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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: Samuele Severigo
Titolo: Il diavolo ha il revolver
Genere Thriller
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Il diavolo ha il revolver
Tornero, una città italiana popolata da duecentomila anime.
Alex Revi aveva il fiatone e gli doleva la gamba sinistra a causa della ferita riportata durante il conflitto a fuoco, stava continuando a correre in mezzo al bosco e non ne poteva più. Fabio Berti era sempre più distante, ma nonostante ciò l'ispettore non aveva la minima intenzione di cedere il passo.
Alex lo inseguiva senza sosta e con la Beretta tentava di sparargli, senza però riuscire a colpirlo, Berti di tutta risposta, voltandosi con il braccio penzolante e insanguinato, sparava a sua volta verso il poliziotto, che puntualmente schivava le pallottole.
Berti, ritrovatosi di fronte a una stradina, la imboccò e sparì dalla sua visuale. Alex, con la gamba che gli faceva male sempre di più, giunse all'entrata della stradina e si inoltrò verso un lungo sentiero di rovi.
Alzò gli occhi e lo vide: Berti era in fondo al percorso, di fronte a lui la strada era bloccata, una lunga murata di cemento gli sbarrava la strada. Gli occhi di Alex si illuminarono.
Revi si avvicinò sogghignando: «Dove credi di andare, la strada finisce qui, non hai via di uscita».
Erano uno di fronte all'altro, con quel muro lì a frenare la fuga di Berti.
Alex Revi e Fabio Berti si apprestarono ad alzare simultaneamente le proprie pistole. In perfetta sincronia le sollevarono, le dita strette sull'impugnatura con l'indice bel saldo sul grilletto, Beretta e revolver che miravano il nemico giurato. Dopo mesi trascorsi a inseguirsi come gatto e topo, ora erano lì uno di fronte all'altro per l'ultimo atto.

Un anno e mezzo prima.

Tornero, in una villetta a schiera abitavano i Revi, una famiglia composta da: Antonio, un uomo di cinquantacinque anni, che lavorava come impiegato negli uffici di una logistica, la moglie Isabella, di due anni più giovane e che insegnava alle scuole elementari, il figlio maggiore Alessandro, per tutti Alex, il minore Marco, e da Giovanni, un signore di ottantatré anni, padre di Antonio.
Erano le 14 di una domenica pomeriggio dei primi di maggio, il termometro segnava 30 gradi, per non essere ancora estate le temperature erano al di sopra della norma stagionale; approfittando della bella giornata soleggiata, i Revi avevano deciso di dirigersi al fiume Valo, il corso d'acqua che solcava la città.
Nonno, genitori e figli salirono all'interno dell'auto di Antonio e Isabella, un Opel Corsa rossa con il tettuccio e i cerchi in lega neri, e sfrecciarono rapidi tra le strade affollate della città. Tra i negozi e i locali vi era un continuo andirivieni: la gente, rimasta in centro, aveva deciso di trascorrere il fine settimana a fare acquisti nei centri commerciali, oppure pranzando tra i ristoranti che pullulavano tra le vie di Tornero.
Un quarto d'ora più tardi raggiunsero la spiaggia; il parcheggio adiacente al parco naturale era già stato preso d'assalto, tuttavia riuscirono con molta fortuna a infilarsi tra gli ultimi posti rimasti liberi.
«Tutti gli anni sempre la stessa storia, arriva la bella stagione e si fiondano tutti qua!» brontolò Giovanni, raddrizzandosi con la mano dei bizzarri occhialetti a mezzaluna, dietro cui spuntavano degli occhi color ambra, mentre con l'altra mano prese da sotto al sedile il bastone di legno che gli accompagnava l'andatura.
«Non cominciare anche oggi a lamentarti, papà, io e Isabella siamo sempre al lavoro, almeno la domenica vorremmo stare un po' tranquilli» sbottò suo figlio, guardandolo torvo.
«Quante storie, anch'io ho lavorato tutta la vita, ora tocca a voi» Sorrise, facendogli poi la linguaccia come farebbe un bambino giocherellone.
«Comunque non capisco perché hai avuto questa brillante idea di andare tutti insieme al fiume, papà!» mugugnò Marco.
«Non iniziare anche tu, non riusciamo mai a fare nulla insieme, almeno oggi che possiamo godiamoci un po' di sole».
I Revi scesero a riva e posizionarono delle stuoie sulla spiaggetta, in un punto che non era stato ancora occupato dalla massa che si era fiondata al fiume a prendere il sole.
«Non ti svesti, nonno?» gli domandò Marco, squadrandolo divertito; si trattava del più giovane tra i due fratelli, aveva ventitré anni e studiava lettere e filosofia presso l'università di Tornero.
«Ma neanche per sogno, fallo tu che sei giovane!» sbuffò il vecchio, picchiettando sui granelli con le dita rugose e grattandosi la testa, sulla quale vi era un evidente calvizie.
«Lo faccio subito» disse il nipote, con una risatina, restando solo con il costume, gli altri tre fecero altrettanto.
I due fratelli corsero spediti in direzione del fiume, immergendosi con l'acqua che li raggiunse fino al bacino, schizzandosi l'uno con l'altro come ragazzini, nella più totale spensieratezza. Antonio e Isabella invece optarono per prendere un po' di sole, approfittando del caldo di quella stupenda giornata.
«Sei contento di essere venuto qui?» chiese il figlio al padre.
«Per me è indifferente, se fossimo rimasti a casa sarebbe stato uguale» replicò l'altro, tirando fuori un pacchetto di sigarette da una tasca dei pantaloni.
«Ma non ti annoi a stare sempre chiuso in casa?» Antonio buttò un occhio sul pacchetto.
«Io non sto sempre chiuso in casa, esco tutti i giorni» grugnì Giovanni, prendendo una sigaretta e infilandosela tra le labbra. Lo sguardo del vecchio si posò su quello del figlio, intento a ricambiargli un'espressione seria.
«Uscire per andare al bar a trincare non conta... e non fumare, non ti fa bene!» Antonio si alzò di scatto verso il padre, con fare svelto tentò di strappargli la sigaretta dalla bocca, ma lui di tutta risposta lo anticipò frapponendo un braccio tra sé e il figlio.
«Quei due litigano anche oggi che è domenica, invece di rilassarsi» fece notare Marco, indicandoli.
«Già, sono sempre i soliti, comunque... come va tra te e Martina?» gli domandò Alex: il maggiore dei due fratelli aveva corti capelli corvini e gli occhi verde smeraldo.
«Alti e bassi, ultimamente è una noia mortale» asserì Marco, toccandosi nervosamente i capelli biondi.
«Povera, non trattarla male, dopotutto è una brava ragazza».
«Lo è, solo che vorrei una relazione più movimentata, a lei piace fare sempre le stesse cose, casa mia o casa sua, è un miracolo se mi chiede di uscire da altre parti».
«Le parlerò io, le consiglierò di ravvivare il vostro rapporto» scherzò Alex, facendo un occhiolino al fratello.
«Se lo fai ti uccido!» Marco gli lanciò addosso un getto d'acqua.
Verso le diciotto una buona parte della gente iniziò ad andarsene, i Revi invece rimasero sulla spiaggia a concedersi dell'altro relax.
Marco era disteso sulla stuoia, da poco crollato in un lieve torpore, mentre Isabella e Giovanni erano intenti a giocare a carte. Alex e Antonio declinando l'invito a unirsi agli altri due, scelsero di concedersi una camminata tra i sentieri del parco naturale.
«Sei agitato?» gli chiese Antonio.
«Abbastanza, mi sembra di rivivere il primo giorno, quando fui arruolato come agente».
«Però questa volta è diverso, da domani sarai promosso ispettore».
«A maggior ragione sono ancora di più emozionato».
«Stai sereno, rispetto ad allora sei più grande e maturo».
«A proposito di essere grande e maturo, dopo questa promozione ho intenzione di comprare casa, non sono più un ragazzino, tra poco compirò trent'anni».
«Molto bene, mi fa piacere che tu voglia essere indipendente, hai già in mente dove di preciso?».
«No, però penso che rimarrò qui a Tornero».

Il giorno seguente Alex si diresse in commissariato, dove lavorava come poliziotto, a prestare servizio durante il turno pomeridiano.
Oltre l'ingresso una calca ne gremiva l'accesso: erano i suoi colleghi riunitisi per celebrare l'avanzamento di grado di Alex. Non appena Alex scese dall'auto e si incamminò verso l'entrata, la folla non gli diede nemmeno il tempo di varcare la soglia che scoppiò in un fragoroso applauso, accompagnato da sonori fischi di giubilo.
«Da oggi devo chiamarti superiore?» lo salutò con ironia un ragazzo poco più basso di lui, magro, con ricci mori e una leggera barba incolta: era l'agente Luca Varni.
«Congratulazioni, ispettore!» si complimentò un uomo di mezz'età: si trattava di Angelo Moselli, il commissario capo.
Sara, un'agente poco più giovane di lui, con lunghi capelli mori e occhi azzurri, gli sorrise e lo abbracciò; Alex la fissò imbambolato: da anni ormai era segretamente innamorato di lei.
«Voi non dovreste lavorare? Cosa ci fate tutti qui!» scherzò Alex, distogliendo l'attenzione da Sara.
«Non succede tutti i giorni di essere promosso a ispettore» fece Francesco Viero, il vice sovrintendente; Luca, Sara e Francesco non erano solo colleghi per Alex, negli anni trascorsi in commissariato erano diventati veri e propri amici per lui.
«Successo qualcosa di importante, oggi?» domandò Alex, camminando a fianco di Moselli.
«Nulla di rilevante» spiegò il commissario. «Vieni nel mio ufficio, Alex, voglio scambiare quattro chiacchiere con te».
«Da oggi in poi molto sarà diverso, avrai più responsabilità, ragazzo mio» gli fece Moselli, sedendosi sulla poltrona dietro alla scrivania.
«Mi affiderai casi più importanti?» gli chiese Alex, pregustando i possibili nuovi incarichi che da lì a poco lo avrebbero aspettato.
«Certo, ma non sarà una passeggiata di salute come pensi tu» ribatté l'altro, incrociando il suo sguardo.
«Non l'ho pensato».
Un incessante bussare alla porta distolse i due dalla loro conversazione.
«Entra pure!» disse il commissario.
«Scusi il disturbo, dottore, ma ci è appena stata fatta la segnalazione di un'accesa lite tra due coniugi presso via Montessori 8, a chiamare è stata la vicina di casa, dice che è preoccupata dai recenti comportamenti del marito, ha paura che possa fare del male alla moglie» esordì una ragazza dai capelli rossi e ricci.
«Mandate Scolli e Molina sul posto» ordinò il commissario.
«Sarà fatto!» si congedò l'agente, uscendo dall'ufficio. Alex fissò il commissario con uno sguardo interrogativo.
«Perché hai affiancato il sovrintendente Scolli a Lorenzo Molina?» gli chiese Alex, incuriosito.
«Lui è agente da poco, ha bisogno di fare esperienza e Mirko è uno dei poliziotti migliori di questa città, gli sarà utile... per quanto riguarda prima, ricorda quello che ti ho detto: da ora in poi avrai più responsabilità, non sarà facile, sei pronto?».
«Prontissimo!».

Il sovrintendente Scolli, seguito dall'agente Molina, alla guida della volante, un'Alfa Romeo Giulietta, stavano percorrendo la strada principale che conduceva lungo uno dei corsi di Tornero, dal quale ci si addentrava per via Montessori.
Lorenzo aveva compiuto da qualche settimana venticinque anni, era un tipo taciturno e dal temperamento mansueto; faceva parte della polizia di Stato soltanto da sei mesi, tempo che era bastato ai suoi colleghi per intuire che in lui risiedessero determinazione e straordinario coraggio: doti fondamentali per poter divenire un ottimo poliziotto.
Con lo sguardo assorto oltre il finestrino dell'auto, l'agente scrutava i passanti uno a uno, mentre tamburellava con le dita sul cruscotto, sintomo di una certa dose di agitazione.
«Che hai?» gli chiese Scolli, accortosi del suo stato irrequieto.
«Nulla» rispose, scambiandogli un sorriso tirato.
«A me non sembra... anzi, ti vedo un po' teso» continuò Mirko, buttando di tanto in tanto l'occhio in direzione del collega.
«Solo un po' di paura».
«Di che ti preoccupi?» domandò l'altro, sorpreso.
«Stanotte mia madre è stata ricoverata all'ospedale» rivelò Lorenzo, con la voce rotta dall'emozione.
«Sul serio? Perché non ce l'hai detto?».
«Mi avreste detto di non venire al lavoro e di stare con lei».
«Appunto!» sbottò il sovrintendente, basito.
«È seguita dai medici, per ora la mia presenza servirebbe a poco o nulla, andrò a farle visita stasera terminato il turno».
«Che le è successo?».
«Ha avuto un'ischemia» Molina aveva gli occhi arrossati, pronti a inondarsi di lacrime, tuttavia fece il possibile che ciò non accadesse.
«Ed è grave?».
«Sembrerebbe di sì» confermò lui, voltando il volto verso il collega.
«Mi spiace» Mirko lo confortò dandogli una pacca sulla spalla.

Raggiunsero il luogo descritto dalla segnalazione: Lorenzo e Mirko scesero dalla volante e marciarono a passo rapido in direzione del numero civico 8 di via Montessori. Immersa tra grossi cipressi che la
oscuravano parzialmente, una piccola villetta, con un cancelletto di legno color verde smeraldo, occupava quello che, secondo la telefonata fatta poco tempo prima, sarebbe risultato essere il luogo della presunta discussione.
Scolli citofonò e una voce gracchiante, quasi spettrale, uscì fuori da esso: «Chi è?».
«Siamo la polizia, ci è stata segnalata una forte discussione qui in via Montessori 8» esordì il sovrintendente.
Dall'altra parte la voce esitò a replicare, poi un latrato rispose: «Vi state sbagliando, qui non è successo nulla».
«Ci faccia entrare così possiamo constatare con i nostri occhi» ordinò Scolli.
Altro silenzio dal citofono, poi alcuni istanti dopo il cancello si spalancò.
I poliziotti lo aprirono e imboccarono uno stretto sentiero in ciottoli che li condusse dinnanzi a una porta di legno rossa, Lorenzo sorpassò Mirko e si pose di fronte all'atrio, mise la mano su una maniglia color ocra e proseguì verso l'interno. Piccole ragnatele ricoprivano alcuni angoli della casa, mentre sui mobili vi era cosparsa della polvere.
«Buongiorno agenti... non so chi vi abbia chiamati, ma qui non è accaduto nulla di quanto vi è stato riferito, scusate per il disordine, ma ultimamente non ho avuto tempo per pulire la casa» farfugliò una donna con la capigliatura mora, notando lo sguardo di Molina perso tra ragnatele e polvere.
«Non c'è stata una lite?» chiese Scolli.
«Solo un piccolo alterco, nulla di grave» spiegò la donna, gesticolando nervosamente.
«Questo piccolo “alterco” è stato tra lei e suo marito, giusto?» continuò Mirko.
«Sì!» confermò, grattandosi la fronte con le unghie.
«Dove si trova ora lui?» domandò Molina.
«È uscito poco fa per andare a comprare le sigarette» rispose, evitando ogni sguardo.
L'attenzione di Lorenzo cadde su un piccolo particolare: sulla mano della signora vi erano alcune ferite e sul polso evidenti segni di stritolamento.
«Cosa si è fatta lì?» chiese l'agente, indicando la mano della donna.
«Ah... ehm... nulla, sono caduta!» biascicò lei con occhi vacui, i poliziotti capirono dallo sguardo che stava mentendo.
«Non dice il vero, signora, questi sono segni di violenze» ringhiò il sovrintendente.
«Okay, è stato mio marito, in un impeto di furia mi ha strattonata afferrandomi per il polso destro, e io ho risposto rifilandogli un ceffone» rivelò, muovendo le braccia animatamente.
«Suo marito la maltratta?» domandò Mirko; la tensione era ormai divenuta palpabile.
«No, litighiamo spesso ma questa è stata la prima volta che siamo venuti alle mani, ve lo giuro».
«Va bene, terremo monitorata la situazione, arrivederci signora» si congedò Scolli.
«Questa non ce la racconta giusta» sibilò Mirko sottovoce, quando furono soli.
«Anche secondo me, mentiva spudoratamente, vuole coprire il marito».
«Lo penso anch'io, e di sicuro questa non è stata neanche la prima volta, l'uomo l'ha già percossa in passato, ne sono certo... andiamo da questa vicina per saperne di più sulla faccenda».
I due poliziotti varcarono il cancelletto e si diressero al di là della stradina, proseguendo al numero civico 10 di via Montessori.
Valeria, la donna che aveva fatto la segnalazione, viveva in una villa con un vasto giardino sul retro, fornito di piscina.
Mirko citofonò, rivelando di essere la polizia; senza attendere altro tempo, la vicina uscì dall'abitazione e raggiunse le forze dell'ordine oltre il ciglio della strada. Uscì una ragazza giovane e avvenente, di età inferiore ai trenta, con un fisico snello e lunghi capelli castani con mèches bionde. Pareva lievemente scossa, dopo un iniziale silenzio però prese parola.
«Buongiorno, agenti, sono stata io a chiamare» sospirò, con lo sguardo perso nel vuoto.
«Buongiorno, signorina, ci racconti cos'è accaduto di preciso, noi siamo appena stati a casa dei due coniugi e abbiamo interrogato la moglie che ci è parsa poco sincera, di sicuro nasconde qualcosa» esordì Scolli.
«Ci dica cos'ha sentito» continuò Molina.
«Sarà da due o tre mesi che tra i due avvengono forti discussioni, tutto il vicinato li sente spesso urlare l'uno contro l'altra» spiegò.
«Al telefono lei ha riferito alla nostra collega che sospetta di possibili violenze dell'uomo sulla moglie, dico bene?» riprese Scolli.
«Esatto, ne sono convinta».
«Lo supponiamo anche noi, abbiamo constatato che sul polso della donna risultano esserci segni di percosse, e lei stessa ha ammesso che il marito l'ha strattonata» riportò Lorenzo.
«Allora è come pensavo... io le ho detto di denunciare il marito e di andarsene» La giovane, disperata, si buttò le mani sul volto.
«Potremmo fare poco o nulla al momento, non siamo in possesso di prove che accertino suddette violenze del marito, però terremo d'occhio la situazione e indagheremo, lei faccia altrettanto, e se dovessero esserci delle novità ci contatti nuovamente» concluse il sovrintendente, salutando la donna e incamminandosi verso la volante insieme al collega.

Alcune ore più tardi, alla centrale fece l'ingresso una donna sui sessant'anni; col viso tremendamente pallido, su di esso appariva un'espressione stralunata. Nonostante il caldo delle giornate soleggiate di maggio, era vestita con una lunga giacca marrone che le pendeva fino alle ginocchia. La signora si fece strada passando dal corridoio che conduceva agli uffici, passeggiando con andatura tremolante, quando si imbatté in Stefano Luzi, il sovrintendente capo, un uomo di quarant'anni, dalla stazza robusta.
«Buongiorno agente, sono venuta al commissariato per sporgere denuncia» esordì la donna, porgendo la mano al poliziotto, mentre con l'altra si aggiustò un paio di occhiali tondi, dietro cui si celavano degli occhietti grigi.
«Salve signora, venga pure con me» la accolse Luzi, stringendole la mano cordialmente, conducendola dentro al suo ufficio.
Il sovrintendente la fece accomodare su di una poltroncina bianca in ecopelle, con profonde lacerazioni sui braccioli. La donna si sedette, scrutando esagitata l'interno del luogo.
«Mi dica tutto, signora» la esortò Luzi, incrociando il suo sguardo.
«Mezz'ora fa la mia abitazione è stata svaligiata da alcuni ladri» iniziò lei, con un fremito nella voce, strofinandosi il volto solcato da piccole rughe.
«Stia tranquilla, vuole un bicchiere d'acqua, così magari si calma?» le chiese, con un sorriso rassicurante.
«Va bene, grazie mille!».
Luzi, che da quando era entrato nell'ufficio non si era ancora seduto alla sua scrivania, si spinse in direzione di un boccione dell'acqua: lì vi era una lunga fila di bicchieri di plastica dal color indaco, ne prese uno e lo mise sotto al bottiglione, dopodiché spinse un bottoncino e lo riempì fino all'orlo.
«Tenga» Le tese il bicchiere e lei lo afferrò, rispondendo con uno striminzito movimento del labbro superiore, in quello che parve essere un sorriso.
Luzi sprofondò su una sedia d'acciaio nera, oltre la scrivania, e prese a digitare sulla tastiera del computer.
«Mi fornisca le sue generalità».
«Mi chiamo Grazia Dirago e abito a Tornero in via Manzoni 55».
«Cosa hanno rubato i ladri?» chiese Luzi, continuando a scrivere al PC.
«Dei gioielli e ho contato che mi mancano mille euro» balbettò la donna, sorseggiando l'acqua.
«Quando è accaduto il furto?».
«Come le ho detto prima, è successo più o meno mezz'ora fa, ero uscita di casa per andare al supermercato a fare la spesa, quando sono tornata ho sentito alcune voci provenire da dentro casa, quindi mi sono nascosta in cortile e con il cuore che mi batteva a mille ho cercato di ascoltare, qualche minuto più tardi ho visto uscire un uomo dalla carnagione scura, probabilmente un nordafricano, con una profonda cicatrice sullo zigomo sinistro e stempiato, insieme a un complice basso e grasso con capelli ricci corvini; una volta abbandonata la mia proprietà ho notato che si sono incamminati verso corso Giovanni XXIII, quando sono entrata in casa ho fatto un controllo, scoprendo per l'appunto che mancavano dei gioielli e quella somma in contanti» rispose la signora Dirago.
«Ha detto un nordafricano insieme a un altro uomo non molto alto?» Il sovrintendente strabuzzò gli occhi, sconcertato.
«Esatto, perché?».
«Non è la prima volta che ci vengono descritte queste descrizioni» le spiegò.
«Dice sul serio?».
«Praticamente una settimana fa hanno rubato in una villa e un vicino di quella casa ha dichiarato di aver visto girare più volte attorno a quell'isolato due uomini, secondo lui erano proprio un nordafricano e un uomo basso abbastanza corpulento... comunque cercheremo di fare il possibile per rintracciarli» concluse Luzi.
Alcuni istanti più tardi, Stefano si avviò a passo celere in direzione dell'ufficio di Angelo Moselli.
«Scusi se la disturbo, commissario, ma abbiamo una denuncia per furto, una signora afferma di essere stata derubata da alcuni malviventi e ha dichiarato di aver visto in viso i responsabili: l'identikit sembrerebbe coincidere con quello dei due tizi visti dai vicini di quella famiglia a cui hanno svaligiato la casa» riportò.
«Davvero?» Moselli che era chino sopra ad alcune pratiche, a quelle parole aggrottò la fronte e spalancò gli occhi.
«Sì, la donna ha affermato di aver visto uscire da casa sua due uomini: il primo un nordafricano, con una cicatrice sul volto, mentre l'altro, di bassa statura e un po' grasso».
«Hai ragione, presentano gli stessi particolari dei delinquenti di pochi giorni fa» convenne Moselli.
«Potrebbero essere gli stessi ladri».
«Non ci sono dubbi, sono certamente loro».
Samuele Severigo
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