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Autore: Alessandro Maga
Titolo: Il viaggio delle spirali di Archimede
Genere Romanzo Storico Scientifico
Lettori 2758 65 20
Il viaggio delle spirali di Archimede
Siracusa, fine autunno del 212 a.C.

“Non voglio morire” disse Paride rivolto alla razza che stava toccando amorevolmente sul dorso. “Ho solo diciannove anni”.
Il piccolo ragazzo col suo codino di capelli scuri era seduto sul bordo della vasca delta dei laboratori di Archimede, che inizialmente destinata come le altre agli esperimenti sui corpi galleggianti, era stata poi trasformata in Acquario. Il docile pesce sembrava gradire quella dimora e gradiva certamente le carezze del giovane visto che le veniva a cercare.
La vasca, lunga venti passi e larga cinque, ospitava pesci e molluschi di molte specie diverse, compresi cavallucci marini, polpi, meduse e alcune razze, tutti provenienti dal Mar Rosso. Il giovane siciliano amava seguire con lo sguardo le creature marine che avanzavano sospese nell'acqua e adorava i colori straordinari delle loro livree squamate. I pesci pinneggiavano placidamente, in gruppi o isolati, sopra fondali rocciosi carichi di anemoni lucenti, coralli preziosi e conchiglie rare: base variopinta e multiforme di quel piccolo mondo incantato.
Il primo Acquario era stato concepito e realizzato in Egitto, dai biologi del Museo di Alessandria che studiavano molti animali in cattività, poi il progetto era stato replicato a Siracusa e in altre città greche. Sempre da Alessandria provenivano i pesci, gli studi su come allevarli e i vetri posti come finestrelle sulle pareti della vasca. Ognuno di quegli esseri esotici e ammalianti emanava un'energia particolare e si diceva che Archimede avesse avuto le sue migliori intuizioni osservando quella vasca. L'insieme e i suoi particolari trasmettevano un senso di pace infinito, e proiettavano l'occhio in una dimensione altra, dove tutto rispondeva a leggi differenti: le leggi dell'acqua.
Siracusa era la più bella delle colonie greche, capitale di un regno libero e fiorente affacciato al centro del Mediterraneo, ma le cose erano completamente cambiate tre anni prima, con la morte del vecchio tiranno, Gerone II. A causa del vuoto politico che questi aveva lasciato, Siracusa era allo sbando ed era diventata un ghiotto boccone tra Roma e Cartagine, per la seconda volta in guerra tra loro per il predominio sul Mediterraneo occidentale. Dopo diverse congiure e tradimenti, i successori di Gerone II, allettati da grandi promesse da parte di Cartagine, avevano rotto la lunga alleanza con Roma e si erano schierati dalla parte dei Punici. I Latini li avevano quindi considerati dei traditori e avevano deciso di conquistare le leggendarie ricchezze e i porti di Siracusa, cingendo la città in un terribile assedio.
Il console romano Marcello, dopo il fallimento di mesi di estenuanti attacchi via mare e via terra, aveva deciso di prendere la megalopoli per fame e le aveva tagliato tutte le vie di rifornimento. Siracusa resisteva eroicamente da più due anni, ma gli attacchi e le privazioni avevano strangolato la città portandola sull'orlo della resa.
Grazie al genio di Archimede e alla dedizione di Paride, anche i bei pesci colorati continuavano a resistere all'assedio. Non era più possibile accudirli come un tempo e l'Acquario aveva perso parte del suo splendore, tuttavia la ricchezza di forme e colori in esso rimasta riusciva a sorprendere ancora perfino chi la conosceva bene come Paride. Neanche gli occhi scuri del ragazzo a dire il vero erano belli come un tempo, ma di fronte a quelle meraviglie il nero delle pupille diventava di nuovo brillante.
Le altre tre vasche del laboratorio erano state trasformate in allevamenti di pesce per le mense, ma erano vuote da settimane.
C'era il sole quel mattino e la luce proveniente dai lucernari illuminava l'intenso verde acqua del dorso della razza, percorso per intero da striature grigio tortora sottilmente bordate di nero. I colori dell'Acquario, e i loro accostamenti, da sempre avevano evocato in Paride forti suggestioni: delle sensazioni particolari e indecifrabili che lo avevano accompagnato nel corso degli anni tornando ogni volta immutate e misteriose.
Quella di Paride era stata un'infanzia serena, trascorsa in un'epoca di pace durante la quale lui aveva coltivato dei sogni bellissimi. Anche grazie alle bellezze dell'Acquario il piccolo siciliano aveva fantasticato di un futuro luminoso, di una vita piena di colore, ma poi erano arrivati la pubertà e l'assedio che insieme e contrapposti avevano sconvolto la sua esistenza. L'assedio offuscava le tinte di quei sogni - così come spegneva i colori nelle vie di Siracusa - mentre l'adolescenza le riaccendeva e tramutava quei desideri in pulsioni irrefrenabili.
Anche in quel momento Paride mentre seguiva i pesci con lo sguardo sognava la fine della fame e della paura. Da mesi e mesi parteggiava per una resa pacifica ai Romani e sperava nell'arrivo di aiuti in città per cominciare una nuova vita. Ogni giorno domandava a suo padre notizie, ed era sempre più scettico sulla possibilità di allontanarsi dalla città prima della caduta inevitabile. Si preparava al peggio, nella speranza che fra i Romani avrebbe trovato un signore buono e giusto come lo era Archimede. L'importante era non morire.
“Chi si prenderà cura di voi quando i Romani prenderanno la città?” si chiese il ragazzo rivolto ancora ai pesci. Poi li rassicurò: “Non preoccupatevi, l'Acquario è talmente bello che diverrà sicuramente bottino di guerra e sarà trasferito a Roma... Mi chiedo soltanto come faranno a portarlo via!?”
Fu in quel momento che accadde qualcosa di davvero strabiliante: la vecchia murena, che s'affacciava sempre più di rado dalla fenditura nelle rocce in cui aveva passato la sua esistenza, ne uscì quasi per intero, proiettandosi in avanti nella direzione di Paride. Muovendosi sinuosamente nella sua livrea blu cobalto puntinata di macchie dorate, la murena lo fissava con gli occhi severi e la bocca aperta, e in quel mentre molti pesci avevano preso a girare nei pressi della sua tana, costituendo in tal modo una sorta di cornice variopinta e guizzante intorno all'animale che aveva anch'essa dello straordinario.
Paride rimase così sbalordito da quella scena che arrivò addirittura a pensare che la murena lo stesse avvertendo del pericolo imminente al quale erano tutti esposti e che i pesci intorno a essa sottolineassero la gravità della situazione.
“Volete che vi liberi? Ma dove volete andare!? E poi tu sei troppo vecchia” disse alla murena. “Potrei aprire le condotte e farvi arrivare in mare attraverso le grate di scarico, e dopo? L'acqua è fredda per voi, lo sapete bene.”
Non aveva fatto in tempo a finire la frase che già correva verso i corridoi con un'idea coraggiosa in testa. Una voce dentro di lui gli urlava: ‘Eureka! Eureka!' (‘Ho la soluzione! Ho la soluzione!').

Archimede, lo scienziato siracusano che così tanto aveva fatto per permettere alla città di resistere alla pesante offensiva condotta dalla Repubblica di Roma, era nel giardino antistante al palazzo che ospitava i laboratori, nella zona della città chiamata Ortigia.
Questa era una piccola isola fortificatissima, unita al resto della megalopoli da un ponte lungo cento passi. Il ponte divideva il Porto Piccolo a nord, dal Porto Grande a sud, e congiungeva l'isola d'Ortigia a un'altra cittadella fortificata interna a Siracusa, l'Acradina. L'Ortigia e l'Acradina, cuore della megalopoli e accesso ai porti, erano le uniche due zone della città che resistevano ancora all'assedio.
Lo scienziato, quasi ottantenne, sedeva solitario su una panchina di marmo, in un giardino che era l'immagine stessa della città: solo gli arbusti più grandi conservavano parte del verde - sebbene anch'essi mostrassero sofferenza - mentre le piante piccole erano ridotte a scheletri e le erbacce facevano gran mostra di sé. Fino a due anni prima quel giardino era stato un luogo sublime e i giochi d'acqua della sua fontana circolare erano conosciuti in tutto il Mediterraneo. Ora l'acqua era razionata e la fontana era completamente secca.
Il genio era assorto nei suoi pensieri. Col volto rivolto a terra mostrava la chioma bianca, ancora folta e ribelle, e teneva dei documenti accanto a sé sulla panchina. Non leggeva, ma pensava al destino fatale della sua Siracusa.
Quella che da molti era considerata la più bella città del Mediterraneo stava per finire definitivamente in mani romane, e i suoi figli erano tutti in grave pericolo.
Il Regno di Siracusa era stato fondato nel 734 a.C. dai Greci di Corinto e comprendeva la parte sudorientale della Sicilia. I Greci erano giunti via mare e avevano scacciato e sottomesso le popolazioni locali dei Siculi e dei Sicani. Successivamente avevano trasformato la colonia in una città indipendente dalla madre patria e avevano dovuto difendere la propria libertà respingendo più volte gli assedi di Atene e di Cartagine. Ma quell'epoca di indipendenza e splendore del piccolo regno nel cuore del Mediterraneo improvvisamente volgeva al tramonto.
La Siracusa che aveva conosciuto Archimede fino a pochi anni prima era stata qualcosa di completamente diverso: una città lontana dagli orrori delle guerre, una megalopoli ricca e moderna, governata da un sovrano illuminato, Gerone II. Tutti rimpiangevano il grande re e Archimede rimpiangeva anche l'amico, fidato e allegro.
Gerone II era salito al trono quasi sessant'anni prima, nel 270 a.C., quando grazie a una serie di successi come condottiero di truppe mercenarie e al matrimonio con una siracusana illustre, era stato accolto dal popolo come un liberatore che avrebbe posto fine ai disordini, alla corruzione e agli interessi di parte. Gerone II aveva rinunciato agli onori regali e veniva chiamato tiranno, come gli altri re venuti dal popolo. Il suo potere si era basato sull'accordo col senato e sulla creazione di un forte esercito di Siracusani.
All'inizio del regno di Gerone II, nel 261 a.C., era scoppiata la Prima Guerra Punica tra Roma e Cartagine per la supremazia nel Mediterraneo occidentale. Essendo Siracusa nel mezzo del conflitto, in maniera illuminata il tiranno aveva guidato la città verso un'alleanza coi Romani, che dopo ben ventitré anni di guerra avevano prevalso sui Cartaginesi, scacciandoli dal resto della Sicilia.
Nei decenni del suo regno, grazie all'alleanza con l'emergente potenza latina e a una politica equilibrata e lungimirante, Gerone II aveva garantito pace e prosperità alla città, fino a quando era morto novantenne, tre anni prima, nel 215 a.C..
La perdita era avvenuta tra lo sgomento generale, perché non vi poteva essere frangente storico più delicato per Siracusa e se una cosa poteva essere rimproverata al grande tiranno, quella era di non aver favorito l'ascesa di degni eredi. Infatti fra Roma e Cartagine sei anni prima era scoppiata di nuovo la guerra e Annibale aveva varcato le Alpi con i suoi elefanti, intenzionato ad annientare l'emergente potenza latina e a ristabilire il primato cartaginese. Dunque il regno di Siracusa si era trovato senza nessuno al timone nel pieno di una tempesta.
La mancanza di uomini in grado di raccogliere l'eredità politica di Gerone era stata evidente a tutti a Siracusa, ma la gravità degli eventi che erano seguiti aveva superato di gran lunga la preoccupazione che l'aveva preceduta.
I Cartaginesi, che puntavano a recuperare il controllo della Sicilia, avevano tentato in ogni modo di portare i successori di Gerone dalla loro parte, promettendogli mari e monti. A Siracusa il potere era passato di mano in mano a seguito di assassinii, congiure e tradimenti, poi aveva definitivamente prevalso il partito filopunico dei fratelli Ippocrate ed Epicide, i quali avevano guidato la città allo scontro aperto con Roma, al fianco di Cartagine, scommettendo sulla vittoria di Annibale in Italia e sulle promesse dei punici.
Il senato di Roma aveva quindi deciso di liberare con la forza Siracusa dai traditori della loro lunga alleanza e aveva affidato il difficile compito al console Marco Claudio Marcello e al suo legato Appio Claudio Pulcro. Dunque, nonostante il suolo italiano fosse minacciato a sud dall'esercito di Annibale e a nord dai temibili Galli, una parte ingentissima delle forze navali e terrestri di Roma era stata dispiegata per l'impresa in Sicilia.
Intanto il grande generale cartaginese conquistava importanti città in Sud Italia, cercando gli alleati e l'occasione giusta per muovere un attacco diretto alla città sul Tevere.
L'assalto dell'esercito romano a Siracusa era stato subito poderosissimo: Marcello aveva tentato di prendere la città già al primo assalto, ma si era trovato ad affrontare la resistenza di una megalopoli immensa, dalle risorse enormi, una parte non trascurabile delle quali risiedeva nella mente di un unico grandissimo uomo: Archimede. Lo scienziato ricordava ogni attacco che i Romani avevano tentato dal mare e da terra.
La megalopoli era circondata da possenti mura perimetrali, costruite su rupi scoscese, che la proteggevano sia verso le acque che verso i terreni limitrofi. Le fortificazioni rendevano difficoltoso l'assalto, ma una difesa ancora più efficace si doveva a Gerone II, che durante il suo pacifico regno aveva seguito un vecchio precetto noto ora nella sua formulazione latina: ‘si vis pacem, para bellum' (tradotto: ‘se vuoi la pace, prepara la guerra'). Affascinato e convinto dal genio di Archimede, il tiranno gli aveva commissionato la costruzione di potenti armi offensive e difensive, e Siracusa si era così dotata di una serie di strumenti di guerra rivoluzionari per l'epoca. La secolare tradizione della città in questo settore, era stata portata a un livello superiore dal grande ingegnere, grazie alla matematica, e così le navi romane durante gli attacchi erano bersagliate già a grande distanza da frecce incendiarie precisissime, e man mano che si avvicinavano alla costa da proiettili di pietra, sempre più pesanti. Le quinquiremi latine che riuscivano a giungere sotto le mura, erano attese da potenti gru che sfondavano i loro scafi lasciando cadere dall'alto enormi piombi, o venivano affondate da una mano ferrea: una sorta di gigantesco artiglio in grado di sollevarle e ribaltarle.
I Romani dall'altra parte legavano le loro quinqueremi a coppie, per trasportare le sambuche: lunghe passerelle con cui i soldati intendevano raggiungere la sommità delle mura assediate, ma così facendo le loro navi si esponevano come facili bersagli alle armi di Archimede.
Le legioni di fanteria di Appio Claudio avevano subìto analoghi respingimenti durante gli attacchi da terra.
Per mesi le armi di Archimede avevano vanificato gli assalti di Marcello, proteggendo la città dall'alba al tramonto, col sole o la pioggia, e a volte anche di notte. Dunque il console romano aveva desistito dall'attaccare e aveva deciso di provare a prendere la città per fame, tagliandole le vie di rifornimento, ma anche questo tentativo si era rivelato un'impresa mastodontica a causa dell'estensione della megalopoli e del sostegno che essa riceveva da Cartagine e da molte cittadelle in Sicilia.
Il console era stato più volte sul punto di desistere e affrontare un umiliante ritorno a Roma, ma alla fine, dopo ben diciotto mesi d'assedio, la fame e le malattie in una popolazione ingentissima avevano fatto crescere il consenso di chi auspicava una resa negoziata con Roma e un ritorno alla vecchia alleanza coi Latini voluta da Gerone II.
All'inizio di quell'anno, il 212 a.C., grazie al tradimento di qualcuno i Romani nottetempo erano riusciti a entrare a Siracusa da terra, approfittando di una festa in onore di Artemide, protettrice della città. Per le strade e le vie il vino era circolato in abbondanza e un gruppo di legionari scelti era riuscito a sorprendere le sentinelle ubriache. Il commando notturno era entrato usando lunghe scale, in un punto dove le fortificazioni non erano altissime, poi aveva fatto entrare il resto dell'esercito attraverso una piccola porta e insieme avevano occupato gran parte della città.
Le forze della fazione filopunica erano riuscite comunque a difendersi e a mantenere il controllo delle cittadelle fortificate dell'Ortigia e dell'Acradina, dove erano custoditi i tesori del regno e l'accesso ai porti.
Nell'estate Siracusa e Cartagine avevano provato una controffensiva congiunta contro i Romani, ma avevano fallito e una pestilenza aveva annientato l'esercito punico accampato fuori dalla città. Siracusa era stata dunque abbandonata al suo destino dai due fratelli, Ippocrate ed Epicide: il primo era morto combattendo lontano e l'altro era scappato ad Agrigento, affidando il comando di Siracusa ai capi delle truppe mercenarie.
Ormai giunti alla fine dell'autunno, in un clima di totale caos, diffidenza e sospetto reciproco, la città si preparava alla capitolazione.
Archimede era provato da due anni d'assedio, in gran parte passati sulle mura a guidare le difese di Siracusa. Tutto ormai era perduto ed egli aveva assunto un atteggiamento distaccato e fatalista. Parlava pochissimo e preferiva isolarsi in pensieri matematici.
L'ultima azione concreta lo scienziato l'aveva compiuta alcune settimane prima quando era riuscito a far uscire da Siracusa due plichi, il primo dei quali, destinato ai Cartaginesi, conteneva dei progetti per la riconquista del regno e un resoconto sulla situazione in città che suonava come una sorta di testamento. Il secondo plico invece conteneva gli ultimi studi che lo scienziato non era riuscito a inviare ai suoi colleghi in Egitto. I documenti avevano preso la via del mare, ma la nave cartaginese su cui avevano viaggiato era stata intercettata e affondata dai Romani a largo di Capo Pachino, l'estremo sud della Sicilia. L'arrivo a Siracusa della notizia che i preziosi papiri giacevano sul fondo del Mediterraneo aveva prodotto nello scienziato una reazione rabbiosa, come raramente si era vista in lui, perché egli temeva che quelle conoscenze potessero andare perse per sempre e tale idea lo faceva letteralmente impazzire.
Un altro invio non era possibile perché gli ufficiali mercenari al comando di Siracusa avevano ormai imposto un controllo serratissimo su ogni movimento. Avevano diviso l'Ortigia e l'Acradina in vari settori e qualsiasi azione doveva essere vagliata e autorizzata da loro. Archimede diffidava di quegli ufficiali che evidentemente stavano solo aspettando le condizioni a loro più favorevoli per consegnare Siracusa a Marcello, senza riguardo per altro se non per i propri interessi e quelli delle proprie truppe. Archimede aveva discusso in modo aspro con alcuni di loro sulle sorti della città ed era stato isolato in quanto personaggio scomodo nelle trattative con Roma. Il matematico inoltre si era molto offeso quando gli ufficiali non avevano mostrato alcun rispetto per le sue preoccupazioni riguardo ai laboratori. I lavori scientifici, le macchine, e tutto il resto rischiavano di andare perduti, ma i mercenari avevano liquidato Archimede rispondendo che prima di tutto veniva la vita delle persone.
Nel giardino mezzo secco antistante i laboratori, il genio sulla panchina stava pensando proprio ai teoremi che non era riuscito a inviare, quando udì la corsa di qualcuno sulla ghiaia. Alzò la testa e vide il piccolo Paride che correva verso di lui. Lo scienziato era sempre stato ben disposto nei confronti di quel giovane servo, che gli aveva strappato sorrisi anche durante i momenti più duri dell'assedio. Quella corsa affannosa lo incuriosì non poco.
“Maestro buongiorno, ho un'idea!” esclamò il ragazzo col respiro lungo. “Esiste la possibilità di inviare nuovamente i documenti che sono stati affondati dai Romani.”
“Come Paride?” chiese Archimede illuminandosi in volto.
“Le vecchie condotte dei vasconi del laboratorio: se noi le liberassimo dalle viti idrauliche, esse sono abbastanza grandi da permettermi di giungere in mare. Con l'aiuto della notte conto di arrivare al promontorio del Plemmirio a nuoto... Metteremo i papiri in dei contenitori ermetici e li porterò ad Agrigento. Mi lasci tentare la scongiuro.”
Archimede aveva preso a toccarsi la lunga barba e disse: “Credo che il passaggio attraverso la condotta sia troppo piccolo anche per te, ma potrei benissimo sbagliarmi... quindi direi di andare a verificare.”
Si alzò immediatamente senza badare al braccio che Paride gli stava porgendo per aiutarlo e s'incamminò insieme al giovane verso i laboratori. Nonostante fosse vicino agli ottanta il genio aveva ancora una postura eretta e un fisico energico.
Prima d'entrare nel palazzo, passando vicino a una statua del dio Ermes Archimede senza dire nulla indicò a Paride un fiore nato spontaneamente a fianco al basamento in marmo della scultura: una pianta decisamente coriacea, ma con un fiore delicatissimo, bianco come il vestito di una vergine.
Paride ancora non dimostrava pienamente i suoi diciannove anni e quello che colpiva parecchio di lui era l'aspetto androgino del volto e in parte del fisico: i suoi lineamenti armoniosi come quelli di una donna, componevano insieme un viso che si sarebbe detto quello di un ragazzo e anche il fisico, minuto e sinuoso, partecipava in qualche misura di quell'ambiguità. Insomma, il dubbio che veniva sul suo sesso era più che legittimo anche se con lo sviluppo la componente maschile sembrava prevalere e la voce era diventata quella di un ragazzo. Lui odiava il suo aspetto incerto e legava i suoi capelli neri dietro la nuca con un codino per sembrare più maschio.
Salendo le scale dei laboratori, Archimede lo guardava chiedendosi se quel corpicino potesse entrare davvero nella condotta.
Paride gli chiese il permesso per una domanda che lo scienziato accordò.
“Come sono stati portati i pesci dell'Acquario dall'Egitto?”
Archimede rispose: “Sono stati inviati in grossi contenitori di terracotta, protetti da casse di legno imbottite di paglia. I Romani sono ottimi ingegneri: smonteranno l'Acquario e lo porteranno via, se è questo che ti preoccupa... Ma non conoscono nulla di biologia: i pesci moriranno tutti!”
Il genio aveva intuito che alla base della domanda c'era il timore del ragazzo per la sorte dell'Acquario e condivideva quella preoccupazione.
Paride avrebbe preferito continuare a pensare al destino dei bei pesci colorati, ma una domanda più urgente lo pressava, una domanda alla quale neanche Archimede avrebbe potuto rispondere. Il ragazzo infatti si stava chiedendo dove avrebbe trovato il coraggio per tentare quella fuga pericolosa che lui stesso aveva ideato e in particolar modo come avrebbe superato la paura d'infilarsi in un cunicolo stretto e buio che scendeva nelle viscere del palazzo fino alle sue fondamenta. In compenso nuotare di notte in mare aperto non gli sembrava una cosa ardita e non lo preoccupava affatto perché grazie a un dono degli dei, lui nuotava come un pesce e quando era in acqua con la metà dello sforzo guizzava via al doppio della velocità dei suoi compagni. Invece l'idea d'infilarsi in un cunicolo angusto e oscuro era un qualcosa alla quale avrebbe preferito non pensare.
Di certo il giovane androgino non si sarebbe fatto fermare dall'acqua fredda, alla quale era abituato per via del suo lavoro alle vasche dei laboratori. Gli capitava spesso di bagnarsi, anche in pieno inverno, e fin quando si erano svolti gli esperimenti d'idrostatica, lui era stato sempre fra i primi a entrare in acqua per occuparsi delle attrezzature.
In quei giorni di fine autunno erano finalmente arrivati i primi venti freddi, che ripulivano l'aria e la rendevano tersa. Era stata un'estate molto calda e insalubre, e in città si continuava a morire per il protrarsi della micidiale pestilenza che durante l'estate aveva annientato l'esercito Cartaginese accampato fuori dalle mura, alla foce del fiume Anapo. C'erano stati molti insetti, mosche soprattutto, e quindi il vento che in quei giorni rinfrescava l'aria era stato accolto con sollievo da tutti.
Prima dell'assedio i ragazzi facevano bagni in mare da maggio a settembre e il più grande divertimento di Paride era sempre stato quello di tuffarsi dalle rupi più alte e di nuotare a largo, dove le mura di Siracusa apparivano piccolissime. Quell'estate però, a causa della guerra, nessuno aveva potuto fare bagni in mare, e sebbene quella non fosse una necessità primaria, lui ci pensava spesso. Erano mesi che vagheggiava di fuggire dall'orrore dell'assedio a nuoto, di tuffarsi dalle mura e scappare via per cercare rifugio nelle campagne dell'entroterra. Molti siracusani avevano lasciato la città per la campagna fino a quando ce n'era stata l'occasione, ma lui non aveva avuto il coraggio d'abbandonare i laboratori e la sua famiglia, che sebbene di stirpe sicula, non aveva parenti da qualche parte ai quali appoggiarsi.
Entrando nei laboratori Paride pensò ai suoi genitori e ai fratelli che aveva intenzione di lasciare. ‘Non ce la faccio più ad aspettare la rovina in questo modo' si disse fra sé come a giustificarsi, e pensò al modo migliore di comunicare al padre le proprie intenzioni.
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