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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Cara Valli
Titolo: Il tuo nome - Smith (Vol. 4)
Genere Suspence Romance
Lettori 2657 6 1
Il tuo nome - Smith (Vol. 4)
Annalisa.

Entrare nei sotterranei di un palazzo fatiscente, varcare una soglia dall'apparenza trasandata per accedere in un luogo dove tutto è dipinto di rosso e nero, mi fa accapponare la pelle, ma è soprattutto l'odore a farmi venire voglia di girare sui tacchi e andarmene: paura, dolore, lacrime e sangue, ecco di che cosa puzza questo posto.
È appena percettibile ma lo sento, l'olezzo ferroso e nauseante del sangue è lieve ma persistente, stringo i denti, raddrizzo le spalle e, senza mostrare alcun tentennamento, procedo lungo il corridoio seguita dal ritmo sicuro dei passi del mio parigrado.
− Maggiore da questa parte− dice uno degli uomini di Ferri, scostando un pesante tendone di velluto per farci accedere in un'altra sala.
− Grazie, Caporale− rispondo, anche se non ero io l'ufficiale cui era rivolto l'invito.
Quello che mi attende nella stanza è così assurdo che ne rimango agghiacciata, l'incredulità mi accompagna mentre cammino zigzagando tra alcune gabbie occupate da donne completamente nude e ridotte a poco più di animali in cattività.
Sto per raggiungere il gruppo di uomini che ha eseguito il blitz, quando un movimento improvviso mi costringe a fare uno scatto laterale, evitando per pochissimo una barra di metallo sbucata dalle sbarre.
Solo grazie ai tanti anni di duro allenamento per prepararmi alle gare di scherma, riesco a evitare la scarica elettrica che saetta sul pungolo brandito da una delle prigioniere.
− Andate via, lasciatemi stare− grida come un'indemoniata la donna, sventolando a destra e sinistra l'asta.
Scambio un'occhiata d'intesa con Dominic e con una finta attiro l'attenzione della prigioniera che cerca immediatamente di colpirmi.
Ferri con un calcio colpisce l'arma, strappandola dalle dita della ragazza che si rintana verso il lato opposto della gabbia, gridando ancora più forte:
− Non voglio, non voglio− urla, rivolgendosi a Ferri.
Il tono si affievolisce quando si copre la testa con le braccia, nascondendola tra le ginocchia strette al petto, ma ormai è tardi, la sua agitazione ha contagiato tutte le altre che si uniscono a lei in strepiti e lamenti che rimbalzano per lo stanzone, infrangendosi tutti nella mia anima già tormentata dallo spettacolo raccapricciante.
− Fai venire il tuo staff medico e falle sedare− mi ordina Dominic, superandomi.
Mi accuccio davanti alla ragazza e cerco di calmarla, ma non ascolta una sola delle parole che dico, è troppa la confusione ed è troppo il suo terrore.
− Rosa, potete entrare e porta una mezza dozzina di dosi di calmanti− comunico via cellulare alla responsabile del mio staff.
− Che cosa succede, Lisa?
− Ci sono...− conto rapidamente.
− Quattro... no, aspetta.
Con mio orrore noto la presenza di un paio di grosse voliere appese al soffitto e in una di esse c'è una ragazza con le braccia e le gambe fuori dalle sbarre.
Sembra una bambola rotta e dimenticata nella cesta dei giochi.
− Cinque, sono in cinque e come senti, sono tutte molto agitate.
La prigioniera di un paio di gabbie più in là mi osserva in silenzio, è l'unica a non urlare, l'unica che mi guarda negli occhi e noto immediatamente che ha le pupille dilatate.
− Temo che siano già sotto l'effetto di qualche sostanza stupefacente.
− Considerando le condizioni in cui ci hanno portato Sofia Solimar, non ne sono stupita ed eravamo pronti a questa eventualità.
− Porta anche qualcosa per coprirle, sono tutte quante completamente nude.
− Arriviamo al più presto con tutto il necessario.
Ripongo il telefono, recupero il pungolo e mi avvicino alla ragazza silenziosa che non si perde alcun mio movimento.
− Come ti chiami?− le chiedo dopo aver lasciato l'arma sopra a una delle gabbie vuote.
− Schiava− mormora, abbassando lo sguardo.
− No, tesoro, il tuo nome, non quello che ti hanno dato qui dentro.
− Non me lo ricordo− sostiene, sollevando brevemente gli occhi per dare una sbirciata oltre le mie spalle.
Mi volto per cercare di capire che cosa la stia preoccupando e assisto assieme a lei all'uscita di Ferri dalla sala e all'arrivo della mia squadra di psichiatri e infermieri.
Per fortuna il loro ingresso ha il potere di riportare il volume della cacofonia a un livello accettabile, non so se è merito dei camici o dell'aria professionale, sicuramente non per l'aspetto, perché a parte Rosa: una donna di quarant'anni minuta e dall'aspetto dolce, i restanti sono uomini ben piazzati come tutti i militari presenti in questo posto.
− Stai tranquilla, siamo qui per aiutarvi e ti do la mia parola che nessuno vi farà più del male− dico alla ragazza che solleva di poco la testa.
Torna a osservarmi e il bagliore di speranza che le brilla negli occhi pesti, mi fa stringere il cuore per il dispiacere.
− Non riuscirete a tenerci al sicuro− afferma, avvicinandosi alle sbarre.
− Lui troverà il modo di riportarci qui.
− Di chi stai parlando?
− E sarà ancora più crudele...− aggiunge, interrompendosi per guardarsi attorno come se potesse farle del male alla prima distrazione.
− Metterà in pratica tutto quanto− bisbiglia, incassando la testa tra le spalle per poi rannicchiarsi su se stessa ancora più strettamente di prima.
− Lui chi?− chiedo con più fermezza.
La ragazza sobbalza per il mio tono perentorio e, anche se non sono uno psicologo, capisco immediatamente d'aver commesso un errore: la prigioniera si chiude a riccio, stringendo labbra e palpebre.
− Ora che hai fatto i tuoi danni, puoi lasciarci lavorare− mi dice Rosa, chinandosi al mio fianco.
− Scusa, mi sembrava...
− Vattene, Annalisa, prima di farle venire un attacco di panico− m'ingiunge, interrompendomi.
La sento bisbigliare qualche parola con un tono morbido, ma solo quando mi allontano di qualche passo, la donna rilascia la tensione muscolare e, solo poco prima di voltarmi per darle le spalle, la vedo socchiudere le labbra per rispondere.
Conscia d'essere più d'intralcio che d'aiuto, esco in cerca del mio parigrado.
− Che cosa ti ha detto?− domanda Ferri appena mi avvicino al piccolo gruppetto di uomini oltre il tendone che nasconde l'uscita.
− Ha fatto riferimento a un fantomatico “lui”, ma quando le ho chiesto di dirmi di chi stesse parlando, si è ammutolita.
− Avrebbe dovuto lasciare che se ne occupasse qualcuno con le capacità adeguate− sbraita uno dei soldati che hanno eseguito il blitz.
L'astio nella sua voce me lo fa esaminare con più attenzione, ma essendo completamente vestito di nero e con il passamontagna ancora calato sul viso, non riesco a riconoscerlo.
− Sembrava intenzionata a collaborare− riferisco senza pensare che la mia frase potrebbe essere interpretata come un tentativo di giustificarmi.
Mi scontro con i suoi occhi azzurri pieni di superiorità e la voglia di rimetterlo al suo posto mi fa stringere i pugni.
− Smith, coordinati con i tuoi uomini e controllate ogni buco di questo luogo− ordina Dominic, rivolgendosi all'uomo che mi ha mancato di rispetto.
− Se il maggiore Seri l'ha spaventata chiedendole di fare un nome, è probabile che la ragazza tema ci sia ancora qualcuno nel locale.
Ecco chi è l'energumeno nascosto sotto quel cappuccio: Smith, uno dei collaboratori esterni di Ferri e non un suo soldato. Colui che ha strappato dalle mani degli schiavisti la Solimar, per poi trattarla esattamente come quei maiali. Ricordo come fosse ieri quando l'ha accompagnata in clinica, ma soprattutto ricordo le maniere poco convenzionali usate per tenerla tranquilla.
Lo osservo rientrare nella stanza delle gabbie senza neppure aver fatto un cenno di saluto e mi rivolgo a Ferri intenzionata a chiedere chiarimenti.
− Maggiore, dobbiamo iniziare a portare via le ragazze− dice uno dei miei paramedici, sbucando tra le falde del tendone di velluto.
− Posso far entrare i barellieri?
− Sì, certamente.
Ferri mi volta le spalle per rispondere a una chiamata e non mi resta che seguire Giancarlo per coordinare il trasferimento delle cinque donne.
Ogni prigioniera si calma ulteriormente non appena la squadra di dottori si accosta alle loro gabbie, ma dubito sia la certezza d'essere in salvo a farle acquietare, è molto più probabile sia la possibilità di farsi iniettare qualcosa nelle vene, perché tutte quante sporgono il braccio oltre le sbarre ancora prima che si avvicinino.
Stiamo per far uscire la prima donna quando Smith ingiunge a uno dei suoi sottoposti:
− Porta via da qui la testimone.
L'attività s'interrompe per guardare l'uomo in nero correre via come se avesse il diavolo alle calcagna.
Smith, con un moto di stizza, ci fa cenno di proseguire come se avesse tutti i diritti di impartire ordini a me o al mio personale medico.
Infastidita da quell'atteggiamento e impossibilitata a dirgli quel che penso di lui, stringo con un po' troppa energia la cinghia che stavo allacciando per immobilizzare sulla barella la bionda che era nella voliera.
− Lisa, lei non ne ha colpa− mi dice la dottoressa, allentando la costrizione che ho appena stretto.
− Come scusa?
− Questa povera ragazza ha già subito abbastanza maltrattamenti e non si merita che tu le scarichi addosso la tua frustrazione.
− Io non ho alcuna frustrazione da scaricare.
− Ah, no?
− No.
− Vuoi forse dirmi che Thor non ti sta innervosendo?
− Chi scusa?
− Anche se si è mascherato da uomo nero, l'abbiamo riconosciuto immediatamente, vero Claudia?− domanda all'infermiera che sta tenendo ferma la lettiga.
− Cazzo, è impossibile non riconoscerlo, mi farei un giro su quei pettorali anche adesso− commenta, strizzando l'occhio a Rosa.
− Perché lo avete soprannominato Thor?
Entrambe mi guardano come se mi fossero spuntate le corna ed è proprio la caposala paffutella a svelarmi la motivazione di quel nomignolo così poco appropriato:
− Capelli lunghi e biondi, alto un metro e novanta, muscoloso, con delle mani che potrebbero brandire con facilità qualsiasi oggetto contundente, occhi azzurri, barba della lunghezza giusta... gli manca solo un lungo mantello rosso e poi sarebbe la copia esatta del figlio di Odino.
− Ragazze datemi retta, fatevi una bella serata bollente con i vostri uomini, perché avete gli ormoni che vi stanno giocando un gran brutto scherzo− commento incapace di tenere per me la mia opinione.
Claudia non ribatte, ma prima di andare via con la barella, mi lancia un'occhiataccia.
− Dici che si è offesa?- domando a Rosa, appena passa oltre il tendone di velluto.
− No, Lisa, conosci benissimo Claudia e sai che non è così facile offenderla.
− Mi ha guardato malissimo.
Anche lei mi scocca la stessa occhiataccia della sua caposala e poi, indicando un paio di suoi colleghi alle prese con una delle altre ragazze, mi dice:
− Vai, Maggiore, va ad aiutare quei due.
− E comunque Smith non mi ha innervosita, ho trovato solo inappropriato e scorretto il suo modo di rivolgersi a me.
− Certamente, ora, con tutta la mia subordinazione, ti chiedo, la cortesia, di andare ad assistere Giancarlo e Dario.
− Alle volte sei veramente esasperante− le dico prima di andare ad aiutare i suoi due colleghi.
Una dopo l'altra liberiamo tutte le donne e le portiamo via da questo posto maleodorante. L'operazione è quasi arrivata al termine quando improvvisamente tutta la squadra di Smith abbandona di corsa il locale.
− Che cosa è successo?− domando a Ferri.
− Sta arrivando la stampa ed è bene che la task force rimanga nell'ombra. Comunque l'Odis deve occuparsi della testimone che ci ha condotto fino a qui.
− Come mai quella ragazza non è sotto la tua protezione?− gli chiedo mentre anche noi usciamo all'aperto.
− Lei è a conoscenza di dettagli che li riguardano e ho concesso a Smith il diritto di gestirla in autonomia.
− Con pessimi risultati.
Dominic mi guarda con un sopracciglio alzato e gli chiarisco il concetto:
− A un certo punto Smith ha mandato uno dei suoi a mettere in sicurezza la testimone.
− Sono sicuro che qualsiasi cosa sia successa, l'avranno risolto senza problemi. Sono uomini ben addestrati.
− Se lo dici tu... ma tienili lontani dalla mia clinica.
− Maggiore Seri, sai che non lo posso fare. Queste ragazze sono indispensabili per la mia indagine− mi dice, indicando le lettighe in procinto d'essere caricate sulle ambulanze.
− Queste donne ora sono sotto la mia protezione e non permetterò a nessuno di turbare il loro processo di guarigione.
− Allora inizia a proteggerle da quelli− mi dice Ferri, indicando un punto alla mia destra.
Un'orda di giornalisti sta superando il cordone di sbarramento messo in piedi dalla polizia, brandendo i loro microfoni e scattando migliaia di fotografie.
Allargo le braccia e mi dirigo verso quegli avvoltoi, cercando di fermarli.
− Ehi− esclamo, afferrandone uno per un braccio.
− Questa zona è off-limits, non potete oltrepassare le transenne− lo informo, strattonandolo indietro.
Cerco di attirare l'attenzione dei miei sottoposti, ma sono tutti intenti ad aiutare i paramedici a caricare le barelle e mi volto verso i reporter, conscia che per tenerli lontano dalle ragazze, dovrò concedere qualche parola.
− Sono ancora vive?− mi domanda uno di loro, sbattendomi il microfono in faccia.
− Come le avete trovate?− mi chiede un altro.
− Dove le state portando?− gli fa eco un collega.
In breve tempo sono circondata e ho decine di microfoni a pochi centimetri dalla bocca.
− Vorrei fosse chiaro che...− dico, cercando di avanzare verso le transenne sistemate della polizia.
− Se scriverete o direte una sola parola prima di domani in tarda mattinata, non solo vi troverete tutti i parenti delle ragazze sequestrate in redazione, ma farò strappare in mille pezzi le vostre licenze − mi fermo un momento per guardarli uno per uno.
Anche se non sembrano particolarmente impensieriti dalla mia minaccia, proseguo con lo stesso tono:
− Le donne sono tutte vive, ma dobbiamo essere noi a informare i parenti e non voi giornalisti.
Per ogni passo che faccio per spingerli lontano dalla zona interdetta, loro me ne fanno fare due indietro, per riuscire a guadagnare una posizione migliore rispetto ai colleghi.
− Sì, certamente mi sembra giusto− commenta uno dei reporter.
− Ma lei ci dica come siete arrivati a questo edificio e se la vicinanza al Moy è solo una coincidenza.
− Mi dispiace ma non sono autorizzata a rilasciare questi dettagli− gli rispondo, cercando di attirare l'attenzione dei poliziotti.
− Come mai la Polizia, l'Interpol e l'Esercito stanno collaborando a questo caso?
Distolgo lo sguardo dai tre agenti che continuano ad assistere alla scena senza muovere un dito, per studiare la giornalista che mi ha posto la domanda.
Mi domando come faccia a sapere che è coinvolta anche l'Interpol? Gli agenti di quel distretto non vanno di certo in giro con scritto sulla fronte per chi lavorano.
− L'indagine è molto ampia e sta interessando diversi dicasteri anche in ambito europeo− rispondo in modo evasivo, sperando di riuscire a non destare troppo interesse su quel punto.
Mi volto giusto in tempo per incrociare lo sguardo con uno dei miei sergenti e gli faccio cenno di raggiungermi.
− Quante sono le ragazze rapite?
− Le avete già identificate?
− Come sicuramente avrete visto, abbiamo tratto in salvo cinque ragazze.
Sorvolo sull'altro quesito, ma naturalmente questo non sfugge ai giornalisti.
− Sapete già chi sono?
Finalmente i miei ragazzi arrivano e con il loro aiuto riesco a spingere quella piccola folla oltre le transenne.
− Se ci darete modo di fare il nostro lavoro prima di divulgare la notizia, le identificheremo e avviseremo i parenti− sostengo al limite di sopportazione.
Sto per andarmene, quando una voce più alta delle altre mi fa una domanda che non può essere ignorata:
− Quindi adesso le porterete in un ospedale militare?
− Dove le porteremo non ha alcuna importanza, quelle ragazze adesso hanno bisogno di tranquillità e rispetto.
− Ma la sua presenza in questo posto lascia intendere che è stata scelta la clinica che dirige lei, giusto?
− La clinica militare è un ambiente molto sicuro, dove quelle donne potranno riprendersi da un'esperienza che non auguro a nessuno.
− Quindi pensate che siano ancora in pericolo?
− Quello che pensiamo è che abbiamo bisogno della collaborazione di voi esponenti della stampa, della polizia e di tutto il personale medico a disposizione.
Lascio i miei ragazzi a presidiare il cordone di sbarramento e vado direttamente dal gruppetto di poliziotti che si è goduto lo spettacolo senza intervenire.
− Dov'è il vostro capo...− chiedo al più alto in grado.
Forse è il mio tono perentorio o forse è l'umore spazientito dall'atteggiamento dei giornalisti che ancora trapela sul mio volto, perché i tre uomini scattano sull'attenti e m'indirizzano verso alcune persone.
Mi avvicino al vice questore Mariani con la stessa gioia che provo quando devo andare dal dentista.
− Avrei bisogno di parlarle per un momento− gli dico appena si volta, allertato dai suoi agenti.
− Maggiore Seri, che piacere vederla.
− Dottor Mariani, mi sa dire come mai i giornalisti sanno che l'Interpol è coinvolta in questa indagine?
− Non saprei− sostiene, incrociando le dita per poi appoggiare le mani sul ventre prominente.
− Forse il reporter ha azzardato un'ipotesi e lei è caduta nella sua trappola, ammettendo il coinvolgimento.
− È improbabile che siano giunti a quella conclusione senza che nessuno li abbia imbeccati.
− Sta forse insinuando che la notizia sia trapelata dal mio dipartimento?
− Non dal suo dipartimento, Mariani, ma dal suo ufficio− lo accuso apertamente.
Con tipi come lui le insinuazioni non servono a nulla.
− Maggiore, questa è una calunnia bella e buona e, se fossi in lei, starei molto attento a quello che esce dalla mia bocca in presenza di testimoni.
− Quanti e quali dei suoi uomini sapevano che la Morris è stata reclutata dall'Interpol e che è impegnata attivamente nella task force del maggiore Ferri?
Gli agenti che lo attorniano mi guardano con incredulità mentre Mariani inizia a esternare tutta la sua rabbia.
− La Morris è un pessimo elemento, se pensa ci sia stata una fuga di notizie, è probabile che sia stata proprio lei a parlare.
− A che pro rivelare alla stampa cose che le si potrebbero ritorcere contro?
− Non ne ho idea, forse voleva pavoneggiarsi e mostrare al mondo intero il suo tesserino nuovo di zecca.
Lo osservo senza commentare e lui rendendosi conto d'aver esternato tutta la sua invidia per il successo della sua sottoposta, si affretta ad aggiungere:
− Comunque è meglio che lo chieda a lei.
− Non mancherò, ma nel frattempo faccia in modo che dal suo dipartimento non escano più informazioni importanti se non vuole ricevere un richiamo formale dalle alte sfere.
− Stia serena, Maggiore, io non ho nulla da temere dai miei superiori.
La spavalderia e la prontezza della sua risposta mi lasciano stupefatta: è sicuro d'avere le spalle coperte, sa che non lo possono toccare e questo lo rende un elemento pericoloso.
− Buon per lei, Mariani.
Mi allontano senza salutare o aspettare che lui lo faccia e vado alla ricerca di Ferri.
− Quell'uomo non mi piace− affermo dopo avergli raccontato tutto quello che è successo, sia con i reporter sia con il poliziotto.
− Lo stiamo tenendo sotto controllo e finora non è emerso molto. Sicuramente non ha raggiunto la posizione di comando per meriti, ma non siamo ancora riusciti a capire chi stia tirando i suoi fili.
− Avvisa la Morris che presto la sua appartenenza all'Interpol sarà resa pubblica e cercate di tenere i vostri intrighi lontani dalla mia clinica.
− Quando hai accettato di supportare la mia task force con il tuo reparto diagnostico e psichiatrico eri consapevole che saresti finita nell'occhio del ciclone.
− Sai, Dominic, non ricordo d'aver mai accettato tutto questo− gli dico, sorridendogli freddamente.
− Ricordo solo che un giorno hai telefonato e mi hai avvisato che avresti inviato dei campioni di DNA su cui fare alcuni controlli e poi mi sono ritrovata tra le mani una ragazza con la mente stravolta dalla droga.
− Ti stai lamentando, Seri?
− No, Ferri, sto solo mettendo in chiaro un paio di punti.
− Vuoi che le ragazze siano portate in un'altra clinica?
− No.
− Allora non farmi perdere altro tempo e vai a fare il tuo lavoro.
− Sarò felice di farlo se tu farai il tuo.
Ci fissiamo per alcuni secondi e devo dire che se non fossi certa d'essere nel giusto i suoi occhi scuri e minacciosi potrebbero farmi vacillare, ma dopo i tanti anni sulle pedane e gli innumerevoli assalti, ho imparato che, quando si affronta un avversario temibile, non bisogna mai mostrare il fianco o abbassare la guardia.
− Affare fatto, Maggiore, porta quelle ragazze al sicuro ed io vedrò di fare in modo di capire chi le ha rapite e soggiogate.
Un piccolo cenno affermativo è tutto quello che gli concedo prima di lasciarlo alle sue tante incombenze.
La sua presunzione mi è indigesta come un piatto di sardine sott'olio accompagnate da un'abbondante porzione di crauti, ma da quando, anni fa, ha dato a mio cugino la possibilità d'entrare nella sua squadra d'élite, diversamente dagli altri reparti che lo avevano rifiutato per il suo orientamento sessuale, il mio rispetto per lui è cresciuto esponenzialmente. Non che gli abbia fatto uno sconto sulle prove da sostenere, anzi, l'ha trattato duramente al pari di tutti gli altri, ma non averlo discriminato prima ancora che i vertici militari dessero disposizioni in merito, mi ha fatto capire con che tipo di uomo avevo a che fare.
Cara Valli
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