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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Antonella Alboni
Titolo: La lunga estate
Genere Avventura
Lettori 2696 18 9
La lunga estate
Un anno a Kinbaber.

Uno.

«Greg, oggi è la decima volta che mi chiami», sospirò Amandine, mandando gli occhi al cielo.
«Ho tolto la postilla dell'esilio, sei legalmente ammessa in California senza che io rimetta in discussione quella cifra che ti ha reso più ricca della Regina Elisabetta».
«E questo è ... per dirmi cosa?».
«Vieni a Napa e fermati qualche settimana, non credi abbia il diritto di vedere mia figlia?».
«Non la mettere sul tragico. Ti ho detto che lo farò, ma non ho ancora deciso la data».
«La mostra di Guy a New York è fra poco, potresti approfittarne».
«Prima abbiamo l'inaugurazione a Londra, devo essere presente. Comunque verrò a New York e poi a Napa. Sempre che tu non riesca a fare un salto e torni a San Francisco con la bimba».
«Voglio il pacchetto completo, con Dalai non mi diverto a litigare».
«Se vuoi un all inclusive, posso suggerirti un fantastico resort in Vietnam».
«Prenota, vi raggiungo lì».
«Ho da fare, potresti resistere due ore senza chiamarmi? Oppure ti metto in lista nera».
«Ti denuncio o chiedo a Fred di entrare nel tuo telefono».
«Inciderò un messaggio dedicato a te in segreteria».
«Amandine, non mi piace la piega che ha preso questa storia».
«Almeno tu puoi prendere il telefono e dirmelo, io non avevo nemmeno questa consolazione. Fattene una ragione».
«Da quando frequenti Justin, ti ha trasmesso le sue manie di grandezza».
«Greg, lavora, devi pagarmi l'assegno mensile».
«Non ho idee, penso sempre a te».
«Mi stanno scendendo fiumi di lacrime, aiuto! Mi farai annegare».
«Sei un diavolo con tre teste e nove vite, non ti bagneresti nemmeno gli abiti. Ciao Amandine, non ti stancare troppo».
Gregory Anderson era agitato. Avere a che fare con la signora Johnson inquieta non faceva ben sperare, nemmeno con due figli.
Appena l'avesse rivista, avrebbero parlato di dove voleva far nascere il bambino; lui ovviamente vedeva un'unica soluzione, San Francisco, e le voleva proporre di trasferirsi, un paio di mesi prima, a Napa. Non pretendeva stesse a Sausalito, per quanto fosse casa loro, ma Napa poteva essere il giusto compromesso.
Non l'aveva più rivista da Marrakech, lei se ne era andata con Dalai, la nanny e lo zio Hugh, non ci poteva credere.
La prima parola della loro bambina sarebbe stata zio e non papà. Non che fosse geloso di Hugh, lo era di sua moglie e sua figlia. Ma, zio Hugh proprio non lo digeriva. Di questo passo magari sarebbe saltato fuori anche lo zio Joaquin, a quel punto avrebbe raso al suolo Parigi.
Aveva fatto riappendere le foto di Amandine e ora, davanti a lui, c'era un ritratto enorme della nomade con Dalai in braccio. Se l'era cercata, sapeva che sarebbe stata un osso duro e aveva cantato vittoria troppo in fretta. Già si era visto ritornare alla loro meravigliosa vita normale, con sua moglie instancabile, piena di voglia di vivere, una delle donne più divertenti avesse mai conosciuto.
Con lei si camminava sempre sul filo del rasoio, e lui sembrava fatto per lei, non gliene lasciava passare una, sempre attento ad ogni sua espressione, pronto a rispondere in punta di fioretto all'eterna sfida senza la quale Amandine sembrava non poter vivere. Ora c'era calma piatta. Non gli dispiaceva la tranquillità, ma il mare senza un'onda lo annoiava. Inutile continuare a guardarlo, tanto sarebbe rimasto così, immobile. Ogni individuo sulla terra anela alla serenità, poi una volta seduto sulla spiaggia della Quiete si accorge che non riesce a riposare per il troppo silenzio. Per lo meno, lui non ne era capace.
Uscì dall'ufficio e non aveva niente da fare di interessante. Né la voglia. Bloccò l'ascensore al piano di Fred, forse gli avrebbe fatto compagnia per la cena.
Si ritrovarono seduti ad un ristorante coreano. Da quando Fred Richardson aveva scoperto altre culture, oltre agli umani del nord, non lo fermava più nessuno: era diventato uno sperimentatore seriale.
Si era anche fissato ad ordinare nella lingua originale del ristorante fra l'insofferenza dei camerieri che si prodigavano a spiegare, in inglese, i contenuti dei piatti. Con Fred si finiva sempre a parlare di lavoro, erano vent'anni che parlavano di lavoro. Ripensò alla sua vita: quand'era all'università era concentrato su cosa avrebbe fatto, poi, instancabilmente, aveva dato vita ai suoi progetti e ora ogni entusiasmo si era spento. Non era solo colpa della sua ex moglie che gli faceva vedere i sorci verdi, era stata una concatenazione di eventi, i mesi a Panama influivano, eccome. E aveva fatto una scelta suicida.
All'inizio, non aveva creduto del tutto alle parole di Amandine, così come lei aveva messo in dubbio il loro divorzio quando le era stato comunicato. Lasciata Marrakech, una volta in aereo, solo, aveva iniziato a tirare le somme e non aveva trovato vie d'uscita: la sua ex moglie lo aveva piantato. A lui era sembrato un peccato veniale: nemmeno aveva riflettuto che il suo gesto premuroso avrebbe rovinato una regia studiata e ripetuta allo sfinimento nella ricerca della perfezione. Da bravo ingegnere, non era avvezzo a certe iperboli artistiche, lui progettava cose concrete e l'idea di rovinare un video non l'aveva nemmeno sfiorato: il suo prodotto si sarebbe venduto ugualmente, con o senza spot memorabile. E Amandine lo aveva accusato di disautorare il lavoro di tutti quelli che non fossero Gregory Anderson; aveva blaterato di mancanza di rispetto, di considerarla un accessorio alla sua nobile vita, sempre due gradini sotto di lui. Si era liberato di lei con un bell'assegno, poi avrebbe preteso di riprendersela asserendo di avere scherzato, incurante di avere sparpagliato i brandelli del suo cuore ovunque, ma non in California, perché lo stato le era stato interdetto nei documenti di divorzio.
Amandine era sempre piuttosto drammatica nelle sue esternazioni, aveva una tendenza al paradossale intriso di sconcertante ironia che disarmava i comuni mortali ma non aveva mai ingannato lui.
Fin dalla prima volta, aveva schivato tutte le iperboli ed era andato diritto alla sua mente; era riuscito in una connessione, all'apparenza delle più improbabili, che aveva reso inevitabile la loro relazione.
E ora, si era ribellata al disegno divino che la Fortuna aveva scelto per loro.
Non si sarebbe messo a folleggiare tanto per farle capire che viveva al meglio anche senza di lei, non era quel genere d'uomo. Lui era un tipo noioso, senza grilli per la testa. In passato aveva avuto le sue storie, non era certo uno che doveva andarsele a cercare, ma non si era mai lasciato travolgere. Diciamo che, le signore con cui aveva condiviso il suo letto l'avevano lasciato in punta di piedi e dopo un cambio di lenzuola se ne era dimenticato.
Con Amandine avrebbe dovuto cambiare pianeta e non sarebbe bastato. Gli ci voleva un viaggio interstellare, un salto nell'iperspazio che lo portasse in universi inesplorati, forse la novità lo avrebbe catturato e distratto dalle sue giornate di merda.
L'iperspazio era solo una teoria, un'idea che lo aveva sempre affascinato, prima o poi ci sarebbero arrivati ma lui sarebbe morto prima, senza assaporare l'esperienza. Una cosa aveva in comune con le quattro dimensioni della fisica, solo che la sua quarta dimensione, al posto della t del tempo, aveva la A di Amandine.
E adesso era nei casini più neri. Guardava Fred mentre parlava e raccontava ed ipotizzava un'idea che, a giudicare dall'entusiasmo messo nell'esposizione, doveva essere geniale, ma non ne aveva ascoltato una singola parola.
Trovò la scusa di una forte emicrania, salì in macchina e imboccò la 101 verso Sausalito. Il mal di testa ce l'aveva davvero, una pressione alla tempia destra lo infastidiva da diversi giorni ed era propenso ad attribuirne la colpa a sua moglie, lei non era per nulla la sua ex, nonostante quanto attestavano i documenti del divorzio.
La casa era silenziosa, immobile. Era tornata ad essere la sua abitazione da scapolo, si riconosceva in ogni scelta, così come distingueva la poesia di Amandine in ciò che lei aveva lasciato. Non aveva portato via nulla degli oggetti comprati per la loro casa, come se avesse voluto allontanare da sé la loro vita insieme. E, per la ragione contraria, lui non aveva osato spostare di un solo centimetro le cose in cui lei aveva messo le mani, come la poltrona accanto alla finestra rifatta in colori a cui nemmeno sapeva attribuire un nome, scelta stilistica per spezzare l'animo monocorde di Greg, che rischiava la paralisi se lei non avesse provvidenzialmente rimediato.
Non si era nemmeno più seduto nel comodo divano sotto al patio vista baia, testimone di tanti dopo cena a raccontarsi e fare progetti. Adorava che, con lui, Amandine non avesse freni: lasciava libera la fantasia e gli confessava i sogni segreti, ogni pensiero che aveva osato affacciarsi alla sua coscienza e in cui lui, sorpreso, si riconosceva dopo averlo ascoltato dalle sue labbra.
Greg non era rimasto solo, era rimasto con la metà di se stesso, l'altra se l'era portata via lei.
S'infilò sotto la doccia nel tentativo di togliersi di dosso la giornata e l'ultimo sguardo, prima di spegnere la luce, fu al telefono. Sapeva perfettamente l'orario di Parigi, forse dormivano ancora, non voleva svegliarle. Si trattenne dal mandare un messaggio, stava diventato ossessivo.

Due
Dominique era rientrata a Londra da Marrakech, dove era rimasta solo due giorni perché non voleva mancare all'appuntamento con la dottoressa Stanton.
Seguiva il protocollo, come era raccomandato per figure professionali del suo tipo e il padre era molto attento che non ne saltasse uno.
Lavorare nello studio Cohen le aveva creato più di un problema anche se, all'inizio, le era sembrata una scelta facile: aveva alle spalle una struttura solida e poteva scegliersi i casi che le interessavano.
Non era esattamente così. Per la vicenda di Joaquin Rousseau aveva avuto parecchi alterchi col padre, contrario ad un'azione sul campo con un soggetto affetto da sociopatia conclamata. L'aveva giudicato troppo pericoloso e instabile e, se da un lato comprendeva il suo interesse per il caso, dall'altro non vedeva il perché se ne dovesse occupare proprio sua figlia.
Quello che andava bene per i suoi collaboratori, non sempre era giusto per Dominique.
Gabriel Cohen era il titolare dello studio di famiglia, fondato dal nonno, tre generazioni di avvocati a cui, dopo la laurea, si era aggiunta anche Dominique, la sua unica figlia, avuta da un'unione disastrosa quando era ancora all'università. Era stato il classico matrimonio riparatore, le famiglie si conoscevano e fu messo all'angolo. Si chiedeva, ancora dopo anni, come era finito a letto con la madre di sua figlia. Erano usciti per qualche mese ed era stato solo svago, nessun coinvolgimento, per entrambi. Quando seppe la notizia del bambino, era trasecolato. Avevano preso ogni precauzione e, a quel punto, pensava avrebbero optato per una soluzione alternativa. Invece, lei diede fiato alle trombe, coinvolse le famiglie e la conclusione fu una tristissima cerimonia in un giorno piovoso.
Ricordava perfettamente la pioggia, e il vento. Non c'era modo di ripararsi, le gocce scendevano trasversali e bagnavano l'abito della sposa, l'aveva voluto bianco, ovvio. All'uscita della chiesa si moriva di freddo e le foto furono impietose, il vestito di lei appiccicato al corpo, lui con uno sguardo da funerale, perso nel vuoto di quell'unione.
La convivenza fu anche peggiore; avevano preso un appartamento a Oxford, entrambi continuavano a studiare e le famiglie fornirono loro tutto l'aiuto possibile. Greta gli faceva pesare la gravidanza in ogni momento e lo costringeva ad aiutarla mille volte al giorno per essere soccorsa in qualsiasi cosa di cui avesse necessità. Già al sesto mese, per alzarsi dalla poltrona faceva una serie di contorsioni degne del Cirque du Soleil.
In quelle giornate buie, mentre era impegnato con un esame di diritto penale, si calò nella mente di un criminale, un assassino per la precisione, e studiò tutti i modi immaginabili per eliminarla, concentrandosi, soprattutto, sulle possibili soluzioni per farla franca, non sarebbe andato in galera per Greta.
La nascita di Dominique cambiò la loro difficile quotidianità in quella che lui amava definire l'anticamera dell'inferno. Gli spermatozoi saranno stati i suoi, ma Greta aveva partecipato tanto quanto lui e non capiva, razionalmente, perché lei avesse un atteggiamento di rivendicazione e vittimismo ad oltranza.
Al sesto mese aveva smesso di studiare, adducendo che i suoi pensieri erano tutti per la bimba e non riusciva a concentrarsi sui libri. Era sempre fiacca, con la pesantezza di chi è costretto e senza vie d'uscita.
Il parto la lasciò prostrata e Gabriel rammentava, come fosse accaduto pochi giorni avanti, la culla messa di fianco alla scrivania; lui leggeva e la bimba, al suono pacato della sua voce, si addormentava. Dominique aveva i suoi ritmi, l'ultima poppata a mezzanotte, poi lasciava dormire papà fino alle sei. Le dava da mangiare prima che arrivasse la nanny che l'accudiva mentre era in facoltà.
Quando si laureò, la volle con lui alla cerimonia, sentiva che anche lei sarebbe stata un ottimo avvocato e, a suo tempo, avrebbe imparato con facilità tutte le lezioni che l'avevano accompagnata nella prima infanzia, le aveva trasmesso una sorta di imprinting.
Grazie al cielo, Greta si innamorò perdutamente e chiese il divorzio. Se li avessero fotografati all'uscita dello studio legale, dopo avere firmato, avrebbero assistito ad una scena completamente diversa da quella ripresa sulla porta della chiesa. Lui chiese l'affidamento esclusivo della figlia e Greta non batté ciglio.
Padre e figlia festeggiarono insieme il suo secondo compleanno con una torta piena di pupazzi di zucchero e ballarono su una canzone di Simon & Garfunkel.
Danzarono insieme, sulle stesse note, alla sua festa di diciott'anni e decisero che sarebbe entrata nella tradizione della famiglia Cohen.
Dominique se ne era andata all'inizio dell'università e non era più rientrata nella casa paterna. Una volta laureata, si era trasferita nella piccola dependance che avevano in giardino e l'aveva sistemata alla meglio non trovando mai il tempo, né la voglia, da dedicare alla casa. Gabriel si era ripromesso di farle una sorpresa e renderla degna di un'abitazione vera e propria, ma anche lui era preso dallo studio legale e i progetti rimanevano accantonati assieme ai propositi di un quotidiano più rilassato.
Le mancava averla per cena, anche se i suoi impegni di lavoro gli permettevano poche serate tranquille.
Spesso la invitava a mangiare un boccone veloce per poi tornare in ufficio, e la guardava salire sul taxi che l'avrebbe portata alla sua vita.
Non vedeva l'ora che gli chiedesse di aggiungere il suo nome nella targa dello studio ma, al momento, sembrava non avesse ancora deciso in quale direzione camminare.
Gabriel e Dominique Cohen: lo immaginava ogni volta che passava di fronte all'insegna. Le tradizioni erano importanti.
Attorno a quella targa c'era la sua vita, i suoi successi, la sua malinconia. Cacciava i ricordi dolenti nell'angolo più nascosto della sua anima, ma ne era ben consapevole, li conosceva tutti, ad uno ad uno e li chiamava per nome, pur non riuscendo ad attribuire loro una identità precisa. Non aveva un rimpianto in particolare, era piuttosto un desiderio di qualcosa che non aveva mai posseduto appieno, che non conosceva, ma ugualmente ne sentiva la mancanza.
Era un uomo ancora giovane, altri come lui avrebbero avuto tre amanti con vent'anni di meno e un letto che non servisse solo per dormire. Non aveva preso i voti ma, nella sua vita, le donne avevano una presenza marginale e sapeva come smorzare quelle troppo intraprendenti che miravano ad una relazione stabile che era certo di non potere offrire.
L'idea di uscire con signore che avessero l'età della figlia, o poco più, lo metteva a disagio; quelle di maggiore età ed esperienza capivano fin da subito che era un tipo da cui stare alla larga.
Il tempo aveva sfumato il ricordo di Violet, l'unica storia importante della sua vita. Anche il dolore si era sopito, così come il dubbio di non aver fatto abbastanza per lei.
Si era chiesto tante volte se avesse potuto riconoscere i segnali prima del tracollo finale, ma l'esito non sarebbe cambiato.
Era una donna splendida, plasmata da un'incessante vivacità nei confronti di tutto ciò che la circondava.
L'aveva incontrata ad una raccolta fondi di cui lei era una delle promotrici e il suo intervento spiazzò l'intera platea, denunciando con grande veemenza le frequenti malversazioni delle associazioni benefiche ed esortando gli invitati a chiedere dei resoconti dettagliati su come finiva il denaro donato. In pratica, aveva lanciato pesanti accuse e contemporaneamente sottolineato la sua ferma intenzione di tenere gli occhi bene aperti, sempre che le avessero permesso di restare nel comitato in cui era appena stata accolta.
La famiglia di Violet, presente in uno dei tavoli di riferimento, era abituata alle intemperanze della figlia e nel dopocena cercò di smorzare i toni dell'invettiva che, invece, lo aveva folgorato.
Riuscì a presentarsi la sera stessa e fu l'inizio di una frequentazione assidua che sfociò in una relazione di convivenza apparentemente stabile. Per lui fu un passo importante: aveva finalmente deciso di portare una donna nella sua vita e in quella di Dominique.
Non era alla ricerca di una madre per sua figlia e così fu. Violet era piuttosto avulsa dagli impegni della genitorialità anche se aveva il massimo rispetto del rapporto fra lui e Dominique.
A sua figlia piaceva Violet, era attratta dal suo spirito ribelle e fu un ottimo esercizio per le capacità critiche di un'adolescente che stava formando il suo carattere.
Violet trattava Dominique come una discepola e amava trasmetterle esperienze di cui sua figlia, assetata di vita, si cibava a più non posso.
Forte delle sue conoscenze e della sua preparazione, Violet si lasciò coinvolgere dall'attività politica. Lui l'aveva spalleggiata, pur mettendola in guardia dalle insidie che avrebbe dovuto affrontare.
Dapprima, Violet fu elettrizzata dalla sua fulminea ascesa nel panorama politico e fu vittima dell'esposizione mediatica che non conosce equilibrio.
I suoi iniziali dubbi erano stati profetici e un maledetto autunno si trovò a raccattare i pezzi di una Violet che non riusciva a contrastare una sconfitta come tante. La sua immagine fu devastata da anonimi detrattori a cui non riuscì a fare fronte.
Rappresentò la prima di una lunga serie di episodi che alternavano una Violet progettuale e completamente inserita nel mondo che la circondava, ad una Violet ombra, incurante dell'affetto di cui era circondata, chiusa in se stessa e incapace di reagire.
Quando le propose un aiuto professionale lei rifiutò categoricamente e dovette ricorrere ai suoi genitori per imporle un ricovero. Scoprì in quell'occasione che la famiglia era a conoscenza dell'anomalo comportamento di Violet, ma l'avevano sempre classificato una peculiarità caratteriale e non una patologia.
Si rifiutavano, in maniera ottusa, di pensare a Violet come una paziente psichiatrica. Dovette faticare non poco per convincerli della necessità di un intervento mirato; del resto lui non era suo marito e non poteva prendere decisioni di sorta. Quando minacciò che lei facesse ritorno in famiglia, subì ogni sorta di ingiuria, finché una mattina ebbe finalmente il permesso di accompagnarla in una casa di cura in cui operava uno psichiatra amico del padre di Violet.
Il nome che lui aveva suggerito fu bocciato e dovette arrendersi.
All'inizio le condizioni di Violet peggiorarono e furono proibite le visite. Dopo sei mesi di dolore, lei fu dimessa e rientrò nella casa paterna. Anche Gabriel fu d'accordo, lui era impegnato e Violet non era una presenza serena per Dominique.
La vedeva durante i fine settimana ma spesso le visite erano brevissime, lei sembrava indifferente alla sua presenza.
La loro relazione ebbe una fine annunciata, amara e piena di sensi di colpa; gli ci volle molto tempo per andare oltre e pensare a Violet come qualcosa al di sopra della sua volontà e del suo amore.
La sua coscienza trovò un'oasi di pace e si impegnò ad essere vicino a Dominique che aveva risentito della malattia di Violet.
Si convinse di avere avuto la sua occasione e ne accettò l'epilogo.
Non si definiva un uomo cinico, per quanto la sua professione lo avesse portato ad approfondire le nefandezze dell'animo umano.
La parola che avrebbe scelto di attribuirsi era piuttosto spirituale, devoto alla malinconia, squarciata da un'unica nota felice, Dominique.

Tre
Aveva visto Dominique di sfuggita, nel corridoio, e non si era fermata a salutarlo. Sollevò il telefono e la chiamò.
«Vieni a prendere un caffè da me? Ho qualche minuto prima del prossimo appuntamento».
«Arrivo».
I loro uffici erano distanti, anche se allo stesso piano, lei non voleva fare pesare troppo la sua posizione di figlia del capo e l'intento le costava il doppio dell'impegno.
«Ciao papà, come stai?».
«Tutto bene, dimmi di te. Come è andata in Marocco?».
«Bellissima festa e tutti insieme sono un bel gruppo».
«Non li conosco, a parte Stuart Spencer. Ho incontrato parecchie volte anche il padre, generazioni con l'avvocatura nel sangue».
«Non mi suona come una novità! È ciò che vorresti sentir dire della famiglia Cohen».
«Me lo dico da solo, e anche il tuo bisnonno, a cui dobbiamo il gene, penserebbe la stessa cosa. Vorrei sapere come ti senti. So che non mi hai raccontato tutto della tua avventura caraibica ma tu sei mia figlia e ti leggo dentro, c'è molto altro».
«Papà, sei un ottimo avvocato ma non vestire i panni del mio analista. La dottoressa Stanton si occupa egregiamente del mio stress post-traumatico».
«Mi è sempre piaciuto il tuo modo di prendere la vita, minimizzeresti il pericolo anche con una pistola alla tempia».
«In quel caso me la farei sotto, ma solo dopo avere pensato a come scamparla».
«Per l'appunto. Non vedo l'ora che ti decida ad usare la tua preparazione da profiler come valore aggiunto di un avvocato penalista».
«Papà, piantala, sei giovane e ho tutto il tempo per dedicarmi ai miei interessi».
«Già, - commentò Gabriel e un'ombra gli attraversò lo sguardo - le passioni vanno coltivate».
«Non dirmi che hai dovuto fare rinunce, tu sei avvocato fin nel midollo».
«Hai ragione, faccio esattamente ciò che voglio fare. Almeno professionalmente».
«Mi stai dicendo che c'è qualcosa che dovrei sapere?».
«Ci sono cose che un padre può chiedere alla figlia ma non è sempre vero il contrario».
«In base a quale articolo della Costituzione?».
«Dominique, sono il più felice degli uomini, ho la figlia che desideravo avere, e alcuni amici cari a cui sono affezionato».
«Sui tuoi amici cari, come li chiami tu, ho più di un dubbio. Tutti stimabili, niente da dire, ma sono le persone più noiose abbia mai conosciuto».
«La vita non è solo divertimento, ci sono altri valori di cui prendersi cura».
«Non sto parlando di divertimento ad ogni costo ma di come si affronta l'esistenza. Loro ne vivono solo la parte più omologata e priva di brio».
«Se per brio intendi andare ai Caraibi a stanare un sociopatico, di sicuro se ne guardano bene».
«Non torniamo di nuovo su questo punto, oramai sono qui, illesa a quanto pare. I tuoi amici sono dei treni locali che si fermano ad ogni stazione. Fai sapere loro che abbiamo anche l'alta velocità. E vale anche per te».
«Non vorrei sottolineare che ho il diritto e la responsabilità delle mie scelte, non ti ho mai fatto pesare nulla e tu sei stata tutta la gioia che desideravo. A volte penso che il destino sia stato fin troppo magnanimo con me e posso pregiarmi di dire, ad alta voce, che sono un padre e un avvocato, quello che avrei voluto essere».
«Non mi hai convinto, sei troppo giovane e io non ho più bisogno di te da un pezzo. Che ne dici di te come uomo? Ho visto quella fascinosa signora l'altra sera quando avevi gente a cena».
«Sapevo che non ti sarebbe sfuggita».
«Tranquillo, faccio finta di non avere accidentalmente notato a che ora è uscita la mattina successiva».
«Dominique, io mi sforzo di non sbirciare dalla finestra per vedere a che ora rientri e con chi, sarebbe gradito che facessi altrettanto».
«Non parlavo dei tuoi svaghi, non mi interessano. Vorrei solo che ti aprissi alla vita».
«La predica è terminata, è arrivato il mio appuntamento. Ricordami di non invitarti più per un caffè».
«Anch'io ho da fare e stasera esco presto, devo prepararmi per un invito».
«Cena per due?».
«No, Stuart e il gruppo di Marrakech. Mi piacciono i Famigerati; fra loro si chiamano così».
«Un nome e una garanzia. Per fortuna stimo l'avvocato Spencer e per riflesso non posso pensare che frequenti persone non in linea col suo spessore».
«Papà, sei davvero noioso come un treno locale».

Dopo l'appuntamento, Gabriel si ritrovò a pensare alle ferrovie inglesi e alle possibilità offerte ai viaggiatori. Forse aveva ragione sua figlia, un treno della Virgin era ad un diverso livello. Ma non si fermava in tutte le stazioni, solo le più importanti. A quanto pareva Dominique credeva valesse la pena saltarne qualcuna e approdare direttamente a Londra dopo essere partiti da Edimburgo. Chi se ne fregava di quello che c'era in mezzo? Non era come aveva condotto la sua vita, si era dedicato al piccolo attorno a sé, coltivava le sue rose e aveva un'intera siepe di ortensie che lambiva il muro di recinzione e, quando erano nel pieno della fioritura, le osservava, appagato che il paziente lavoro dei fine settimana avesse dato i suoi frutti: un'esplosione di bianco e verde da accecare lo sguardo e lo spirito, almeno il suo.
In tarda primavera, si sedeva in giardino a leggere e fumare. Il fumo non era solo l'unico vizio che aveva, era il suo personale modo di raccogliere i pensieri, di inalarli, trattenerli per un attimo ed espirarli per poterli affrontare. Ogni volta che alzava lo sguardo, la sensibilità estetica coltivata in anni di viaggi e letture lo trasportava nella sua bolla solitaria. Felicità era una parola pericolosa: l'illusione a cui tende il genere umano per giustificare le proprie azioni volte all'inutile ricerca, tempo ed energie sprecate. Un giardino di bianche ortensie era quanto di meglio poteva godere nella sua costante ed imperfetta esistenza. Quando rientrava a casa e si spogliava delle glorie professionali, ringraziava di essere in grado di farlo e si dedicava allo yin che era in lui, pacato e pensoso.
L'audacia che lo distingueva come avvocato rimaneva confinata fra le pagine dei suoi libri e nei suoi pensieri più intimi.
Lui e Dominique erano molto simili e si chiedeva di frequente in quale parte della sua anima fosse nascosta la passione che riconosceva nella figlia. Non arrivava da Greta, ne era sicuro, era dentro di lui, sepolta da una tonnellata dei detriti lasciati dai suoi sogni dimenticati. 
Quattro
Dominique non era mai stata a casa di Henry, l'aveva invitata Louise con una telefonata, il giorno precedente.
Prima ancora di entrare in biblioteca, sentì un acceso vociare.
«Sei sicuro che sia a Parigi?», domandò Henry.
«Me lo ha detto Greg, non ho osato chiedergli altro, non mi sembrava avesse molta voglia di dare spiegazioni», rispose Justin.
«Non ce ne deve, sarebbe comunque buona creanza tenerci informati. E della francese persa nella Ville Lumière nessuna notizia, non va bene».
«La vuoi lasciare in pace? Da quando sei infastidito dalla libertà di Amandine? Ti è sempre piaciuto questo lato del suo carattere», lo rimbeccò Louise, sua moglie.
«Certo che mi piace, non sto puntando l'indice contro le sue scelte, ma vorrei esserne informato. Ricordate Harry Potter? Ebbene, io ho la mappa del malandrino dei Famigerati e la signora Johnson non compare da nessuna parte. Siamo sicuri che stia bene? Voi confondete la curiosità fine a se stessa con un desiderio di partecipazione».
«Non ti preoccupare, è con Hugh», gli ricordò Justin.
«La famiglia Rousseau in un modo o nell'altro rompe gli equilibri. Vorrei proprio sapere cosa è successo fra lei e Gregory».
«Sei curioso come una scimmia, checché tu ne dica; lo chiederemo. Sempre che abbia voglia di raccontare».
«Non si resiste al terzo grado di Henry Weston, un esperto di Guantanamo mi ha spiegato in dettaglio le tecniche inquisitorie».
«E da quando frequenti gentaglia che lavora a Guantanamo?», s'interessò Stuart.
«Dominique, scusaci. Benvenuta, come stai? - chiese Justin, alzandosi - il nostro Henry ha dimenticato le buone maniere».
«Va benissimo, mi fa sentire una di voi».
«Non so se è un titolo di merito - s'intromise Igraine - Qui stiamo sfiorando l'invasione della vita altrui. Amandine ha le sue ragioni e Greg ne sta patendo le conseguenze».
«Allora tu sai! Questa è una scissione vera e propria. Da quando le Famigerate non ci partecipano?».
«Henry, la prima rottura storica la dobbiamo a voi, quando decideste di tenerci all'oscuro della vicenda di Greg perché vi faceva comodo. Non ne abbiamo fatto una questione di stato ma non significa che lo abbiamo ignorato. Voi ci coinvolgete solo se lo ritenete opportuno».
«Questo è un colpo di stato, altro che scissione!».
«Piantala, di Greg sapevate tutto ma non avete fiatato. E non ce l'ho solo con Henry, anche tu, marito mio e tu, Justin, siete colpevoli tanto quanto lui. Volete tenere questa linea? Va benissimo ma lasciate in pace le Famigerate».
«Stuart, fai qualcosa. È legale questa insubordinazione o è perseguibile con pene severe?».
«Henry, cosa ti è preso stasera? Se continui, potrei prendermi una lunga vacanza a Boston da mamma», lo redarguì Louise.
«Già il fatto che Patricia ti abbia generato è uno dei misteri gloriosi, ma che meriti di essere chiamata mamma va oltre ogni mia comprensione e che tu le faccia visita non rientra nei piani celesti».
«Louise, tuo marito si è fatto di qualcosa. - affermò Stuart, ridendo - Imbavaglialo o mandalo a letto senza cena. Dominique, ho parlato con tuo padre questa sera».
«Spero non sia un suo ennesimo tentativo di chiedere se mi sento bene. Da quando è partita la mia avventura caraibica, come la chiama, mi marca stretta».
«No, tranquilla. Un nostro cliente ha un problema che noi non possiamo risolvere e ho chiesto aiuto a Gabriel Cohen. Esiste una relazione di vecchia data fra i nostri studi di cui nessuno di noi ha mai avuto occasione di lamentarsi. Quindi, squadra che vince non si cambia».
«Quando vi vedete?».
«Questo è un problema, io e James siamo impegnati fino a venerdì e potremmo solo incontrarci nel fine settimana».
«Fratello, non ci pensare, venerdì voglio essere a Kinnaber», intervenne Justin.
«Credo che passerò, devo parlare con Gabriel quanto prima».
«Non puoi fare due lavori! Di fatto lo studio è in mano a Hewitt».
«Hai ragione, ma io domani parto per Parigi e rientro venerdì», rispose James Hewitt.
«Non vedo dov'è il problema, - s'intromise Henry - perché non invitiamo Gabriel a Kinnaber?».
«Mi piacerebbe che mio padre si rilassasse per un paio di giorni, lunedì abbiamo una Bank holiday. Vedrò di convincerlo. Sono inclusa anch'io nell'invito?».
«Pensavo che James te lo avesse già chiesto. Certamente sei invitata! Iggie dobbiamo fare un tavolo più grande», commentò Stuart.
«Per ora il tavolo va bene, ci penseremo quando avremo gli Higer e Amandine».
«Perché non hai detto gli Anderson?». chiese Henry.
«Dammi tregua, ve lo dirà Amandine quando vi vedrà, se vorrà».
«Chiedile di raggiungerci in Scozia. A me non risponde».
«Le ho già detto che partiremo sulle cinque, mi manderà un messaggio di conferma».
«Scusa, va bene che ce l'abbia con Greg, ma noi cosa c'entriamo? E poi si sono baciati a Marrakech, li ho visti».
«Siamo a questo punto? Henry, stai degenerando - disse Louise, piccata. - Ricorda, lunga vacanza a Boston e torno con mamma».
«Mi hai convinto, sto nei ranghi. Come mai Hewitt sei dei nostri da un po' di tempo a questa parte?».


Gabriel Cohen aveva accettato l'invito a Kinnaber con velata riluttanza. Non gli dispiaceva passare un paio di giorni di vacanza in compagnia della figlia e conoscere meglio i nuovi amici e si era definitivamente convinto dopo aver saputo che avrebbe pernottato alle Cascine: alloggiare a casa di amici, a meno che non fossero molto intimi, lo metteva a disagio.
Di questo gruppo era curioso e voleva capire cosa aveva coinvolto Dominique.
Si trovarono al City Airport e fecero le presentazioni a bordo. Di nome e fama li conosceva tutti, per lo meno i componenti maschili. Rimase colpito da Gwyneth, aveva letto uno dei suoi romanzi e se l'era immaginata completamente diversa. La trovò una deliziosa e pacata signora, niente a che vedere con il fuoco con cui faceva bruciare tutti i personaggi dei suoi libri. Evidentemente quel fuoco ardeva da qualche parte dentro di lei, ma era a beneficio dei più intimi.
Rimase interdetto dalla confusione che un uomo solo, Henry, riusciva a creare nello spazio attorno a sé. A quanto pareva, avevano un posto fisso sull'aereo e Henry stava rivendicando il suo, occupato da Hewitt.
«Henry, sei di una pesantezza unica! Non sapevo che il posto fosse il tuo».
«Senti chi parla, lo stoccafisso di famiglia. Hewitt, alza il culo e siediti da un'altra parte. Non metterti vicino a Stuart e Gabriel altrimenti parlate di lavoro per tutto il viaggio e non mi diverto».
«Justin, dobbiamo assumere un esperto di logistica, dove devo sedermi?».
«Dove ti pare. Chi mette una dose tripla di Valium nel bicchiere del visconte?».
«Visconte? Ti piacerebbe, caro Jacobs. I tuoi avevano le pezze ai pantaloni quando la mia famiglia era alla corte di Enrico VIII».
«Eravate i ruffiani del re, quanto vi ha pagato per tenere nascosti gli assassini delle mogli?».
«In effetti, fisicamente ricordi il clemente re Enrico», gli fece notare Stuart».
«Pensavi di farmi un complimento?».
«Non esattamente. Henry, allaccia la cintura. Justin, chiedi al pilota quando partiamo, il visconte è fastidioso. Gabriel, cerca di allargare le tue vedute e sii paziente».
L'avvocato Cohen osservava, divertito, l'esuberanza vitale del gruppo e ne percepiva la comunione.
«Non possiamo partire, sta atterrando la francese - comunicò Igraine - il suo aereo ha qualche minuto di ritardo».
«Arriva sola o si porta dietro il fratello buono di Joaquin?», chiese Henry.
«Sola, Hugh aveva da fare».
«Meno male».
«State parlando di Joaquin Rousseau?», s'intromise Gabriel.
«Sì, Hugh è il fratello che stava per sposare Amandine, ma il matrimonio saltò, - gli spiegò James - Sono rimasti buoni amici e si frequentano».
«Cerca di essere più chiaro, - lo interruppe Henry - Si frequentano può dare adito a malintesi. Hanno interessi professionali in comune e la nostra Amandine non ha niente a che fare col resto della famiglia Rousseau».
«Stuart, era per lei che mi chiamasti due anni fa? Era stata aggredita da Joaquin, ingiurie gravi, se ben ricordo».
«Sì, e tu mi consigliasti l'avvocato di Glasgow. A che punto è l'aereo da Parigi?».
«Appena atterrata, sta arrivando di corsa, la sta accompagnando un addetto dell'aeroporto».
«Eccola, la vedo. Quante valige ha? Qualcuno vada a caricare il bagaglio della signora de Villepin», chiese Justin al secondo pilota.
Amandine si presentò trafelata con Dalai in uno zaino porta-bambino.
«Salve a tutti, scusate il ritardo».
«Come mai ti hanno accompagnato?», chiese Henry, curioso.
«Ho millantato di essere l'addetto stampa del Primo Ministro che mi stava aspettando su un aereo privato».
«Così si fa! E ti hanno creduto?».
«Mi hanno accompagnato, era quello che volevo. Qualcuno mi aiuta a far scendere Dalai e a legarla da qualche parte?».
«Devi tenerla in braccio, abbiamo esaurito i posti. Siediti accanto a Gabriel, non credo vi conosciate. Gabriel Cohen, padre di Dominique, Amandine de Villepin».
«Che papà giovane! Dominique, sei stata adottata?», chiese Amandine mentre Gabriel la stava aiutando con la bambina.
«È nata quando ero ancora all'università».
«Vi chiederanno se siete fratelli».
«Non ci ho mai riflettuto. Come si chiama questa bambina che è il ritratto della mamma?».
«Dalai, colei che guarda l'oceano».
«Nome evocativo, per entrambe».
L'odore di Dalai lo riportò con violenza nel passato; dopo Dominique non aveva più avuto interazioni con bimbi piccoli, né lo aveva desiderato.
«Dalai, vieni dalla mamma, liberiamo l'avvocato Cohen».
«Lasciala, sembra tranquilla».
«Ha sonno, l'ho svegliata all'atterraggio per metterla nello zaino».
«Non so se riuscirà a dormire in questa confusione».
«Ci è abituata, è figlia di una Famigerata».
«Mi ha detto Dominique che vi chiamate così fra voi».
«Quindi tu sei l'avvocato che non ha accettato la mia causa contro Joaquin».
«Detta così, suona malissimo. Avevo un processo in corso e non potevo accollarmene uno in Scozia. Comunque consigliai a Stuart un nome di eccellenza».
«A quanto pare le nostre strade si sono comunque incrociate. Come mai sei dei nostri?».
«Mi ha invitato Stuart».
«In qualità di padre di Dominique?».
«Ti disturba la mia presenza?».
«Volevo solo capire».
«Dobbiamo discutere di un cliente che lo studio Spencer ha intenzione di passarmi».
«Che tu accetterai, a differenza del mio caso».
«L'hai già detto e ti ho spiegato».
«Certo, ma forse con te saremmo riusciti ad avere una condanna diversa, la tua fama ti precede».
«Me lo stavo chiedendo pochi minuti fa».
«Non si può tornare indietro e cerco di evitare di pensare al passato».
«Un modo di vivere come un altro».
«E qual è il tuo modo?».
«La domanda è seria o è solo una maniera per fare conversazione?».
«Non sono una da salotti e chiedo ciò che desidero sapere».
«Interessante. Quindi, ti aspetti una risposta?».
«Solo se hai voglia di darmela, altrimenti parliamo del tempo e cerchiamo di trascorrere piacevolmente l'ora di volo».
«Mi riservo di risponderti, lo farò in una sede più tranquilla, qui c'è troppa confusione ed è un argomento che merita attenzione».
«Mi sta bene e ho un'ottima memoria, lo ricorderò».
«Non era un tentativo di eludere», puntualizzò Gabriel.
«Dalai si è addormentata. Passamela, non voglio disturbarti».
«Tranquilla, mi ricorda momenti felici».
«Ti è piaciuto il tuo ruolo di padre?».
«Intanto non lo definirei un ruolo: è una condizione biologica incontrovertibile ma se lo limitassimo solo a questo sarebbe privo del profondo significato che ha avuto per me. Io l'ho vissuta con la responsabilità che dovevo e l'amore che ho provato per Dominique mi ha alleviato il peso di essere l'unico genitore. Greta, la madre, non l'ha mai voluta e l'ha sofferta, fin dalla gravidanza».
«In qualche modo anch'io sono una madre sola».
«Tu sei la moglie di Gregory Anderson», rifletté Gabriel a voce alta.
«Ex. E le cose sono complicate. Viviamo a migliaia di chilometri di distanza e il padre è logisticamente assente».
«L'importante è che voglia fare il padre».
«Sì, e sarebbe un buon padre».
«Credo che anche questo sia un argomento che richiede una condizione favorevole, una buona tazza di tè in un bel pomeriggio scozzese».
«Ti prendo in parola, dobbiamo conoscerci meglio».
«Lo credo anch'io». 
Cinque
L'avvocato Cohen continuò ad essere perplesso anche dopo l'atterraggio, quando ci fu un conflitto a fuoco su chi salisse con chi.
Avevano fatto un'auto solo di avvocati col pretesto del lavoro e Stuart era alla guida. Henry aveva deciso che anche lui doveva andare con la Major League e si intrufolò fra Justin e James.
«Henry, non potevi salire con tua moglie?».
«Io e Louise siamo ai ferri corti, e le donne ce l'hanno con me».
«Hai provato a chiederti come mai?».
«Non mi interessa, io sono più utile a voi, mai che vi sfuggisse il senso profondo di un ragionamento».
«Gabriel, come avrai notato, Henry è il nostro pensiero trasversale».
«Una qualità apprezzabile, in tutti i campi e particolarmente nel nostro».
«Non vorrei sottolinearlo, ma ho una laurea in Scienze politiche a Oxford e questi buoni a nulla tendono a dimenticarlo. Per non parlare di Justin che si è laureato oltreoceano», ribatté Henry.
«Conosco Justin di fama, anche se non ci eravamo mai incontrati prima».
«Anche noi lo conosciamo di fama!».
«Henry, a cuccia ora, dobbiamo parlare di lavoro. Gabriel, ho un cliente che ha avuto problemi fiscali pesanti e si è macchiato di corruzione di pubblico ufficiale. Naturalmente è stato beccato e ora ha una denuncia penale sulla groppa e il pubblico ministero gliel'ha giurata. È un caro amico di mio padre e vorremmo lo seguissi tu. Non si è mai distinto per l'acume e questa vicenda lo dimostra», spiegò Stuart.
«È proprio un coglione, quando si decide di infrangere la legge occorre studiare un piano accurato».
«Henry, teoricamente in una società civile non bisognerebbe infrangere alcuna legge».
«Via, gli avvocati ci stanno per quello! Occorre consultarli prima e non dopo».
«Meno male che a bordo non abbiamo un giudice, non ci avresti fatto fare bella figura. Gabriel, posso mandarti il cliente?».
«Me ne occuperò personalmente, riferiscilo a tuo padre. Poi mi spiegherai in dettaglio la vicenda».
«Bene, ora parliamo d'altro. Cosa possiamo organizzare questo fine settimana? Gabriel, sei un amante del whisky?», domandò Henry.
«Certo, con moderazione».
«Il termine moderazione non rientra nel vocabolario dei Famigerati, ma chiuderemo un occhio poiché sei il padre di Dominique e da quando ci frequenta notiamo una maggiore assiduità del nostro James».
«Il tempo passa ma Henry è sempre legato ai dilemmi adolescenziali», commentò Stuart.


Arrivarono a Kinnaber e il cielo terso, segnato da uno splendido tramonto, fu il migliore benvenuto per gli ospiti che la vedevano per la prima volta.
«Questa tenuta è una delle sette meraviglie, sapevo che tua moglie è una McFarland ma non avevo idea ci fosse tanto altro».
«Il whisky è una parte trainante dell'economia della proprietà ma l'albergo e la beauty farm stanno contribuendo con entrate significative. Iggie dedica molto tempo all'attività e averne fatto un posto dove tutti veniamo volentieri fa pesare meno la distanza con Londra».
«Passate qui tutti i week end?», chiese Gabriel.
«Io e Stuart abbiamo una postazione di lavoro, quando possiamo lavoriamo dalla Scozia. I bambini stanno bene, in campagna hanno maggiore libertà e mia moglie scrive volentieri qui. Anche Amandine è dei nostri, per lo meno quando è a Londra. E Henry ci accompagna perché senza di noi si annoia», spiegò Justin.
«Veramente mi occupo della distilleria, non sto a bighellonare. Ho un ufficio alla McFarland, mi hanno messo nella foresteria, dopo ti faccio fare un giro».
«Magari domani, ora è tardi e per prima cosa dobbiamo organizzare i bambini. Gabriel, ceniamo tutti alle Cascine».


L'avvocato Cohen apprezzò il camino acceso in camera, sistemò quel poco che aveva in valigia e si affacciò alla finestra per non perdersi le ombre del lungo tramonto scozzese. Vide la signora de Villepin uscire in tuta da ginnastica e allontanarsi velocemente. Ne notò l'armonia del passo e lo stemperarsi della figura negli inquietanti colori della sera. La seguì con lo sguardo finché non si perse dopo una curva.
Si dedicò a Tolstoj, ne conosceva ogni sfumatura; gli piaceva analizzare ogni riga che l'autore dedicava ad Anna, metteva in fila le parole e, come un mattone dietro l'altro, costruiva la sua Anna, fragile ed eroica. Lei era la fiamma inquieta e vitale, vittima e carnefice dell'amore. L'esistenza di Gabriel ne era priva e lo cercava nelle pagine dei libri. Era visceralmente ammaliato dall'atroce passione di Anna e Vronski e si raccontava che l'interesse fosse accademico, amava la letteratura russa. Si chiese, per l'ennesima volta, cosa si provava quando si era spinti dall'attrazione fino a sfidare le convenzioni sociali, gli affetti, il ricatto di non potere più riabbracciare l'amato Serëža. Venerava Anna: era andata contro tutti e il suo suicidio era iniziato fra le braccia di Vronski, mentre volteggiava in un valzer maledetto. Non si era fermata, aveva danzato con disperazione, finché non era bruciata nel suo stesso fuoco. E, dentro di lui, Gabriel temeva di assomigliare a Aleksej Karenin, uomo estraneo alla passione, fedele ai suoi studi e ai suoi principi. Un profondo amore lo legava a sua figlia Dominique ma lui desiderava altro, voleva quello che avevano Anna e Vronski: dentro di sé bramava la maledizione. E non riusciva a confessarlo nemmeno a se stesso.
Solo attraverso le pagine del romanzo riusciva a dare consistenza e veridicità al nobile fuoco che arde senza possibilità di essere spento, quello stesso fuoco che alla fine consuma chi ne è portatore. Valeva la pena perdersi, almeno una volta nella vita, paura e attrazione, e soprattutto il coraggio della libertà, l'audacia che ti rende libero nel momento stesso che ti arde vivo e ti riduce ad un mucchio di cenere. Quello era il punto, sarebbe stato vivo anche nell'attimo prima della morte.


Si cambiò e scese per la cena.
Trovò i suoi ospiti nella hall, che lo aspettavano per un aperitivo. Igraine lo invitò a fare uso della beauty farm e ad una visita dell'intera tenuta.
Quando arrivarono anche i Weston e la famiglia Jacobs, si sedettero a tavola. Dominique li raggiunse poco dopo e Hewitt era in ritardo, trattenuto da una telefonata.
«Possiamo ordinare - disse Igraine - Amandine sta consumando la piscina e ci raggiungerà appena terminate le sue tremila vasche».
«La signora francese è nervosa, deve scaricarsi - commentò Henry - e teme il confronto, sa che deve pagare pedaggio».
«Henry, non infastidirla, è in un momento delicato».
«Non può tenerci all'oscuro, è mai possibile che con lei noi navighiamo a vista?», insistette Henry.
«Proverò a parlarle io, domani», propose Justin.
«Smettila, non sei il suo amichetto del cuore. Da quando pensi di avere un posto speciale?».
«Io e Amandine ci intendiamo, abbiamo un accordo tacito di verità ad ogni costo. Entrambi lo apprezziamo».
«E noi siamo dei racconta balle? Scusaci Gabriel ma la nostra amica, dopo la vicenda di Gregory Anderson è rimasta in Europa invece di partire con suo marito e noi non abbiamo capito perché».
«Henry, tecnicamente è il suo ex marito, non lo dimenticare», gli fece notare Stuart.
«Tecnicamente in amore è una parola priva di significato. Si erano riappacificati e hanno avuto il loro momento a Marrakech. Gabriel, avresti dovuto vedere la presentazione di Sahara, da brivido».
«Da brivido è stata la tua apparizione in caftano, comunque dopo potremmo vedere il video che è stato girato, me lo ha mandato Greg - aggiunse Justin - Eccola che arriva. Amandine, sei in ritardo».
«Scusatemi, avevo i capelli bagnati e ho dovuto asciugarli».
«A me sembrano ancora umidi, il vento era freddo, attenta a non ammalarti», le disse Justin mentre gli si sedeva accanto.
«Ma chi sei? Suo padre? Figurati se la signora Johnson teme un po' di vento».
«Chi è la signora Johnson?», chiese Gabriel, confuso.
«Hai ragione, scusa. Quando saremo soli, dovremmo farti un riassunto sulle molteplici personalità di Amandine, - gli rispose Henry - e ora fuoco alle polveri! Perché sei ancora con noi? Non che ci dispiaccia ma credo che il povero Gregory non ne sia entusiasta».
«Henry, se lo chiami ancora il povero Gregory, cambio tavolo».
«Allora convincimi che non lo è».
«Non sono dell'umore».
«Che c'entra l'umore, si parla quando si deve».
«Sono sotto processo? È un interrogatorio? Non ho giurato nulla».
«Sei una Famigerata o no? Questa è una carica a vita, non lo puoi essere quando ti fa comodo».
«Greg mi ha lasciato libera e io ho fatto una scelta. Dice di capire le mie ragioni e un attimo dopo ci ricasca. Ha difficoltà con le sfumature».
«Cosa significa?».
«Prima mio marito divorzia per proteggermi; più o meno superiamo il misfatto, poi pensa che io debba riappropriarmi di me stessa e della mia libertà. Dovrei tornare da lui dopo un profondo esame di coscienza. Sono stanca di Greg che decide per me».
«Voi due vi amate».
«L'amore non c'entra. Si può amare la persona sbagliata».
«Gregory è perfetto per te».
«A quanto pare non lo è Non voglio un uomo che prenda le decisioni per il mio bene. A me stessa ci penso io».
«Sei sicura di avere capito bene?».
«Perfettamente. Ha fatto il bel gesto e non credeva che io l'avrei mollato».
«Siamo da capo! Possibile che non riusciate a trovare pace?».
«Me lo chiedo anch'io. Vuole che io viva la mia libertà, questo avrà!».
«Cosa hai intenzione di fare?».
«Non lo so, fra qualche settimana gli porterò Dalai, non voglio negare il padre a nostra figlia».
«Greg ha avuto un anno difficile», commentò Justin.
«Anche il mio non è stato esattamente facile, non so se ricordi. Mi sono sentita un soprammobile. Poi se ne esce sostenendo che secondo lui io forse non sono fatta per una tranquilla vita di famiglia e preferisce rinunciare a me piuttosto che perdermi più avanti. Questo è un pregiudizio, non lo accetto; cosa ho fatto per sentirmi dire che io non posso aspirare a cene famigliari e feste di compleanno? Spero di avere soddisfatto le tue aspettative Henry, possiamo passare ad altro?».
«Tu sei vittima di te stessa», sentenziò inaspettatamente Hewitt.
«Il nostro James che fa sentire la sua voce! Cosa intendi?», disse Amandine rivolgendogli uno sguardo infuocato.
«Tu sei la signora de Villepin e, credimi, quando una persona ti guarda, non vede figli e pannolini».
«Allora perché mi ha sposata? Perché questi ripensamenti ora? La nostra era un'unione solida finché Greg non ha dato di matto. Siamo stati felici e il nostro tempo insieme era speciale. Lo è ancora ma non posso vivere col dubbio che l'ago della bilancia sia lui. Il mio peso è esattamente uguale al suo e ne uscirei consumata se non fosse così. Non voglio che la nostra relazione si deteriori malamente facendoci dimenticare quello che di buono c'è stato».
«Lascia passare il tempo, Gregory ci rifletterà e ne riparlerete».
«Sono stanca, ho diritto ad una vita tranquilla con mia figlia e non sopporto di essere triste, non voglio trasmetterle niente di meno che felicità, ma a volte non ce la faccio e mi sento in colpa. Mi sono maledetta per avere accettato di fare le foto per la mostra di Guy. Per ogni anno di pace con Gregory, ne ho due di sofferenza».
«L'Amandine che conosco io non cede», affermò Justin.
«Justin, tu mi hai idealizzato. Io ci sto male, anche se per carattere non sono una che lo mostra e tiro avanti».
«Ora basta tormentare Amandine, lasciamole una cena in santa pace con tutti noi. Capisco che le vostre intenzioni siano più che buone ma credo abbia necessità di staccare, almeno quando siamo insieme. Lei sa che noi ci siamo, sempre», li interruppe Gwyneth.
«Passiamo alla prossima mozione. Cosa hai intenzione di fare, torni a Parigi?».
«Henry, non dovevamo cambiare argomento?», chiese Gwyn.
«L'ho fatto! Era per organizzare il nostro futuro nel caso decidesse di fermarsi a Londra».
«Rimango a Londra, ci sarà l'inaugurazione della mostra di Guy».
«Greg sarà dei nostri?».
«Non lo so e non mi interessa. A proposito, avete ricevuto tutti l'invito? Dominique, ti è arrivato?».
«Sì, lo hai mandato in studio e l'ho ricevuto la settimana scorsa. Non la voglio perdere».
«Gabriel, sei incluso nel plus one di tua figlia».
«Anche se Dominique potrebbe fare il plus one di Hewitt e quindi Gabriel potrebbe portare chi vuole», puntualizzò il visconte.
«Henry, quando imparerai a farti gli affari tuoi?», lo zittì James.
«Verrò molto volentieri, grazie. Lo segnerò in agenda», le rispose Gabriel.
«Il nostro Brigg che fine ha fatto?», s'informò Henry.
«Sono passata prima a salutarlo e ora è con Dalai. Dobbiamo organizzare la sua partecipazione alla mostra».
«Avvocato Cohen, avremo bisogno di te quando beccheranno il nostro Brigg. Praticamente è un latitante che ospitiamo a Kinnaber».
«Henry, se non altro sei discreto! Gabriel abbiamo un amico che non può circolare liberamente e si è stabilito qui», spiegò Stuart.
«Oserei dire che siete una sorpresa continua. Stuart, conoscendoti, posso solo pensare che sia per una buona causa», disse Gabriel divertito.
«Non me lo chiedo più, Kinnaber è una colonia penale e devo ringraziare mia moglie».
«Brigg era un amico di mio padre e ci ha aiutato tutti».
«Lasciate stare Brigg, è il nonno onorario della mia Dalai. Come lo vestiamo per la mostra?».
«Facile, abbiamo i nostri caftani marocchini».
«Henry, vorrei ricordarti che tu non sei ricercato, sai che ti succede se indossi il caftano a Londra?».
«Louise, le tue minacce arrivano sempre a segno, domani brucio il caftano. Anzi, lo porto a Kinnaber. Gabriel esiste una legge per salvaguardare i mariti vessati ingiustamente dalle proprie mogli?».
«Sono travolto dalle vostre dinamiche, nonostante la mia professione mi abbia abituato ad ogni sfaccettatura dell'esistenza. Capisco perché piacciate tanto a mia figlia».
«Papà, ti conosco bene, hanno conquistato anche te. Dietro all'avvocato Cohen c'è un uomo pieno di possibilità!».
«Gabriel, quando sei con noi abbandona l'avvocatura e immergiti nella dimensione famigerata, - propose Amandine, ridendo - Si litiga ma fa bene allo spirito e si esce rinfrancati da questi week end. Sono terapeutici».
«Credo ci voglia predisposizione e lunga pratica», affermò, dubbioso, Gabriel.
«Per la predisposizione sono d'accordo ma, se questa è presente, l'immersione è simultanea. I Famigerati sono una vocazione», commentò Henry.
Antonella Alboni
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