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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Aurora Pagano
Titolo: Nel nome del viola
Genere Romanzo Storico
Lettori 758 1
Nel nome del viola
Castello di Montefiore e terre malatestiane.
anno 1359

L'aspettata vertù, che ‘n voi fioriva
quando Amor cominciò darvi bataglia,
produce or frutto, che quel fiore aguaglia,
e che mia speme fa venire a riva.

Pandolfo recitava ispirato, stringendo gli occhi obliqui sulla pergamena che teneva dispiegata davanti a sé.
Percorreva la sala con ampie falcate ovattate, grazie alle preziose poulaine bianche e rosse, in tono con le calzebrache, secondo la moda di Borgogna. Pareva non levasse lo sguardo oltre lo scritto e, tuttavia, riusciva a schivare i bordi frangiati del prezioso tappeto d'oriente decorato con ricchi ornati geometrici a losanghe che, dall'entrata principale, come uno splendente nastro dai cromatismi cangianti, tagliava la sala in tutta la sua lunghezza, fino al massiccio trono di legno intarsiato, rivestito di un cuscino di seta, anch'esso a bande rosse e bianche.
Aveva acquistato per trecento ducati il ricercato manufatto pochi mesi prima a Venezia, da Marcello Villon, il più famoso importatore di tessuti tra i mercanti che percorrevano i domini bizantini e mussulmani, da Trebisonda a Bagdad fino a Ormuz e oltre, con assoluta libertà e sicurezza. Da anni oramai si serviva della muda di Siria, la nota carovana navale presso la quale aveva in stabile affitto un ampio spazio nella galera.
A Pandolfo la cifra richiesta era apparsa spropositata, anche se, in cuor suo, sapeva che avrebbe acquistato quell'oggetto a qualunque prezzo, per il puro piacere di mostrare agli illustri ospiti una novità di impareggiabile bellezza.
Il mercante che, dal canto suo, voleva liberarsi delle merci ingombranti prima di ripartire per il Bosforo, aveva ceduto all'insistenza del nobile, accontentandosi dell'offerta che, alla fin fine, era pur sempre vantaggiosa per lui.
Pandolfo amava circondarsi di beni di lusso e ostentare uno stile di vita sfarzoso, nell'intento di cancellare le brutalità sulle quali era stata costruita la potenza della sua famiglia.
Frequentava le corti più importanti d'Italia e aveva stretto alleanze con Matteo Visconti, con l'ormai centenario Luigi Gonzaga e soprattutto con Obizzo d'Este, un parente acquisito, morto da poco, del quale aveva ammirato oltre il valore guerriero la raffinatezza e la disposizione all'arte.
Improvvisamente si arrestò e fissò in tralìce il fratello che giaceva abbandonato sullo scanno regale con le braccia a penzoloni e il capo ripiegato sul petto.
«Sembri indifferente, se non addirittura annoiato; eppure questi versi sono stati scritti per noi.»
«Per te forse» replicò Galeotto sollevando appena lo sguardo con l'aria di chi ha sopportato abbastanza questa buffonata.

Il saio che indossava lo rendeva ieratico e umile, ma la sua umiltà era pur sempre quella di un guerriero, se pur votato oramai più allo spirito che al corpo. Da tempo aveva smesso farsetti e sopravvesti per il rozzo abito francescano e la bigia pellegrina. Solo in battaglia vestiva l'imbottita sotto l'usbergo d'acciaio e la lorica adorna dello stemma araldico dei Malatesta.
«Credi, fratello, che Petrarca abbia voluto onorare il nostro casato in modo esclusivo? Ha usato le stesse parole per lodare Andrea Dandolo e Luchino Visconti, un perfido fratricida. Ne ha esaltato le virtù e la gloria, e poi ha rivolto i suoi favori all'altro Visconti: Giovanni, eretico ed usurpatore.»
Da quando Galeotto era tornato dall'Irlanda e, ancor prima, dalla Terrasanta sembrava aver dimenticato le imprese militari e le tessere della diplomazia con le quali si stava costruendo il loro Stato e viveva tra uno sfinimento visionario e un'eccitazione quasi fanciullesca.
«I principi sollecitano solo i suoi versi. Dandolo, Doria, Visconti. E ora è giunto anche il nostro momento: dobbiamo consolidare la nostra potenza e costruire un regno, altrimenti saremo schiacciati su una striscia di sabbia. Un regno si fa anche con la poesia. A me basta che quest'uomo sappia comporre, e questa lirica è travolgente.»

Però mi dice il cor ch'io in carte scriva
cosa onde ‘l vostro nome in pregio saglia;
ché ‘n nulla parte sì saldo s'intaglia
per far di marmo una persona viva.

«Ma quale idiozia è questa?» proruppe infastidito Galeotto che proprio non sopportava questo stucchevole artificio che, invece, tanto aveva conquistato Pandolfo.
«Costui vive di amor proprio, non glielo dice affatto il cor, ma il suo interesse. Con qualche sonetto e qualche bella orazione s'ingrazia i principi e così continua a far la bella vita di corte in corte. Mai che contrasti qualcuno di quei potenti, dalla Boemia all'Inghilterra, da Milano a Mantova, da Avignone a Napoli. Solletica la loro vanità con eleganti endecasillabi e in cambio riceve diplomi e titoli.»
Pandolfo conosceva la duttilità del poeta aretino, le sue debolezze mondane, il continuo bisogno di riconoscimenti, la ricerca della gloria. Non aveva dimenticato la lettera che, solo qualche anno prima, aveva inviato al re di Napoli, in cui disprezzava le capacità militari del condottiero riminese. Sapeva anche con quale facilità aveva abbandonato i suoi mecenati, i Colonna, per schierarsi col loro nemico, Cola di Rienzo, ma ne ammirava il cosmopolitismo, l'intelligenza sociale e l'eleganza dello stile, classico e moderno ad un tempo.
«È ambizioso, lo riconosco; ma perché non dovremmo essergli riconoscenti per aver sottolineato con la penna ciò che andiamo affermando da anni con la spada?»
Galeotto sembrava non udire le parole del fratello. Si era sollevato e, appoggiato allo schienale, percorreva con lo sguardo la grande sala, rapito dalle immagini di sublime bellezza che Jacopo Avanzi aveva da poco terminato di pennellare. L'artista bolognese si era formato alla scuola giottesca di Padova ed era lodato come rarissimo pittore. Da qualche anno era al servizio dei signori di Rimini e oramai gli affreschi del grande salone dell'imperatore e dell'adiacente sala del trono, fluivano avvincenti di emozione.
La volta blu del soffitto a doppia crociera appariva come un cielo costellato di busti, raffiguranti divinità classiche, inseriti in medaglioni quadrilobati. Le alte pareti si chiudevano intorno a lunette decorate con scene mitologiche. Lungo il perimetro superiore correvano e si dispiegavano battaglie di fanti con armamento leggero mentre, a sovrastare il trono, spiccava la contesa tra laurenti e troiani.
Ma a dominare lo spazio con energia, potenza e severità era l'imponente raffigurazione, tra le due grandi finestre ad arco, di un antico romano vestito della toga pretesta, in posa sotto un fregiato baldacchino. Nella mano destra recava lo scettro del suo rango, nella sinistra la spada della milizia.
«So cosa stai pensando» intervenne Pandolfo, interrompendo il viaggio epico del fratello.
«Forse ci siamo lasciati prendere un po' la mano. Ma quando nella genìa si conta il Mastin Vecchio, lo Sciancato, il Guercio Malatestino e Guastafamiglia, anche il sogno di Scipione può diventare la nostra realtà. Abbiamo bisogno di un passato illustre.»
«Non ci è bastato Scipione, siamo andati fino agli Albani e oltre» replicò Galeotto, indicando il ritratto di un giovane possente dallo sguardo pensieroso, sotto il quale campeggiava l'iscrizione SILVIVS.
I due fratelli avevano mostrato fin dall'infanzia un'indole assai diversa. Tra loro vi erano tre anni di differenza, ma fu subito chiaro che le aspettative e le attenzioni del padre erano rivolte a Pandolfo, il primogenito, l'erede designato. Galeotto comprese in fretta che, in quanto cadetto, il suo destino si sarebbe compiuto con le armi. Cominciò presto ad imparare il mestiere e non esitò mai di fronte al nemico, neppure quando venne catturato e imprigionato.
Al valore guerriero aggiungeva uno spiccato codice morale che aveva ereditato dalla madre, Costanza Ondedei, vittima per tutta la vita delle angherie del marito Guastafamiglia.
Non amava la pomposità del fratello né gl'infídi cortigiani di cui lui amava circondarsi.
Anche nell'arte aveva idee tutte sue, ben lontane dai modelli che si stavano imponendo tra le nobili casate della penisola e del resto d'Europa.
Ad affrescare le sale del castello volle fortemente il giovane Avanzi, di grande modestia e umiltà pur nell'avvincente maestria, sebbene suo fratello premesse per contendere Paolo Veneziano ad Andrea Dandolo. Ed al tanto osannato Petrarca preferiva il suo amico Dolcimbene de' Tori, il re dei giullari.
«Ascolta la leggiadrìa e la ricchezza delle due terzine, e ricorda che solo il poeta crea l'eroe» seguitò Pandolfo, riportando ancora una volta quel visionario vestito da frate alle sue ambizioni d'immortalità.

Credete voi che Cesare o Marcello
o Paolo od Affrican fossin cotali
per incude già mai né per martello?

Pandolfo mio, quest'opere son frali
al lungo andar, ma ‘l nostro studio è quello
che fa per fama gli uomini immortali.

Su Pandolfo mio volse uno sguardo ammiccante e volpino.
Aurora Pagano
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