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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: A.Mara Cortes
Titolo: Turi Tourette
Genere Giallo Ragazzi
Lettori 303
Turi Tourette
La prima peggior figura della sua vita, Turi l'aveva fatta il giorno della Prima Comunione. Erano passati poco meno di sei anni.
A quei tempi, il parroco della chiesa di San Francesco d'Assisi a San Lazzaro di Savena, nella provincia bolognese, era Don Leopoldo. Don Lillo, per i frequentatori dell'oratorio.
Don Lillo aveva adagiato l'ostia sui palmi protesi di Turi.
Già prima, in coda all'altare, con i riccioli rossi ben pettinati e fissati col gel, il ragazzino ticcava nella tunica bianca. Sotto, indossava un completo carta da zucchero da vero ometto.
Turi strizzava e strabuzzava gli occhi castani, e ripetuti spasmi al collo gli facevano scuotere la testa a scatti. Come sempre. Si dondolava, anche. Anzi, quel giorno faceva proprio una specie di balletto: su un piede, giù l'altro. In più si torceva le dita. Era del tutto incapace di stare fermo.
Poi il patatrack!
Tutto teso per l'emozione, l'imbarazzo e lo sforzo di trattenersi, Turi aveva cominciato a tremare come un chihuahua in tutù abbandonato in altura. In Alaska.
Non ce l'aveva fatta.
Invece di rispondere “Amen” al “Corpo di Cristo”, aveva gridato a pieni polmoni “Puzzischifosamente!”.
In faccia al prete.
Aveva fatto seguito un coro di risate, singulti stupefatti, commenti scandalizzati, sarcastici. Odiosi.
Maleducato!
Non si vergogna?
Ma è matto?
Guai a lui, se fosse mio figlio...!
Poveri genitori, che disgrazia un bambino così!
Don Lillo non aveva battuto ciglio. Anzi, in realtà gli era scappato da ridere e aveva fatto l'impossibile per trattenersi, pure lui. Il fatto è che se l'aspettava.
Conosceva Turi fin dal battesimo e avevano parlato tante volte di quello che sarebbe potuto succedere. L'ultima era stata solo il giorno prima, in confessione, e Don Lillo, per metterlo tranquillo, aveva assicurato il perdono del Signore in via preventiva: Gesù sapeva benissimo che non lo faceva apposta, a dire e fare tutte quelle cose senza senso, preferibilmente nei momenti meno opportuni.
“È tutto a posto“, aveva sedato gli animi il prete. “Questo bambino ha la sindrome di Tourette, e per Gesù è un amico molto speciale”.
Chissà come faceva a esserne sicuro?
Turi non aveva molti amici, allora.
Non ne aveva molti nemmeno oggi, a quattordici anni, e quei pochi erano per lo più virtuali. Come Gesù.
Certo, c'erano i ragazzi del Gruppo Nazionale di Supporto, tutti tourettici. La tribù emiliana era abbastanza numerosa, ma non c'era nessun coetaneo che abitasse proprio nella sua zona, da poter frequentare con regolarità. Per vedere quegli amici, doveva aspettare che si organizzasse qualche raduno, una o due volte l'anno. Tre, se andava bene.
Sopperiva con i contatti sui social, chattando con questo e quello finché la conversazione languiva, l'interesse scemava e tutto si riduceva a qualche sporadico like.
In compenso, se la cavava benone con i videogames, leggeva gialli, scriveva racconti. Aveva molta immaginazione.
Praticava anche sport.
Come molti coetanei, giocava a calcio. Non che gli piacesse particolarmente. I suoi terapeuti gli avevano consigliato di praticare uno sport di squadra, perché socializzasse e perdesse peso, e il campo da calcio era praticamente sotto casa.
Aveva un certo talento come attaccante. Tuttavia, quando si disputava qualche partita seria, stava in panchina. Perché agli arbitri non piaceva sentirsi dire quanto schifosamente puzzassero (capitava che qualcuno, per scrupolo, si annusasse le ascelle sudate). Le rare volte che giocava, i cartellini gialli e rossi fioccavano come coriandoli.
Poi c'era la questione dei giri su se stesso. Ogni volta che doveva tirare un calcio di rigore, a Turi veniva l'impulso di girare in tondo almeno tre volte, comunque un numero dispari di volte. Poi gli girava pure la testa e non sapeva più da che parte si trovasse la porta avversaria.
Molti definivano esilarante il suo modo di essere.
Turi, invece, a volte era talmente arrabbiato con se stesso che, per sfogarsi, rompeva tutto quello che si trovava sotto mano: dopo il terzo che aveva sfasciato, i suoi non gli avevano più comprato cellulari. Non per cattiveria, ma non avevano soldi da buttare; quelli che avevano bastavano appena per pagargli le sedute da neuropsichiatri e comportamentisti.
In vita sua, Turi aveva fatto a pezzi il telecomando della tv (adesso ne avevano uno universale); preso a testate la porta della sua stanza (un cartello Do not disturb copriva un buco dalla parte del corridoio e un poster dei Måneskin faceva la stessa cosa dall'altra parte); stracciato libri e quaderni e affondato punte di matite e penne a sfera nelle sue stesse braccia. Fino a quando aveva scoperto di poter usare altro per tagliarsi e i suoi avevano messo sotto chiave coltelli da cucina, cutter, forbici, il dispenser dello scotch e persino il rasoio con cui sua madre si depilava le gambe prima di andare al corso di acquagym.
Così Turi aveva ripiegato sui morsi.
Si mordeva la mano sinistra così furiosamente che la pelle alla base del pollice era tutta indurita, così tanto da sembrare di cuoio. Quello era l'unico modo che, a volte, gli permetteva di trattenersi dal gridare puzzischifosamente a squarcia gola.

“La sindrome di Tourette mi è stata diagnosticata da un neuropsichiatra di Milano quando avevo cinque anni”.
Cominciava così, sempre con le stesse parole, ogni volta che doveva spiegare a qualcuno che cos'avesse.
Perché si comportasse da matto.
Perché insultasse gratuitamente le persone, rischiando di prendersi anche dei pugni in faccia (qualche volta era successo davvero, ragion per cui aveva sempre un paio di buste di ghiaccio secco nello zaino).
Con quelle stesse parole aveva iniziato alla sindrome i nuovi compagni di classe, in prima media. Aveva anche distrbuito, banco per banco, con fare professionale, un buon numero di depliant che sua madre, Marialaura, aveva scaricato dalla pagina Facebook del Gruppo Nazionale di Supporto. Turi li aveva stampati con la laserjet della scuola.
Alle elementari aveva usufruito di un insegnante di sostegno, ma non voleva più sentirsi diverso o in imbarazzo. Così, per il nuovo ciclo di studi, aveva persuaso i suoi a non richiederlo: era grande, ormai, e lo erano anche i suoi compagni di classe.
Avrebbero capito.
Lo avrebbero accolto.
Come uno di loro, solo un po' più eccentrico.
Invece no.
In classe, la presenza di Turi era sempre stata a malapena tollerata.
Tolleranza, che brutta parola.
Un sinonimo di sopportazione. Di qualcosa o qualcuno percepito come inutile e dannoso.
Abusata, per giunta, dai media. Si predicava la tolleranza nei confronti degli immigrati, degli omosessuali, dei portatori di handicap, e i più percepivano l'invito come un compromesso per il quieto vivere, invece che come una disposizione a una ragionevole accoglienza.
Infatti, adesso che Turi era in terza media, i più facevano finta che non esistesse e c'era ancora chi lo scherniva.
Però lui non si arrendeva.
Più lo bullizzavano, più lo rendevano forte.
In fondo, Gesù – il suo amico d'infanzia – era stato crocifisso, eppure non era lui, quello sbagliato.
Erano gli altri a essere cattivi.
E, alla fine, lo avevano capito tutti.
Il fatto che si chiamasse Turi (diminutivo di Salvatore, che era il nome di suo nonno, Salvatore Carretta, padre di suo padre) gli era valso il nomignolo di Turi Tourette. Suonava benino.
Alla fine del triennio, continuavano tutti a chiamarlo così e a trattarlo da scemo.
Di sicuro, scemo non era. Per niente.
Turi era un ragazzo plusdotato. A scuola si facevano certe battutacce su di lui. Hai voglia a spiegargli che plusdotato non fosse un sinonimo di superdotato, nel senso che intendevano loro! Se non altro, i bulli non sembravano avere intenzione di smutandarlo per verificare.
Test specifici avevano rilevato un quoziente intellettivo superiore a centotrenta. Purtroppo, plusdotazione cognitiva non significava affatto portare a casa voti da secchione (la media scolastica di Turi, in verità, faceva piuttosto schifo). Però era molto maturo per la sua età e aveva un modo tutto suo di rapportarsi al mondo.
Una sensibilità raffinata, speciale, a volte eccessiva.
A proposito di scuola, la matematica non gli entrava più di tanto in testa: sarà pure stato plusdotato, ma era discalculico. Mai una gioia, proprio!
Le materie umanistiche, però, lo appassionavano.
In classe, era stato il solo a non rompersi le scatole studiando I Promessi Sposi del Manzoni. Lui l'aveva capita, la logica di non cercarsi guai, visto che tanto venivano da soli.
Ecco perché non aveva mai provato a fare amicizia con i suoi compagni: per non subire la delusione di essere respinto.
Di certo, l'atteggiamento che le persone avevano nei suoi confronti non lo aiutava a stemperare l'ansia e il senso di inadeuatezza che acuiva i suoi tic.
C'è da dire che c'erano anche momenti in cui non ticcava quasi per niente: quando si scattava dei selfie, quando giocava a videogames che richiedevano molta concentrazione e quando leggeva.
I suoi gli avevano dunque sempre permesso di scegliere qualsiasi titolo dalla libreria di casa, dalla mediateca e dal bookcrossing della piscina comunale. Era andata a finire che si era letto anche Cinquanta sfumature di Grigio, di Rosso e di Nero, anche se, per precauzione, aveva ricopertinato i volumi con delle foderine di plastica da quadernone.
Quelle letture avevano coltivato il suo interesse preadolescenziale per le ragazzine, anche se la sua passione continuavano a essere i romanzi d'investigazione. Era, quindi, un allenato, ottimo osservatore della realtà circostante, e spesso s'immaginava detective alle prese con qualche caso da risolvere, fantasticando di tipi sospetti tratti dalla sua quotidianità.
L'insegnante di sostegno che aveva avuto, per dire, doveva avere un'ossessione per i carciofi: quando era stagione, le sue mani odoravano di limone e sulle punte delle dita aveva sempre un po' di nero.
Succedeva anche a sua madre di macchiarsi con i carciofi. Dopo, si detergeva con la pasta abrasiva di suo marito, Luca, il papà di Turi. A lui serviva per lavar via il grasso dopo aver cacciato le dita nel motore dello scooter per riparare guasti che, puntualmente, non riusciva a trovare. D'altronde doveva pur esseci una ragione se faceva il fioraio e non il meccanico!
Tornando a noi, una volta Turi aveva sentito i collaboratori scolastici lamentarsi perché, a giudicare dal documento di trasporto dei pasti per la mensa, risultava un ammanco di ortaggi: una vaschetta da due carciofi bolliti con aglio e olio, insaporiti con il prezzemolo. I sospetti di Turi erano immediatamente caduti sull'insegnante, anche se poi non lo aveva detto a nessuno.
Poi c'era la questione del disturbo di personalità di Gioele, il compagno di classe con cui, ultimamente, giocava a Fortnite. Turi era entrato nel gruppo di quattro giocatori di cui faceva parte e lo aveva individuato dal nickname, Aliante, che poi era il nome del suo galgo spagnolo.
Una povera bestia immigrata dal lager di una perrera.
I suoi gli avevano preso il cane per responsabilizzarlo.
Poveri illusi.
In classe, con la complicità della sua banda di bulletti, Gioele destinava a Turi una reiterata serie di azioni ostili, come gettargli la merenda nel water, scaracchiargli sul banco, lanciargli le scarpe da ginnastica in strada mentre andavano in palestra per l'ora di educazione fisica.
E poi lo deridevano, lo spintonavano, non gli risparmiavano scappellotti e sgambetti.
Qualche volta lo avevano ficcato dentro il cassonetto dell'indifferenziata, all'uscita da scuola. Neanche fosse stato Bastian de La Storia Infinita. Il romanzo era del 1979, il film dell'84. L'allarme-bulli ea scattato già allora e non era ancora cambiato niente. Anzi, il bullismo era diventato una piaga sociale.
Turi aveva accennato in famiglia a quegli episodi, ritrovandosi sotto un fuoco incrociato di consigli: suo padre era per tentare la via del dialogo; sua madre non solo lo istigava a difendersi e a restituire i torti subiti, ma gli aveva comprato lo spray al peperoncino, raccomandandogli di tenerlo sempre in tasca, a portata di mano.
Turi aveva scelto la via della sopportazione.
Se avesse perso il controllo, se avesse permesso alla collera di prendere il sopravvento, la faccenda sarebbe degenerata.
Perché anche lui sapeva essere violento, eccome.
Più di quei bulletti da quattro soldi.
Era pronto a scommettere che loro non avessero mai messo le mani addosso ai genitori. Lui, invece...
Fatto sta che Gioele non avrebbe mai accettato di giocare on-line con Turi, se avesse sospettato chi si nascondesse dietro il nickname MrRuttoDeiDoen.
Mister Rutto dei Doen – dove Doen, che faceva tanto fantasy, era il brand di un pantalone che sua madre aveva preso su Vinted – non era altro che l'anagramma di sindrome di Tourette. Ma quanti complimenti faceva, Gioele, a Mr Rutto! Piazzava trappole davvero astute, in modalità Salva il mondo!
Il punto, però, era un altro: Turi credeva che, per accudire un cane, servisse una dotazione di empatia. E l'empatia, di solito, era un dono che si estendeva anche ai propri simili.
Questo spiegava perché fosse convinto che Gioele soffrisse di disturbi della personalità.
O dell'iperprotettività di una famiglia troppo permissiva.
O, chissà, magari del contrario.
In ogni modo, le microtransazioni per l'acquisto della valuta di gioco si erano rivelate utili a contrastare la discalculia di Turi, che con quella scusa aveva il permesso di trascorrere parecchio tempo al computer.
Meno male che sua madre sosteneva la validità del metodo Montessori: imparare e rendersi indipendenti attraverso giochi mirati a sviluppare le potenzialità dei ragazzi.
Un po', lui ci marciava, sulla sua Tourette, anche se non l'avrebbe ammesso neanche sotto tortura.
In ogni modo, non è che potesse sempre sfasciarsi la testa sui libri, anche se un certo impegno ce lo doveva mettere: si distraeva facilmente, in classe, dunque la sua media era appena appena accettabile. Più o meno. Più meno che più.
Una volta al liceo artistico, sperava che le cose sarebbero andate meglio. Là erano tutti un po' strambi, forse non avrebbero dato un gran peso alla sua sindrome, si sarebbero accorti solo di lui.
Non vedeva l'ora.
A.Mara Cortes
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