo sempre una scusa per una capatina al museo. Ci sono entrato sedici volte ma non l'ho ancora visto tutto, così ad ogni visita scopro qualcosa di nuovo. Oggi, per esempio, sono rimasto colpito da alcuni complementi d'arredo di Versailles.
Un tempo li avrei degnati appena di un'occhiata fugace, impaziente di raggiungere la sala successiva ma per qualche motivo ne sono rimasto affascinato. Tutto quell'oro e quel mobilio imponente! È probabile che sia perché non ho una casa ma ai miei occhi persino quegli scomodi divani a strisce avevano il loro fascino.
Appena fuori dal grande museo mi imbatto in una coppia di barboni proprio sotto il porticato di rue de Rivoli. Vivono su un materasso sudicio, lui è seduto, lei è sdraiata.
Nonostante sia notte, volto l'angolo, controllo che non ci siano persone o telecamere nei paraggi e mi rendo visibile. Devo fare attenzione: apparire dal nulla in un'epoca in cui una persona su due ha la fotocamera del cellulare aperta non è una mossa saggia.
In passato ho persino ricevuto un richiamo ufficiale.
È stato Michael a farmelo, un angelo assai pedante che, in tutta sincerità, spero di non incontrare più.
Mi avvicino ai due senzatetto, non saprei dire quanti anni abbiano ma è chiaro che la donna stia malissimo: nonostante faccia freddo è sudata e delira, così mi avvicino per offrirle una parola di conforto. Il mio francese scolastico si ferma a “bonjour comment ça va” so dire “poulet” che significa pollo e “merci”. Provo a parlare in inglese ma non ho successo, tento ancora in italiano ma niente, questi due parlano solo francese così la conversazione non inizia proprio.
Non ho dubbi però che abbiano bisogno di soldi.
Come sapete non possiedo denaro perché non mi serve ma sto iniziando ad elaborare un piano per aiutarli: domani mattina, quando i turisti torneranno ad affollare le vie parigine, farò la mia mossa.
So che potrei rapinare un negozio o addirittura una banca: anche se fosse dall'altra parte del mondo ci metterei un secondo a scomparire col bottino ma non voglio pasticci col mondo angelico, così opto per un semplice scippo.
Sono invisibile, sarà facile come bere un bicchiere d'acqua, decido.
Non sto rubando per me stesso, quella coppia ha davvero bisogno di denaro e sono certo che, se provassi ancora sentimenti, mi sentirei come Robin Hood: rubare ai ricchi per dare ai poveri. Quando ero piccolo adoravo quel cartone!
Le bancarelle natalizie dei Jardins de Tuileries fanno al caso mio.
Studio con meticolosità gli avventori, decido di lasciar perdere chi ha bambini piccoli, le coppie giovani che non hanno un centesimo e le comitive di liceali per lo stesso motivo.
Finalmente trovo chi fa al caso mio: è un uomo di mezza età, col portafogli rigonfio che sporge dalla tasca del giaccone. Sta litigando con la moglie, presto litigherà anche di più se perde il portafogli, penso. Affari suoi.
Rapido, lo estraggo con due dita e lo nascondo subito nella camicia per evitare che qualcuno lo veda fluttuare a mezz'aria. Mi rifugio in un angolo e lo apro: avevo ragione, conto più di duecento euro in contanti! Prendo i soldi e li lascio ai due barboni di ieri notte senza mostrarmi. Dopo essermi accertato che li abbiano visti, sorridendo soddisfatto, decido di restituire il portafogli ormai depredato al proprietario, non ho nemmeno iniziato a cercarlo che mi imbatto in un uomo.
Sebbene l'abbia visto solo una volta prima d'ora, lo riconosco immediatamente: Michael, l'angelo pedante che, dal di sotto dei suoi capelli bianchi e col viso sbarbato alla perfezione, mi squadra con espressione di biasimo.
- Cos'hai fatto? - mi domanda alzando un sopracciglio.
- Ho aiutato delle persone in difficoltà - rispondo senza esitare.
- E perché? - incalza.
Alzo le spalle: - Perché se lo meritavano -
- Chi sei tu per decidere chi se lo merita e chi no? - insiste.
Sgrano gli occhi, non so rispondere ma so di aver fatto la cosa giusta.
- Non è compito tuo, ci sono altri angeli per questo - mi spiega.
Ah. Non lo sapevo.
Ad ogni modo non fa alcuna differenza: non mi sembra se ne stessero occupando: - Avevano bisogno di aiuto - dichiaro - e poi non ho fatto granché, quei soldi basteranno appena per un pasto decente e forse alcune medicine -
- Gli angeli non rubano - mi redarguisce col suo tono calmo.
- Evidentemente sono un angelo anomalo - lo sfido.
Mi accorgo di pensarlo davvero e, sostenendo lo sguardo di Michael mentre lo vedo scomparire, colgo di sfuggita il mio riflesso allo specchio. Le mie iridi azzurrissime si sono bordate di un anello marrone scuro.
Adele Morasci
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