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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Autore: Rosa Santi
Titolo: Il mare e la nebbia
Genere Romanzo Contemporaneo
Lettori 3483 33 54
Il mare e la nebbia
Atto primo

Gianni

Immaginate una Milano svuotata dalle ultime ferie estive e un uomo solo a solcarne i fiumi grigi che la attraversano. Parlerò di lui, della sua solitudine, di quella parte della sua vita che precede la morte. E di come tutte e tre queste cose lo formino nel suo essere uomo più di qualsiasi altro evento vissuto prima di adesso. Lui si chiama Gianni. Ha sempre fatto lavori che risparmiavano il fisico, e probabilmente per questo motivo, o per qualche fortunata combinazione genetica, dimostra meno anni di quelli che ha. Forse anche aver vissuto in maniera superficiale quello che gli succedeva attorno ha alleggerito il peso dello scorrere del tempo sul suo collo e sulle sue tempie. Mentre cammina sfilano nella sua testa pensieri, ricordi, decisioni, sogni. Un viaggio in treno.
Il viaggio impone musica ad accompagnare il paesaggio che cambia o impone silenzio e caos di pensieri. Se impone musica, impone qualcosa di incalzante.
Lo vedo, Gianni, uomo dalla ignota età ma ben noto destino, addormentarsi cullato dall'andare, con la musica di Ivano Fossati e i suoi treni a vapore, o quella oltreoceano di Eddie Vedder.
- On bended knee is no way to be free
Lifting up an empty cup I ask silently
That all my destinations will accept the one that's me So I can breath -
- In ginocchio non c'è modo di essere libero, Sollevando una tazza vuota chiedo silenziosamente Che tutte le mie destinazioni accettino quello che sono Così posso respirare -


Si avvicinava alla periferia di Milano uno degli ultimi temporali della stagione. Sopra di lui una pingue nuvola nera sembrava minacciarlo. Sembrava dirgli di tornare dentro - torna dov'eri e chiedi scusa - , lo rimproverava come fosse un bambino. O si rimproverava lui che non era mai stato più presente di così nella sua vita. Lasciava indietro palazzoni color mattone e cancelli alti: un luogo di cura che sembrava un carcere. Ma loro avevano promesso e nonostante questo non erano riusciti a liberarlo. Non poteva restargli che evadere allora, dalla sua malattia, o chissà, era stufo e voleva andarsene da sé stesso.
- Come già sa, la radioterapia non ha funzionato. Non siamo riusciti a sospenderne la crescita ma possiamo ancora rallentarla. La chemio è la soluzione che le proponiamo. Avrà uno scopo palliativo, le potrà dare un paio di mesi in più di quelli che ci aspettiamo -
Il suo talento era trovare sistemi di risoluzione non definitivi ai problemi. Il fisico aveva assorbito tutto quello che lui pensava di aver evitato e ora batteva cassa sotto forma di vita aliena. Di palliativo non voleva più niente. Si alzava il vento. La nuvola bussava alla finestra dell'ambulatorio. La poteva sentire urlare, la poteva vedere lanciare dardi di luce là fuori. Lui la percepiva dentro, ne sentiva il vento e l'elettricità, ne sentiva la voglia di scaricarsi. Urlò un vaffanculo potente come un tuono: al suo male, a quel posto, a chi gli aveva promesso di curarlo e ora provava a patteggiare con il destino

un paio di mesi in più. Persa la sfida, i suoi ex salvatori ora gli sembravano quasi annoiati dalla sua presenza. Sbatté la porta, al ritmo del temporale.
Era giorno di decisioni. Decise della sua morte, decise di perdere l'autobus, decise di ritrovare il verde elettrico di Parco Sempione bagnato dalla pioggia, decise di ritrovare il movimento dei suoi piedi. Qualcuno passeggiando con l'ombrello lo guardava, indeciso se offrirgli un riparo temporaneo o lasciarlo solo a salvarsi.
Nella strada verso casa gli venne in mente il viso dolce di sua madre. Lei era sempre stata padrona della sua vita, in ogni scelta, tranne quella di andarsene. La ricorda piccola, nel suo letto di ospedale, a rifiutare il cibo insipido e a sognare Venezia. Lui sapeva dove lei avrebbe voluto morire e non l'aveva mai accontentata. Un uomo non è mai pronto al riaffiorare dei rimpianti nello stesso modo in cui non sarà mai preparato a lasciar andare la propria madre.
Una coppia gli fece cenno di saluto e compassione da sotto la loro colorata cupola. Camminavano veloce. Lei ritornò a guardarlo una seconda volta. Le donne sono allenate a capire quando a bagnare un viso sono lacrime o gocce di pioggia.

L'ombra del molo tagliava geometricamente il riflesso del sole sulle onde della laguna. Qualche gabbiano sfidava il vento a portarlo più in alto di così. Gianni camminava calmo, le mani dietro la schiena e la cravatta allentata sopra alla camicia. Faceva caldo, eppure vedeva sua madre ostinarsi a tenere la coperta di lana. La sua stanza era alla fine della darsena e aveva la vista su uno dei punti più liberi della laguna, tanto libero da farla sembrare il mare. La ritrovò lì, nel suo letto enorme, fragile come una bambina che si era persa, a guardare le onde.
- Sei arrivato finalmente, ti aspettavo da tanto tempo - gli disse, aveva lo sguardo pensieroso e le sopracciglia a indicare la radice del naso - non sono certa di dove sono, ma ora mi hai trovata -
- Non ti sei persa mamma, siamo in ospedale, sei ammalata - - Ma cosa dici? Non vedi? Siamo a Venezia - la sua voce si faceva più acuta, perdendo anni d'età e di saggezza. La guardò. Il letto era scomparso e aveva le gambe a dondolare giù dalle morbide assi di legno, i capelli non erano più bianchi e aveva una palla in mano.
- Sai dove possono essere i miei genitori? Tu li conosci? - gli chiese. Lui pensò per un secondo.
- Non li vedo da un po'. Dove li hai persi? -
- Stavo giocando a palla e sono caduta in acqua. Giochiamo? - poi gliela lanciò e lui, preso alla sprovvista, la sentì impalpabile e la fece cadere fuori dal molo. Gli venne naturale tuffarsi a prenderla per lei.

Si svegliò madido di sudore nel suo letto, dopo quel tuffo, a Milano. Nelle narici l'odore pungente di sale e di alghe. Non vedeva il mare da almeno un decennio, ma lo ricordava bene da sognarlo in maniera così vivida. Probabilmente ne rimane una memoria ancestrale in ogni essere vivente, come rimane famigliare quella dell'odore del pino mugo in quota. Che sogno il suo. Era un ricordo sopito di una vecchia storia raccontata da sua madre, salvata dalle lente acque della città galleggiante. Voleva tornare lì a finire i suoi giorni. Voleva restituire il favore. Lui, mentre rideva del suo desiderio, la lasciava a morire a Milano. Che strana storia d'amore hanno l'abitudine e lo scorrere del tempo. Sembrano non poter fare a meno l'uno dell'altro, separandosi da tutto quello che resta di reale intorno.
Gianni ora stava scegliendo di lasciare l'abitudine. Aveva abbandonato il letto bagnato in favore del suo studio freddo. Non gli era mai stato chiaro come in quel momento quanto la sua casa rispecchiasse quella città. Dalla sua scrivania ne aveva una panoramica ingentilita dalla brezza estiva, presente del passato temporale: corridoi stretti si aprivano su ampie piazze; mobili modellati dalla robustezza di epoche passate sembravano ammorbidirsi di fianco a minimali arredi industriali; l'ordine esterno apparente, conviveva con il caos interno a cassetti e ante tanto simili ad affollati lounge bar, scenari di chiassose apericene. Seguiva le luci e le ombre notturne ritmate da qualche clacson e dal ronzio del frigo. Sotto al letto sfatto una valigia regalata e mai usata. L'idea del suo ultimo viaggio lo teneva seduto a guardarla. Finì lento uno scotch che gli scaldava le labbra e gli schiariva la gola,
nonostante la fuga non avesse bisogno di parole, ma di pensieri precisi e istintivi. Riempì in fretta la valigia con alcune cose essenziali per un viaggio senza biglietto di ritorno. Era quasi l'alba. Rifece il letto per un occupante che non sarebbe mai tornato ed uscì di casa, direzione Milano Centrale.

Appoggiato a riposare alla fine del binario c'era il suo treno rosso. Sopravvivere alla stazione di Milano la mattina assomigliava alla risalita di un salmone contro una corrente di uomini grigi e indaffarati. Non aveva nessuno da avvisare della sua partenza, forse solo qualcuno da conoscere al suo arrivo.
I treni erano cambiati dall'ultimo viaggio. Ripensò ai vecchi regionali. Universi paralleli di condivisione anarchica di spazio, tempo e sensi. Si lasciava il posto a chi non poteva viaggiare in piedi, ci si lamentava coralmente dei ritardi anche solo per il gusto della consuetudine, si stava vicini a sconosciuti ascoltandone la musica del walkman o leggendone furtivamente i libri, si annusava l'odore delle estati non climatizzate di allora e dei cessi sporchi, quando avevi la fortuna di trovare libero un sedile pieghevole vicino alla porta d'uscita.
Ora erano lui e il suo posto prenotato, marcia avanti, vicino al finestrino, e il dolore pungente dell'alieno che abitava il suo fegato. Una canzone diceva che di stazione in stazione il dolore passerà, lui ci credeva.
Guardava intorno a sè famiglie in vacanza e studenti pronti a ricominciare l'anno scolastico.
I bambini scrutavano il lago tenendo le narici premute contro il finestrino, immersi nella nebbia del loro stesso fiato. Uno ragazzo poco più grande di loro non staccava lo sguardo dal telefono e le scarpe dal sedile davanti. Decise di non badarci e di riposare un po' gli occhi.

Un signore sull'ottantina, sorridente e ottimista, lo svegliò con una gomitata probabilmente voluta.
- La vede la libertà? - chiese. Il bastone intagliato gli sorreggeva le mani e il mento.
- Come, scusi? - interrogò Gianni. Lo osservò. Non un accenno di barba, qualche accenno di tagli recenti. Le mani attorno al bastone tremavano leggermente.
- Il ponte della libertà. Le spiego: è l'unico accesso su ruote per Venezia. La storia vuole che sia stato chiamato così in occasione della liberazione dal fascismo. Negli anni, i veneziani hanno invece capito che era la via di fuga più facile per la terraferma, e sono rimasti in pochi. A me piace pensare il contrario. Non poteva chiamarsi in un altro modo. C'è il mare, anzi, scusi, la laguna che ci presenta Venezia, la più bella delle sue figlie. E lo fa facendoci passare nel suo grembo. -
Si girò e lo vide. Dopo tanti anni vide il mare. Ritrovò le creste delle onde bionde al sole. E la contraddizione di Marghera, con i suoi archi e i suoi camini, così simili a campanili e basiliche, che immaginarla in un Canaletto non era poi così difficile.
Il vecchio scomparve con l'apparire della città, con la fretta di vedere la sua amante di marmo e acqua. Doveva essere il primo a scendere. Il treno stava per tornare a riposare alla fine del binario dieci.

Eccolo Gianni, dall'alto della sua ultima vetta, guardare Venezia e la sua gemella liquida. Rimase immobile, pietrificato nel respiro e nel dolore, ad ammirare quella bellissima donna ornata di sete orientali e vetro soffiato. Un flauto di pan, poco più a valle, reinterpretava una canzone degli U2.
Ripresa coscienza, a piedi sicuri, percorse la scalinata in discesa, conscio di dover rientrare nella corrente affrontata poche ore prima, questa volta fatta di occhi a mandorla, ombrellini e bermuda colorate. Si ritrovò catturato, trascinato e lasciato andare, inebetito come fosse stato stuprato e privato del suo diritto di scegliere una destinazione.
Davanti a lui Fondamenta Cannaregio, una delle tante vie che costeggiano l'acqua. Seguì un uomo, il passo veloce, le basette nere fuori misura, infilarsi in un porticato incorniciato da vecchie travi in legno. Entrava nel Ghetto vecchio per poi arrivare, pochi passi e qualche profumo kosher più tardi, in quello nuovo. Era un campo enorme quello che aveva davanti, circondato da palazzi alti e scrostati e da muri spinati che tentavano di tenerne dentro amari ricordi. Protagonisti due pozzi e alcune panchine; all'ombra di larghe chiome, giovani discepoli studiavano attentamente la Torah.
Sopra ad un ponte stava immobile un ragazzo che non dimostrava più di vent'anni, con le spalle larghe incarcerate in una divisa a righe. Guardava dalla sua cima i movimenti di

Gianni da quando aveva messo piede nel ghetto, come un rapace da uno sperone che punta un capo lasciato indietro dal branco.
- Ti vol ‘na gondola? - chiese, le braccia incrociate e solo il mento ad indicare nella direzione dell'uomo.
- Sto cercando un posto per la notte - rispose Gianni.
Il gondoliere continuò a studiarlo per qualche attimo per poi scollarsi dal parapetto e fargli cenno con la testa. Voleva essere seguito. Gianni restava indietro di qualche passo a guardarlo. Teneva le mani in tasca e il mento basso a mirare dove mettere i piedi, forse più sicuro del suo equilibrio su una barca che a terra. Rigirava tra le labbra uno stuzzicadenti.
- Semo rivà. Questa xè la Tuga. Dì alla Sabri che te mando mi, me ciamo Alvise. Forse se te ghe piasi te lassa dormir in una de le so stanse -
Il cantilenante e ciclico cambio di intonazione all'interno di uno stesso pensiero, rendeva la sua parlata simile al formarsi e all'infrangersi delle onde nelle loro ordinate ripetute. Era come se il dialetto veneziano, dissimile in cadenza dagli altri dialetti regionali, fosse creatura anch'esso del mare.
- Come posso ringraziarti? - chiese.
- Una de ste sere ti verà in gondola con mi - sorrise per la prima volta. L'uomo gli sorrise di risposta, e gli fece un cenno di saluto col capo.

Fuori dalla Tuga erano allestiti dei coperti su due grandi botti restaurate. Gianni vi si accomodò per guardarsi un po' intorno nell'attesa dell'oste. La testa della sua botte aveva i segni di serate fatte di aloni di vino rosso e sigarette spente male. Nel canale, ormeggiata davanti a lui, una lunga e colorata barca in legno portava la scritta Tuga al mascone di dritta.
- Desidera bere qualcosa? - alle sue spalle ancora l'infrangersi di onde, ma questa volta di sottofondo, femminile e senza alcuna traccia di dialetto.
- Buongiorno, lei deve essere Sabrina. Ho chiesto ad un gondoliere poco fa un posto dove mangiare e fermarmi per la notte. Mi ha portato da lei. Si chiama Alvise - .
Lei sorrise scostando i lisci capelli neri da un angolo della montatura rossa, e lo invitò all'interno a scegliersi il pranzo.
Il bancone in legno intagliato e laccato con la sua pancia piena di crostini erano i protagonisti della Tuga. Sulla destra una stanza con pochi tavolini e alcune sedie spaiate. Era facile immaginare il locale pieno di ragazzi durante l'orario dell'aperitivo. Dietro la vetrina un cartello: 1 euro e 50 a cicchetto, 10 euro x 10 cicchetti.
- Per cicchetto qui intendiamo tutto quello che può accompagnare bene un calice di vino. Ma se vuole un piatto caldo basta chiederlo - lo anticipò e lui scelse cosa mangiare. La sua prima ora a Venezia aveva preso il sapore di baccalà

mantecato e fiori di zucca, accompagnati da un'ombra di bianco fermo, come la chiamava lei.
Sorseggiando l'ultima goccia di vino diede un'occhiata furtiva al cellulare. Trentasette tra messaggi e chiamate perse. Trentasette volte in cui veniva richiesta la sua presenza. Trentasette occasioni per dire di no al lavoro dopo trent'anni in cui era stato la sua unica ragione di vita. Nel tempo di una risata di Sabrina il cellulare scomparve nell'acqua.
Gianni riprese il disegno che stava facendo sulla tovaglietta davanti a lui.
- E' un molo che conosce? - chiese la donna, guardandolo e facendo posto sul tavolo.
- Da sempre, ma non l'ho visto mai. Da oggi lo cerco. Mia madre cadde in un canale da bambina e riemerse qui. Abbandonò la vita tra i dolori di un male incurabile al fegato e alle ossa. Avrebbe voluto tornarci. Sono venuto a capire il perchè - si aprì con l'oste.
- E' perchè ora è malato lei, dico bene? - Il silenzio le diede ragione, continuò - Tra gli anziani di laguna si narra di un molo vecchio. Ne parlano con timore e rispetto, lo stesso tono che usano per raccontare del mare. Si dice segni il Confine, e che esista da quando esiste Venezia. Lei è venuto a vedere il Confine? - lo fissava vicina, i gomiti appoggiati alla botte
- Forse sono venuto a cercare qualcuno per cui provo malinconia - rispose.

- O forse a rispettare una promessa mai mantenuta - Gianni non parlò, ma dentro di sé si chiese come riuscisse a leggerlo in quel modo.
- Dove lo trovo? - fece un tentativo.
- Nessuno lo sa con precisione. Compare solo a chi sa perdersi, come ad un bambino. La sua storia mi interessa. Diceva che voleva una stanza per la notte? Resterà qui da me, se le va. Ho un grande appartamento sopra l'osteria. Una camera è già occupata da un ragazzo, una da me, per l'altra le preparo le lenzuola. Cosa dice? Ha bisogno di riposarsi e di capire a che punto del suo viaggio è arrivato. Le do le chiavi. -
L'uomo pensò che Sabrina sarebbe stato il nome ideale per un uragano, un vento in burrasca che ti trova impreparato, alla deriva, dopo cinquant'anni di bonaccia.

Vicino alla cucina, dietro al bancone, si nascondevano dal loro stesso scricchiolio le scale che portavano all'appartamento. Tra marmo e tappeti persiani, si accucciava placido un sofà di velluto rosso dalle zampe di legno scuro. Tutt'intorno una parete vestita di scaffali affaticati dal peso di decine di libri e di vinili. Non c'era traccia di televisione. Si tolse le scarpe in reverenziale rispetto per quello che lo circondava.
"Non vedo la cucina" osservò.
"Si sbaglia, l'ha già vista, è quella della Tuga. E' a sua disposizione, a qualsiasi ora del giorno" La faceva sembrare un'ovvietà, e lui si sentiva stupido. Poi indicò, con un dito con più nocche che carne, una porta dietro al divano "Quella è la stanza del ragazzo di cui le parlavo. Finora è stato molto silenzioso. La sua è dietro a questo specchio. Per qualsiasi cosa, mi trova o all'osteria o nella mia stanza, al piano di sopra". Gli porse delle lenzuola morbide, tirate fuori dalla cassettiera in cima alle scale "Non si preoccupi per il compenso, ne discuteremo. Ci vediamo più tardi" aggiunse.
"Allora grazie Sabrina, di tutto"
"Resti concentrato su quello che deve fare"
Restare concentrato su quello che doveva fare. Si rivolse allo specchio, antico quanto la figura che incorniciava,

ritrovandone la sua immagine, dopo ore, modellata con una pessima cera.
La stanza era chiusa da un po' e si sentiva. Accendendo la luce per farsi strada la trovò calda e familiare, ma è solo quando decise di aprire gli spessi scuri alle finestre che si accorse della sua vera anima: una spina dorsale lignea la percorreva da terra a cielo. Il pavimento in parquet, lo scrittoio, il soffitto a cassettoni, passando per un altezzoso baldacchino. Lo immaginava geloso osservatore di intense notti d'amore. Il bagno, al contrario era timido e cieco. Sullo scrittoio una cartina della città e una risma da cinquecento fogli bianchi: cento barchette, cento aeroplani, cento cappelli, qualche gru orientale e magari, con quello che resta, un libro sulle storie di almeno cento vite andate meglio della sua.
Restare concentrato su quello che doveva fare.
Capire a che punto del viaggio era arrivato.
La cartina vestiva perfettamente lo scrittoio e lo fece sorridere quando si rese conto, sovrapensiero, che Venezia sembrava un pesce. Ci mise poco a trovare la Tuga, ancora meno a capire che aveva bisogno di coricarsi in fretta per placare l'avanzata di quel dolore così nuovo e così atteso. Forse la morte avrebbe rubato il compenso di Sabrina.
Prima di perdere i sensi la immaginó a trovarlo lì. Pregó di scomparire in quella spina dorsale, magari trasformarsi in uno dei tralicci di vite scolpiti sul baldacchino, per non esserle di peso.

Qualche ora dopo lo svegliarono le onde, spinte sulle fondamenta dalle barche che passavano piano. Dalla finestra scorse un uomo, in piedi al limite del canale, imitare il politico di turno facendo ridere gli amici, accomodati a bere un amaro e a fumare l'ultima sigaretta della nottata sulla lunga barca in legno. Sabrina cercando la luna incroció il suo sguardo e gli parve sollevata. Pensó che per una sera avrebbe voluto essere la sua ultima compagnia, prima di andare a riposare.

Crollò in un sonno senza sogni. Lo risvegliarono la luce intensa di un giorno già avviato e il rumore del carrellino di una vecchia signora, colmo di pane fresco e di frutta. Venezia come Milano era umida e calda. Il cielo si teneva per sè il sole, lasciandone andare solo il calore e nascondendone forma e luce dietro ad una coltre liquida quasi palpabile.
Trovò Sabrina già sveglia al piano terra, a preparare un Earl Gray di accompagnamento ad invitanti biscotti a forma di esse. Le disse che avrebbe cominciato a perlustrare la città, magari come fanno i turisti. Lei gli rispose che era saggio conoscere il nemico e gli chiese di salutarle San Marco.
- È da molto che non ci vado, troppa gente. Tempo fa avevo provato la sera, ma i mosaici della basilica meritano la luce del giorno. Magari più tardi mi racconta come l'ha trovata. Le faccio assaggiare una delle mie pozioni e ci smezziamo una sigaretta. Sa, sto tentando di smettere - . Gli sembrò un programma ben fatto.
Imbastì un itinerario fatto di punti e di ponti d'interesse che nel suo primo tratto correva parallelo per poi ricongiungersi con Strada Nuova e il suo fiume di turisti. Provò a contare ogni pozzo di ogni campo e i gradini di ogni ponte attraversato, salutó con un cenno un cane che portava in giro il suo padrone, e scommise con sè stesso sulla taglia del reggiseno appeso sopra di lui, assieme al resto della biancheria di una formosa e profumata casalinga veneziana. Pochi passi più in là la metropolitana umana lo attendeva per

portarlo a San Marco. Del tragitto dal reggiseno ai leoni gli rimase impressa la luce dei negozi di murrine, il suono di un'armonica, un cappello a terra pieno di monete e forse l'odore di un fast food.
San Marco era un abbraccio di archi e di colonne, di bar di lusso dorato e di pianisti in livrea.
L'Accademia era la scenografia di un pronao. Il lungo ponte di legno filtrava il lento incedere al mare della laguna. Gli ricordava il Millennium Bridge con Saint Paul sullo sfondo.
Ogni tanto si faceva sentire un amaro rimprovero dal fegato.
Nella tappa successiva vide il mercato del pesce, a quell'ora ormai vuoto se non per l'odore e il ghiaccio sciolto sopra ai banconi dei mercanti. Poco dopo Rialto rispose alla sua fame una pizzeria. Il cameriere lo accolse di buon grado, come si accoglie in pieno centro storico un turista straniero con calzini di spugna e borraccia al collo. Aveva i denti bianchi a contrasto con la pelle di un caffèlatte sorseggiato sulla via del Pakistan. Trenta euro pizza e Coca Cola. Senza borraccia e calzini forse la metà.
Sulla strada del ritorno ritrovò l'odore di fast food, il suono di un violino, qualche luce di un negozio. Il sole si stava già ritirando, cogliendo Gianni di sorpresa alla fine di una delle ultime giornate della bella stagione. Il reggiseno non c'era più e i cani facevano la guardia al loro fazzoletto d'erba, in attesa di qualche avanzo della cena. Si intravedeva la Tuga alla fine dell'ultimo ponte.

Atto secondo

Sabrina

Interessante la definizione di oste data dalla Treccani. Cito: padrone o conduttore di un'osteria o di una locanda dove si trova vitto e alloggio, tradizionalmente spesso inteso come persona disposta a fare i propri interessi a discapito di quelli degli avventori.
Sabrina aveva deciso di ospitare nella sua locanda persone scelte da lei, riconoscendone bisogni non espressi o forse leggendone un destino preciso di cui sapeva di dover far parte. Non è dato sapere se ospitare Gianni senza chiederne compenso le portasse qualche interesse a favore. Di Sabrina non si può sapere molto, forse solo che lei conosce molte cose. Sa come accogliere un cliente, sa come abbinare un vino di casa al caviale e un millesimato allo stoccafisso, sa interpretare le linee di una mano e le figure dei tarocchi, sa abbinare la musica giusta all'uomo giusto. E l'avventore se ne innamora perdutamente ancora prima di capire chi si trova davanti.
Un'oste o una strega.
Interessante la definizione di strega data dalla Treccani. Cito: secondo la mitologia popolare, essere soprannaturale immaginato con aspetto femminile o donna reale che dirige gli eccezionali poteri che le vengono attribuiti ai propri interessi a discapito di altre persone.
Non siamo qui a giudicare la moralità di un personaggio, ma il suo rapporto con i bisogni del nostro protagonista, al dì là del bene e del male.
Per Sabrina e per l'atto dedicato a lei vedo bene Paolo Conte.

- Via via, vieni via con me. Entra in questo amore buio, non perderti per niente al mondo. Via via, non perderti per niente al mondo lo spettacolo d'arte varia di uno innamorato di te -
Rosa Santi
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