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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Valentina Del Negro
Titolo: 2024 i cuori ricominciano a battere
Genere Storia Vera
Lettori 439 2 5
2024 i cuori ricominciano a battere
Il Buio Inaspettato.

Erano le 17:30. La luce del pomeriggio entrava dolcemente dalla finestra, tingendo la stanza di un caldo colore dorato. Mia mamma ed io eravamo sedute in sala, in silenzio, come capita a volte quando il giorno si avvicina alla sua fine. Non c'era niente di speciale in quel momento. Il suono del tempo che passava. La tranquillità di un pomeriggio qualunque. Poi, la porta si spalancò improvvisamente. Un rumore secco e inaspettato. E lì, nell'entrata, c'era mio padre. Ma non era come lo ricordavo. Il suo viso, di solito pieno di vita, era bianco, trasparente, come se avesse perso ogni traccia di se stesso. Non respirava. I suoi occhi erano vuoti, come se stesse cercando di comunicare qualcosa che non riusciva a dire. “Chiama l'ambulanza”, disse, con voce debole ma urgente. Non era mia mamma a parlare. Era lui, mio padre, in un modo che non avrei mai immaginato. Capitolo 2 - Il Tempo Si Spezza - Per un attimo, non capii. Le parole mi arrivarono ovattate, come se venissero da sott'acqua. “Chiama l'ambulanza.” Le sue labbra si muovevano a fatica, eppure la voce era chiara nella mia testa. Il cuore cominciò a battere più forte, come se avesse capito prima di me che quello non era un momento qualunque. Mi alzai di scatto. Ma prima ancora di prendere il telefono, mi mossi d'istinto. Gli tolsi la maglietta, poi i pantaloni. Sudava tantissimo. Il suo corpo era madido, il viso sempre più bianco, quasi trasparente. Non sembrava reale. Solo dopo, chiamai l'ambulanza. Ma quello che avrei saputo poco più tardi mi fece gelare ancora di più: non lontano da casa, mentre passeggiava come ogni giorno con il suo amico, era stato lui a dire all'amico di chiamare l'ambulanza. Qualcosa dentro di lui aveva capito. E adesso era lì, davanti a me, ancora abbastanza lucido da dirmelo di nuovo. La voce dell'operatore arrivò quasi subito. Cercai di spiegare, di dare l'indirizzo, di dire che era grave. Le parole uscivano tremanti ma rapide. Bastarono. “Stiamo arrivando,” disse quella voce anonima e decisa. E allora il tempo riprese a scorrere. Ma non era più lo stesso.
Capitolo 3 - L'Attesa - L'ambulanza non arrivava. E non era la prima chiamata. Due volte era stata allertata. Due volte avevamo chiesto aiuto. Ma fuori, la strada restava vuota, silenziosa, come se il mondo stesse ignorando tutto quello che stava succedendo dentro quella casa. L'operatrice mi disse di restare al telefono, di non chiudere, di spiegare esattamente cosa stava succedendo. Mi chiese di mettere il telefono davanti alla bocca di papà, per sentire come respirava. Ma lui, di respiro, ne aveva sempre meno. Continuava ad alzarsi dal divano. Nonostante tutto. Nonostante l'affanno, la pelle bianca come carta, le gambe tremanti. Si alzava per andare in bagno. Ogni volta sputava sangue. E tornava. Si sedeva. Poi si rialzava. E io correvo. Dentro e fuori, avanti e indietro, a guardare la porta, la strada, ogni suono, ogni sirena che non era mai la nostra. Mia mamma, che in altre occasioni avrebbe pianto, sarebbe crollata, in quel momento era immobile, determinata. Era impavida. Un pilastro. Silenziosa ma presente. Un contrasto assurdo e bellissimo nella tragedia. E l'amico di papà, quello con cui camminava ogni giorno, era lì con noi. Seduto in silenzio. Gli occhi fissi su mio padre, ancora sul divano, senza respiro. L'ambulanza continuava a non arrivare.
Capitolo 4 - Il tempo si ferma - L'ambulanza arrivò mentre io ero fuori ad aspettarla, in lacrime. Appena la vidi svoltare l'angolo, le feci cenno con il braccio. Entrarono lasciando la barella fuori dall'ingresso. Subito misero l'ossigeno a mio padre. Uno degli operatori gli fece una puntura al polso, ma il suo corpo la rigettò, schizzando sangue ovunque. Nonostante tutto, con l'ossigeno iniziò a respirare meglio. Io e mia madre chiedemmo cosa avesse, ma uno dei soccorritori ci disse: “State tranquille, tra qualche minuto ve lo diciamo.” Anche se dentro di noi già lo sapevamo. Dopo poco, l'uomo si voltò verso mio padre e disse: “Signore, sta avendo un infarto.” Gli occhi di mio padre si sbarrarono. Poco dopo lo sollevarono dal divano e lo misero su una sedia, poi lo trasferirono sulla barella, lo coprirono e lo portarono fuori.
L'ambulanza partì a sirene spiegate. Io e mia madre rientrammo un attimo in casa per prendere al volo quella borsa che nella confusione avevamo preparato in due minuti, senza pensare che non sarebbe servita subito, non nei primi giorni almeno. Salutammo l'amico di papà, ancora sotto shock, e salimmo in macchina. Dovevo chiamare mia sorella, che vive poco distante da noi. Misi il viva voce. “Sei vestita?” le chiesi. “Sì, perché?” “Stiamo arrivando io e la mamma... Papà ha avuto un infarto.” Un urlo, poi riattaccò. Quando arrivammo, era già sul marciapiede ad aspettarci. Il traffico era troppo; non riuscivo a superare nessuno. Ci mettemmo più di un'ora ad arrivare in ospedale. Non sapevamo dove fosse. Mio zio, che avevo chiamato poco prima, era già lì ad attenderci. Entrammo al pronto soccorso per chiedere informazioni, ma una donna scortese ci disse che non sapeva nulla, dovevamo aspettare, e ci chiuse la porta in faccia. Mi guardai attorno e trovai un uomo, a cui chiesi nuovamente. Fu lui a dirci che era in rianimazione, nello stabile accanto. Andammo subito lì. Aspettammo fuori dalla porta. Era già buio. Nel frattempo chiamai il marito di mia cugina, grande amico di mio padre. Rimase in silenzio e poi disse solo: “Mi sta venendo a me un infarto.” Scrissi anche al mio responsabile per avvisarlo. Gli dissi che papà era in ospedale, ma senza pensare, aggiunsi che il giorno dopo sarei andata a lavoro, perché l'ingresso in ospedale era alle 15 e, finendo il turno alle 14, ce l'avrei fatta. Mi rispose: “Vale, non ti preoccupare. Stai con tuo papà.” Finalmente si aprì la porta. Una giovane infermiera ci disse: “Deve essere operato. L'infarto è stato grave. Lo abbiamo preso per un pelo.” Non ce lo fecero vedere quella sera. Tornammo a casa, stanche e confuse. Ci dissero che avremmo potuto vederlo dopo due giorni, appena sarebbe stato trasferito in reparto prima dell'intervento. Passarono quei due giorni. Finalmente lo vedemmo in camera. Sapeva che doveva essere operato. Era tranquillo, o almeno così ci faceva credere. Ci dissero che l'intervento era previsto per il giorno dopo, verso le 13. Io e mia madre quel giorno eravamo lì, ad aspettare in sala d'attesa per vederlo passare in barella e salutarlo prima che entrasse in sala operatoria. Ma ci chiamò: i medici gli avevano appena comunicato che l'intervento era stato rimandato al giorno successivo perché non c'era posto in rianimazione per il postoperatorio. Rimandato, sempre attorno alle 13. Tornammo a casa, pronte per affrontare un'altra giornata. La mattina seguente, alle nove, ero appena uscita un attimo. Mi squillò il telefono. Era mia madre: “Papà sta andando in sala operatoria.” Un urlo mi uscì spontaneo. Presi mia madre, salimmo in macchina e partii il più velocemente possibile, ma dentro di me sapevo già che non ce l'avremmo fatta in tempo per salutarlo. Arrivammo in ospedale, salimmo su... e lui non era più in camera. Era già andato. Non ci avevano aspettate. Non ce l'avevano fatto vedere. E se non lo avessimo mai più visto? Io e mia madre sedute, poi in piedi, poi di nuovo sedute. Le ore passavano, ma nessuno ci diceva nulla. Dopo otto ore comparvero due giovani donne: “L'intervento è andato bene. È in rianimazione. Potete venire domani a vederlo.” Stremate, tornammo a casa. Pronte per affrontare un altro giorno, ma con la speranza nel cuore. Tutte e tre fremevamo prima di entrare. Camici, mascherine, copri scarpe. Entrammo. Una forte stretta al cuore: no, così no. Non potevo vederlo così. Intubato, senza forze, senza parole. Solo un cerotto lì, sul petto. A malapena riuscì a sorriderci. Gli strinsi la mano. Stavo male. Nel frattempo ci dissero che lo avrebbero portato subito in reparto. Lo seguimmo. In camera ci dissero che il tempo per le visite era finito. I giorni passavano. Lo medicavano, misuravano la febbre. Ogni giorno, solo quindici minuti ciascuna per salutarlo. Ma stava sempre meglio, giorno dopo giorno. Fino a quando ci dissero che ora doveva andare in riabilitazione. Sì, a tre ore di distanza da casa. Ma era una struttura specializzata, perfetta per chi aveva subito un infarto così. Accettammo.
Valentina Del Negro
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