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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: Leonardo Intiso
Titolo: Un ragazzo di sessant'anni
Genere Biografico
Lettori 970 2 2
Un ragazzo di sessant'anni
Amori.

Stavo volando verso la vita, credendo di essere tutto ma, invece, non ero niente. Tenendo conto dei consigli, esempi e giudizi altrui, cominciavo una delle esperienze più preziose della mia vita. Avevo chiuso il cancelletto della mia infanzia non sapendo che tutto quello che sarebbe accaduto non lo avrei deciso io ma sarebbe successo e basta. Cominciavo ad assaporare il gusto di vivere tutte le emozioni che il caso della vita mi avrebbe proposto. Le poche volte che mi capitava di restare in casa, passavo il mio tempo sdraiato ad ascoltare musica, viaggiando con la mente. Quella stessa musica che, ancora oggi quando mi capita di riascoltare, fa affiorare il colore dei ricordi.
Indossavo la cuffia, mi avvicinavo all'impianto stereo, sceglievo accuratamente il vinile e lo facevo partire con tutta la delicatezza possibile e, appena il brano iniziava, mi lanciavo nell'astratto, per scaldare la mente. Nel preciso momento in cui il motore dei neuroni arrivava a temperatura, tornavo nei pensieri quelli veri. Spesso mi chiedevo come avrebbe potuto essere la mia donna ideale. Volevo innamorarmi di qualcosa che neanche conoscevo, mi preparavo ad affrontare passioni travolgenti, iniziavo a scolpire con la mente delle figure a cui cercavo di dare un volto, immaginando un sorriso bianchissimo, occhi grandissimi, un profumo inebriante ed altri attributi paragonabili a creature mitologiche che avrebbero allietato qualsiasi sguardo.
Come uno scultore, appena finivo di assemblare tutte le tessere del mosaico, puntualmente il brano finiva. Mi risvegliavo dal giaciglio della mente e tutto svaniva. Appena rilasciavo il braccio con la puntina sul vinile, il brano ripartiva e cercavo di tornare indietro con i pensieri per ricomporre la creatura appena scolpita. Entravo in un'altra dimensione lasciandomi solleticare da quella straordinaria perfezione di cui solo io potevo beneficiarne. Vivevo in anticipo le giornate, le stagioni e gli stati d'animo, iniziavo a vivere di quella speranza senza pause o riflessioni. Ero pittore della mia vita, mi sdraiavo sotto cieli stellati, camminavo sotto il sole e mi coprivo di nuvole. Mi perdevo tra i profumi primaverili e mi riparavo dai temporali estivi. Mi imbrattavo di foglie autunnali e mi nascondevo tra le nebbie invernali. Sempre alla ricerca di un soggetto da immortalare, illudendomi che quel lasso di tempo sarebbe durato per sempre. Puntualmente, la musica finiva e quel tempo era trascorso. Alla lunga mi accorsi che nessun periodo era abbastanza lungo, quello fu il periodo in cui mi innamorai di più.
Vedevo amore in ogni sguardo o sorriso, abbraccio o parola, cercavo l'amore, quello vero, unico, di quelli che non finiscono mai. Vivevo giornate uguali, alcune passavano lentissime come nuvole nei pomeriggi d'inverno. Per ravvivarle mi infilavo dentro i sogni, riuscendo così ad entrare in giardini incantati, dove anche le ombre apparivano seducenti. Ma poi, appena mi risvegliavo mi trovavo a riprendere il cammino della realtà, sempre più nuovo e misterioso, che solo l'adolescenza ti fa percorrere. Quel viaggio che molti hanno percorso e molti altri dovranno percorrere. Una tappa della vita a cui nessuno si può sottrarre. Io la stavo vivendo, calpestando le orme di chi mi aveva preceduto. Un viaggio meraviglioso, in cui andavo avanti divertendomi, eccitandomi, soffrendo e rischiando anche la sorte, a volte.
Era la vita che mi stava accarezzando e che sarebbe cominciata con tutte le sue sfumature. Si è sempre detto che quella è la fase più bella, dove sentimenti e stati d'animo hanno il permesso di variare in un istante cambiando il colore delle giornate. Rimanevo costantemente seduto sull'altalena delle possibilità che avrei meritato o mi sarei semplicemente ritrovato. Ero sempre alla ricerca del tutto, vivendo quel periodo di smarrimenti e incertezze che mi sarebbe servito a trovare la consapevolezza di me stesso e del mondo in cui stavo per vivere rischiando.
A volte, ho rischiato di perdere l'identità e la sicurezza che mi era stata donata durante l'infanzia non sapendo che cosa mi sarebbe accaduto o cosa sarei potuto diventare e col timore di non riuscire a superare anche il più piccolo degli ostacoli.
L'estate lasciava sempre posto a giornate più lente e colorate di rosso autunnale. La scuola ed il lavoro impegnavano le giornate di ognuno, rendendo deserto il palco di quel teatro.
Era pomeriggio inoltrato e tornando verso casa stavo camminando su un marciapiede non molto largo dove ci si passava a malapena in due. A distanza di qualche centinaio di metri vidi arrivare due figure femminili. Due ragazze che indossavano cappotto nero, jeans ed anfibi. Cominciai a darmi un tono e ad assumere aria di sufficienza, come ero solito fare quando incrociavo persone dell'altro sesso. Mentre si avvicinavano, notai che una aveva capelli nerissimi, lunghi boccoli e due occhi verde smeraldo, l'altra invece li aveva lisci dorati e occhi azzurro chiaro. Camminavamo l'uno verso le altre e notai che erano impegnate a conversare tra loro. La morettina, probabilmente, stava spiegando qualcosa di complesso all'altra, sorridendo e gesticolando. Notai subito le sue lunghe dita e le mani che danzavano in una spiegazione. Rallentai il passo per gustare meglio lo spettacolo e, nel frattempo, continuavano a camminare con passo spedito verso la mia direzione. Confidai in una loro deviazione o rallentamento, proprio per riuscire a passare almeno in due sul piccolo marciapiede. Decisi di rallentare il passo, per cedere loro lo spazio, ma vista la velocità con cui stavano giungendo, l'impatto sarebbe stato inevitabile. Cercai di fermarmi, ma ormai eravamo l'uno di fronte all'altra e mi trovai con il viso a qualche centimetro di distanza dalla ragazza coi capelli neri, che non si era accorta di nulla e non desisteva a fermarsi o ad interrompere la sua impegnata conversazione.
Tentai di spostarmi velocemente verso l'esterno del marciapiede, ma non feci in tempo, perché lo spazio era talmente poco che me la ritrovai tra le braccia. Cercò di scansarsi anche Lei spostandosi verso l'interno, ma appena si spostava, io facevo esattamente la stessa cosa come se non volessi farla passare. Sembrava un gioco, ci fermammo molto vicini e ci guardammo negli occhi. I suoi erano di un verde imbarazzante talmente erano belli. Cominciammo a ridere e scusarci, cercai di spiegare che non era mia intenzione trattenerla. Rimasi colpito dallo sguardo e dal suo sorriso. Rimanemmo in silenzio per qualche istante, fissandoci. Ebbi come la sensazione che il tempo si fosse fermato. Vedevo il tutto intorno a me muoversi lentamente. Continuavo a rivivere quella scena a rallentatore. Rivedevo quel sorriso, quello sguardo, le sue mani, i suoi capelli, la sua voce e le sue labbra.
Fu come averli conosciuti da sempre!

L'altra ragazza continuava a ridere e a scusarsi, Il tutto durò qualche secondo, troppo poco. Le tranquillizzai, definendo l'episodio simpatico e le ringraziai per aver ravvivato quel grigio pomeriggio autunnale. Scambiammo ancora qualche convenevole e ci salutammo riprendendo ognuno il proprio cammino. Feci alcuni passi e mi voltai, rimasi lì, immobile a vederle andar via. Le vidi dissolversi dietro l'angolo in fondo alla strada, sembrava la scena finale di un film. Avrei voluto rincorrerle per chiedere i loro nomi e se fosse stato possibile rivederle, spiegando che quell'episodio, anche se breve, era stato intenso. Cominciai a sorridere da solo come uno stupido, continuando a pensare al verde imbarazzante di quegli occhi che erano entrati dentro di me.
Mi resi conto che qualcosa stava per cambiare, iniziai a sentirmi strano, diverso, quasi euforico, allungai il tragitto prima di rientrare a casa, volevo ripensare ancora a quella situazione. Dovevo smaltire quella sensazione di euforia mista ad imbarazzo.
Arrivai in casa e mi fermai davanti allo specchio, nonostante vedessi la mia immagine riflessa, non riuscivo a riconoscermi, mi vedevo come sdoppiato, mi sentivo diverso da quello riflesso. Lui era certamente migliore, più sicuro, affascinante e innamorato. Nelle ore seguenti continuavo a rivivere quella scena, non sapevo neanche il suo nome e già mi mancava, dovevo rivederla.
Dovevo parlarle, dirle tutto quello che mi stava accadendo. Avrei voluto rincontrarla subito, ma dovevo anche studiare tutto alla perfezione, perché nulla potesse andare storto, proprio perché quei momenti sarebbero rimasti indelebili in me, ne ero convinto. Sentii crescere l'emozione, il cuore stava accelerando i suoi battiti. Stranamente, mi sentivo più forte, come una molla in pressione. Da quel momento in poi, avrei dovuto fare i conti col tempo che sembrava non passare mai. Non avevo idea di dove come fare per ritrovarla. Ma dovevo rivederla a tutti i costi!
Tornai il giorno seguente sullo stesso marciapiede, con la speranza di rivivere quel momento e fermarlo per sempre. Ma di Lei nessuna traccia. Ritornai nei giorni successivi, ma ogni tentativo risultava vano. Un pomeriggio decisi di metter fine a quella disperata ricerca, tornando per l'ultima volta su quel dannato pezzo d'asfalto. Mi fermai alcuni minuti sul bordo e poi iniziai a picchettarlo per un paio d'ore, senza risultato. Mi diedi un tempo, guardai l'orologio e decisi che, quando la lancetta grande avrebbe raggiunto quella piccola, me ne sarei andato e non sarei più tornato. Consumai il quadrante a furia di guardarlo, buttai un occhio per l'ultima volta, mancavano solo tre fottutissimi minuti che avrebbero dettato il corso della mia giovane vita. Se solo avessi avuto il dono di fermare il tempo, avrei bloccato quelle maledette lancette. Mi sentii persino ridicolo, mi insultai da solo. Decisi di abbandonare quella maledetta strada ma la vocina stronza, che è in ognuno di noi, mi diceva di aspettare.
Ascoltai il consiglio della vocina ed aspettai ancora qualche minuto appoggiato con la schiena al muro, fissando tutte le pietruzze che formavano l'asfalto. Alzai lo sguardo verso la fine della strada dove quel pomeriggio la vidi svanire. Era diventato quasi buio e, deluso dal consiglio della vocina stronza, stavo per andarmene quando vidi in lontananza una figura femminile che camminava verso la mia direzione. “Figurati se è Lei!” Pensai. Feci finta di nulla e iniziai a camminare dall'altro lato della strada andandole incontro, tirai fuori dal cuore tutti i superpoteri che quel sentimento mi aveva donato, sperando che mi fossero d'aiuto nel farla apparire davanti a me. Dopo tutto quel tempo me lo sarei meritato. Mi concentrai incrociando le dita delle mani infreddolite, nascoste in tasca, sperando che quella figura si materializzasse.
Ero incredulo, sembrava proprio Lei! “Allora i superpoteri avevano funzionato!” Pensai. Attraversai per tornare dall'altro lato continuando a camminare. Sorridevo come un ebete, avvicinandomi sempre di più. Lei mi vide arrivare e mi salutò con un sorriso, era brava a farlo, “Ma sei tu?!?”. “Si! sono proprio Io!” risposi. Volevo dirle tutto ma non mi uscivano altre parole dalla bocca, passarono interminabili secondi e la salutai. Mi presentai e riuscii finalmente a chiederle il suo nome. Ci stringemmo la mano come due persone che si stanno per conoscere meglio. Le chiesi se era possibile accompagnarla per un pezzo di strada. Lei acconsentì sorridendo. Fosse stato per me, l'avrei accompagnata fino alla fine del mondo e ritorno. Iniziammo a camminare ed iniziai a farle le solite stupide domande per rompere il ghiaccio. Ad ogni domanda mi rispondeva a monosillabe ma sempre sorridente. Sembrava timida, riservata e dai modi eleganti.
Arrivammo a pochi metri da un incrocio con semaforo e si fermò. Con sguardo rassegnato, mi disse che era giunto il momento di salutarci. Quel gioco che mi stava solleticando il cuore era già finito!
Il semaforo da verde diventò giallo e subito dopo rosso. Mi rimaneva qualche secondo per salutarla e chiederle di rivederci. Mentre aspettavo una sua risposta, speravo che quel semaforo rimanesse rosso per sempre. A volte i semafori si incantano ma, purtroppo, in quel momento non accadde, e diventò verde.!
“Non so quando sarà possibile, però, faccio spesso questa strada per tornare a casa.” Mi rispose. Per fortuna esisteva il giallo che scattò velocemente e il rosso successivo mi diede soddisfazione. Lei mi guardò ancora per qualche istante, mi disse “Ciao ora devo andare.”
Arrivò puntuale il verde e attraversò. Rimasi immobile guardandola svanire tra la nebbia. In quell'istante, mi resi conto che non per forza il primo bacio viene dato con la bocca, il mio primo bacio lo avevo dato con gli occhi.
Ero un po' triste ma anche contento, perché quel saluto fu come un arrivederci e non un addio.
Tornai verso casa, improvvisamente tutto mi sorrideva, allungai ancora una volta il percorso, avevo voglia di camminare ancora un po'. Stavo bene, vedevo il mondo cambiare intorno a me, le persone che incrociavo sembravano sorridermi, ebbi nuovamente la sensazione di sentirmi diverso, stavo vivendo qualcosa di unico ed infinito. Continuavo a pensare al momento in cui l'avrei rivista. Arrivai davanti al portone di casa, feci un grosso respiro, suonai il citofono, non presi neanche l'ascensore, cominciai a salire tutti e tre i piani a piedi, tre gradini alla volta, avrei voluto urlare come un matto. Entrai in casa, salutai tutti velocemente e mi diressi subito in camera. Infilai le cuffie del walkman e feci partire la musica, chiusi gli occhi e diventai spettatore di quel film meraviglioso.
Passeggiavamo tenendoci per mano sulla sabbia color nocciola in riva all'oceano, con la brezza marina che ci avvolgeva. Il cielo carico di grigio, con pennellate più o meno intense. Riuscivo a cogliere il suo profumo, era simile all'essenza dei fiori di primavera. Parlavamo, giocavamo a rincorrerci fino a rimanere senza fiato cadendo in acqua, bagnati fradici poi uscivamo dall'acqua e facevamo la lotta. Vinceva quasi sempre Lei, per farsi perdonare con le dita disegnava dei cuori sul mio viso, sentivo la sua pelle accapponare, poi la stringevo a me per proteggerla dal vento. Tra un brano e l'altro, riaprivo gli occhi, cercando di ricordare il suo viso ma la sua immagine mi sfuggiva.
Il giorno seguente, più o meno alla stessa ora, tornai sul marciapiede sperando di rivederla, aspettai per quasi due ore inutilmente, provai ad usare ancora i superpoteri, ma quella volta non funzionò. Provai a ripassare nei giorni seguenti in Vespa, con le mani congelate dall'incrocio dove ci separammo l'ultima volta. Addirittura una volta mi si spense la Vespa perché, a furia di girare in tondo per l'isolato e senza accorgermene, avevo finito la miscela. Come un cretino in mezzo all'incrocio dovetti spingerla fino al primo benzinaio ma di Lei neanche l'ombra e, forese, in quel caso fu meglio. Ripassai ancora per qualche giorno, ma non servì a nulla era come sparita. Le giornate trascorsero lente, monotone, mi chiesi se l'avrei più rivista, vivevo giornate vuote, con l'ansia e il timore di non riuscire più a vederla. Mi ero illuso, quello probabilmente era un addio non un arrivederci. Cominciai a cercare disperatamente i suoi occhi imbarazzanti e quel sorriso fantastico tra la folla, nelle auto in corsa, nei bus, davanti alle scuole, dentro ai negozi, tra gruppi di ragazzi ma non riuscii a trovare nulla. Ero oramai rassegnato, non ci speravo quasi più. Pensai che, se quello era il prezzo da pagare per l'amore, allora avrei preferito odiare.
Passarono alcune settimane, la morsa dell'inverno iniziava a stringere, avevo perso ogni speranza, cercavo di pensare ad altro che potesse distrarmi da quel pensiero fisso ma era difficile rimuovere quel sentimento. Un pomeriggio, per caso, mi ritrovai a camminare sullo stesso marciapiede, ero andato a prendere dello zafferano per mia madre in latteria dal Signor Luigi dove spesso, anche da piccolo, andavo a comprare caramelle e patatine. Per mille motivi quindi conoscevo bene quel marciapiede. Camminando soprappensiero, con lo sguardo fisso davanti a me, sentii alle mie spalle una voce familiare, “Ciao”. Mi voltai e rimasi come imbambolato davanti a quegli occhi verdi che indossavano un cappottino rosso.
“Ciao, come stai? E' un po' che non ci si vede!” le chiesi, fingendo la mia disinvoltura ma avevo il cuore in gola. Lei, sorridendo, col naso e le gote arrossate dal freddo, mi rispose “In effetti...”. Avrei voluto stringerla forte, tenerla stretta a me per non farla andare più via. Invece, non riuscivo neanche a parlarle, non volevo si accorgesse di quanto avessi sofferto e di quanto fossi felice di averla rivista.
Stranamente, iniziò a parlare Lei per prima. Mi spiegò che erano state settimane difficili, per via della scuola superiore appena iniziata e che, nel poco tempo libero a disposizione, doveva badare a sua mamma che si era ammalata. Fece una pausa, riprese fiato e ricominciò dicendomi che i suoi non erano molto elastici nel farla uscire da sola, specialmente in inverno. Le feci finire la frase e le chiesi quanto tempo avesse a disposizione. Mi rispose, che poteva stare fuori ancora un'oretta. Non credevo alle mie orecchie, mi sentii come un bimbo il giorno di Natale. Iniziammo a camminare in silenzio, sfiorandoci con le braccia. Cercai di rompere quel timido silenzio, iniziando a raccontarmi gesticolando come fa un giocoliere al circo. Lei rideva incredula alle mie parole, stavamo bene. Parlammo di tutto quello che ci venne in mente. Tutto quello che potesse servire a farci conoscere ma con la sensazione di saper tutto l'uno dell'altro a memoria.
Senza accorgercene deviammo il percorso per una piccola strada, complici degli alberi e un grande giardino, ci fermammo a metà e ci sedemmo alla prima panchina. Continuavamo a scambiarci complimenti, ridendo della nostra quotidianità. Poi, tornammo a tacere, i nostri sguardi si incrociarono ed iniziarono a raccontare quello che le nostre voci non riuscivano a fare. Morivo dalla voglia di baciarla ma avevo timore di farlo. In quel momento mi venne alla mente un episodio che mi capitò tempo addietro. Stavo viaggiando in treno da solo per la prima volta verso la Puglia. Mi ritrovai nello scompartimento con uno sconosciuto aveva forse un paio d'anni in più di me. Iniziammo una conversazione dedicata ai casi della vita, della fortuna ed altre storie vissute che sembravano accomunarci. Alla fine della conversazione, il tizio mi disse: “Se desideri qualcosa, conta fino a tre e poi prenditela. Perché se cominci a pensarci, alla fine non lo farai più. Fidati, ti cambierà la vita!”. Avevo parlato quasi sempre io, decisi di tacere per paura di essere diventato pesante. Lei mi stava esaminando, sentivo i suoi occhi verdi su di me, poi la sua voce interruppe il mio silenzio, mi disse che dopo il nostro ultimo incontro non ricordava più il mio viso, che aveva pensato spesso a me e che aveva tanta voglia di rivedermi.
Quelle parole mi riempirono il cuore, mi sentii di colpo euforico. Non mi aspettavo una dichiarazione così! Mi sentivo bene e con voce tremante le risposi che era capitata la stessa cosa anche a me. Dopo quella complicità di pensiero, le nostre mani iniziarono a cercarsi. Mi feci coraggio e la tirai lentamente verso di me, l'abbracciai forte e posai le mie labbra sul suo collo, appena sotto l'orecchio, e cominciai a baciarla delicatamente. Sentii pulsare il suo sangue e il battito del mio cuore accelerare. Il suo profumo fruttato mi inebriava. In quel bacio c'era tutto. Lei non si oppose, rimase immobile, poi si strinse forte al mio collo, la allontanai, le presi il viso tra le mani e cominciai a baciarla su quelle labbra che avevo tanto sognato. Ogni mio sentimento stava vivendo in funzione di Lei. Ero inconsciamente in bilico su di un cornicione dove cadere non era poi così difficile. Non ero consapevole di quanto male avrei potuto farmi. D'altronde, non era neanche colpa mia: in fondo, era la prima volta che vivevo un sentimento così forte. Non avevo nessun margine di paragone con cui potermi confrontare. Come non avrei mai saputo, quello che sarebbe potuto succedere un istante dopo. Stava succedendo e basta.
Non avevo il coraggio di guardare l'ora ed avevo il terrore che Lei mi chiedesse di andare. Quel tempo era volato. Riprendemmo a camminare naturalmente, tenendoci per mano in quel silenzio che custodiva miliardi di parole. Arrivammo alla fine della piccola via, storditi da quello che era successo. Ero già in anticipo sui pensieri, dovevo sapere quando l'avrei rivista. Interruppi nuovamente quel silenzio e glielo chiesi. Mi rispose senza esitare, la sua voce era leggermente rauca, per via dell'emozione “Domani, fuori dalla mia scuola.” La accompagnai in vicinanza del solito incrocio. L'emozione di averla vicino mi scorreva per tutto il corpo ma il timore di lasciarla correva più forte. Il mio cuore era tra le sue mani. Prima di salutarla, le strinsi forte la mano e le diedi un bacio delicato sulla fronte, come si fa con i bimbi prima di rimboccargli le coperte. Mi fece un ultimo sorriso e se ne andò. Quel sorriso rimase stampato nella mia mente per parecchio. Tutto aveva preso forme diverse, la magia si era compiuta. L'amore, ora, aveva un volto ed un nome. Si era ripetuto il miracolo che da milioni di anni si ripete, quello che ti fa arrossire, soffrire, sognare. Ti fa crescere, ti dà il coraggio di cambiare vita e ti spinge a credere che la felicità esiste. Era il primo grande Amore. Quello che, come dicevano i nostri Nonni, non si scorda mai.
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