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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: A.Mara Cortes
Titolo: Malìa d'Eurasia
Genere Fantasy Sentimentale
Lettori 1586 2 1
Malìa d'Eurasia
Il gabbiano volteggiava nel sole, descrivendo ampi cerchi attorno all'albero maestro. Non era come gli altri gabbiani: aveva il becco scuro e le zampe rosse, e il petto di un tenue colore rosato.
Con le gialle vele ammainate, la Nashtasia scivolava sul mare piatto a forza di remi, ormai prossima al porto di Shai-kalja, sulle coste della Quarta Terra. I tamburi scandivano il ritmo tenuto dalle braccia e dalle schiene muscolose e lucide di sudore dei rematori.
Malìa, abbigliata di tutto punto, con la gorgiera di pizzo inamidato ben stretta attorno al collo, si preparava spiritualmente allo sbarco.
Fatta eccezione per una vecchia serva che si era occupata di lavarla, vestirla e pettinarla, era stata l'unica passeggera del vascello e sarebbe stata l'unica a essere abbandonata su quel litorale selvaggio.
Ci siamo.
L'equipaggio le lanciava occhiate taglienti, perché era stata anche la sola a non fare un accidente di niente per tutto il tempo, tranne mangiare il pescato frutto del lavoro di altri e godersi il panorama, col vento tra i boccoli che ondeggiavano fuori dalla cuffietta. Non si era degnata nemmeno una volta di rivolgere la parola a chi lavava il ponte, districava cordame e rotolava botti.
Del resto, quella era quasi tutta gente che proveniva da villaggi remoti, poveracci giunti nella capitale in cerca di fortuna. Comparse, nella vita agiata di Malìa, che pure la mettevano un po' in soggezione.
Che ne sapevano, delle sue disgrazie?
La principessa era sicura che l'ambasciatore d'Eurasia l'attendesse al molo per porgerle il benvenuto e offrirle il suo sostegno. Si chiese chi altri ci sarebbe stato, se avessero pensato a una fanfara. Da quelle parti si usava suonare dei lunghi flauti di legno che emettevano note basse e vibranti.
Nel complesso, sperava che la faccenda non andasse troppo per le lunghe, visto che le sarebbe toccato stamparsi sulla faccia un sorriso di circostanza. Sarebbe apparsa cortesemente distaccata ma le si sarebbero intorpidite le guance!
Mentre la costa si avvicinava, le corse un brivido lungo la schiena. Eppure non faceva freddo. Al contrario, il sole era alto e il pomeriggio sereno e molto caldo.
Paura.
In vita sua, Malìa non aveva mai avuto bisogno di avere paura. Non ne aveva avuta nemmeno quando, durante una rivolta popolare, migliaia di poveracci armati di forconi avevano posto d'assedio il palazzo reale mentre si teneva la sfarzosa festa per il suo tredicesimo compleanno.
Allora le era parso inaudito che il suo popolo si rivoltasse quando avrebbe dovuto essere felice per lei e per i bei doni che riceveva.
Ma allora non sapeva della fame.
Nulla a che vedere con i morsi d'appetito che talvolta le stringevano lo stomaco con l'approssimarsi del mezzogiorno.
La fame, quella vera, l'aveva scoperta – per modo di dire, non avendola mai provata – solo tempo dopo, quando le era capitato fra le mani un libro incautamente dimenticato in biblioteca dal maestro Le Droit, predecessore di Badesh.
Era il testo di uno scrittore sovversivo, un'accorata denuncia della miseria in cui versava il popolo eurasiatico per colpa dell'autocrate. Egli, a detta dell'autore, costringeva la gente a lavorare fino ad ammalarsi, perché i soldi per le tasse in denaro e i tributi in natura alla corona non bastavano mai, nemmeno in tempo di carestia o di epidemia. E mentre i figli dei contadini morivano per la malnutrizione e la febbre, i rampolli dei nobili crescevano sani, forti e con la pancia piena.
Quando, scioccamente, Malìa aveva domandato delucidazioni a suo padre, l'autocrate si era rifiutato di leggere egli stesso quel libro e di darle spiegazioni in merito. Le aveva strappato di mano il tomo e lo aveva gettato nel camino – un vizio di famiglia, quello di bruciare cose.
«Un giorno, quando regnerai» le aveva detto, «sarà il tuo sposo a occuparsi di tenere a bada il volgo. Esiste per servirci, che faccia il suo dovere!
In quanto a te, sei una donna e certe faccende non le puoi capire. Pensa a studiare la musica e a ricamare, impara a gestire la tua casa. Il resto non ti compete».
Così il vecchio precettore era stato sostituito col maestro Badesh, e non se n'era più saputo niente.
A palazzo si ironizzava che fosse partito, forse, per un lungo viaggio di studio.
Molto lungo.
Senza ritorno.
In cuor suo, Malìa temeva che fosse stato segretamente giustiziato. Condotto al Cane, nel migliore dei casi.
L'Eurasia non era certo una Terra perfetta.

Ed ecco delinearsi case bianche e celesti, pontili di legno, imbarcazioni di ogni foggia e il faro.
La Nashtasia calò le ancore.
Il gabbiano che l'aveva accompagnata si dissolse nel disco solare.
Gli occhi in fessura per la gran luce, la fanciulla indossò i guanti ricamati e aprì l'ombrellino per proteggersi.
«Che ansia...» mormorò, mentre l'equipaggio scaricava in fretta e furia i suoi bagagli.
«Vi troverete bene, in queste terre» la rassicurò il capitano, che aveva i capelli impomatati come si usava tra i lupi di mare di una certa estrazione sociale. «Sono luoghi selvaggi e dalle usanze talvolta intelligibili, per noi, gente civilizzata. Eppure vi si assapora una libertà che nel nostro, per quanto grande Paese non è possibile provare.»
«Non ne dubito» borbottò Malìa, percorrendo con passo malfermo il barcarizzo. Cercò di scorgere il cocchio imperiale, ma le parve che non ci fosse alcuna carrozza lussuosa ad attenderla.
«Non appena possibile» continuò il comandante, porgendole un tubo di metallo debitamente sigillato con la ceralacca, «vi prego di consegnare al kàesar questo scritto da parte di vostro padre, Sua Altezza Eccellentissima...»
«...Rodoeth eccetera» tagliò corto Malìa. «Sarà fatto.»
L'uomo le rivolse un profondo inchino.
«Abbiamo l'ordine di ripartire immediatamente, sono desolato di non potervi scortare fino al palazzo di Kala-ren», si dolse.
«Prevedo momenti imbarazzanti. Credetemi, preferisco non riportiate a mio padre di avermi vista tremare al cospetto del mostro.»
«Vi prego, Altezza, siate diplomatica. L'Eurasia intrattiene ottimi rapporti politici e commerciali con la Quarta Terra. Il Continente Dimenticato si è sempre dichiarato neutrale ma, in caso di necessità, precludersi l'appoggio di un esercito di tal portata potrebbe condurre a una disfatta.
Con tutto il rispetto, i rinnegati non sono mostri né fiere: la selezione naturale ne ha fatto una specie a parte.»
«Parlate bene, voi» si lagnò sommessamente Malìa. «Vorrei vedervi, al mio posto».

Di certo, suo padre non aveva idea che le sarebbe stata riservata un'accoglienza a tal punto irriverente.
Da non crederci!
Ad attenderla, un insignificante cocchio da viaggio. Se non fosse stato per i fregi imperiali – lo stemma rosso del leone incoronato – non lo si sarebbe distinto da uno squallido carro postale eurasiatico.
Oltre a quello, la scorta di dodici uomini a cavallo.Guerrieri dai volti celati da un drappo avvolto attorno al capo, che lasciava scoperti solo gli occhi.
Occhi gialli o di un trasparente verde chiaro, dalle pupille oblunghe, ferine.
Mani guantate stringevano le redini di cavalli imponenti. I grossi zoccoli, orlati di pelo folto, battevano nervosamente la terra rossa, sollevando sbuffi polverosi.
Gambali di pelle morbida serravano sui fianchi i destrieri, e pugnali privi di fodero erano allacciati alle caviglie di quegli uomini – o quel che erano.
Sotto i mantelli rilucevano pratiche cotte di maglia.
Ciascun guerriero portava due scimitarre incrociate sulla schiena, e s'intuiva che sapessero maneggiare quelle armi come estensioni dei propri arti.
Ad andare incontro a Malìa fu solo una donna di mezza età, rotondetta e di bassa di statura, vestita di un abito da viaggio; non grigio né verde bottiglia, come quelli eurasiatici, ma di un vivace colore arancione. I capelli ingrigiti, raccolti in una semplice crocchia, erano velati da un tessuto sottile che scendeva in drappeggi sulle spalle.
Umana?!
«Benvenuta, Altezza!» la salutò cordialmente quella. «Il mio nome è Lita. Sono stata nutrice del kàesar e da sempre gli sono consigliera.»
Malìa non s'ingannava: niente peli, niente vibrisse, niente zanne.
È proprio umana, che sollievo!
Ma...
«Il kàesar ha mandato a ricevermi una balia!» sospirò tra sé. Nemmeno l'ambasciatore eurasiatico, aveva scomodato! Quel viscido di Lord Snake! Avrebbe potuto prendere l'iniziativa, imporsi e fare almeno presenza. Possibile che vivere con quel popolo primitivo gli avesse fatto dimenticare la rigida eurasiatica?
A ben pensarci, però, non le era mai piaciuto. Non le sarebbe mancato discorrere di banalità con lui.
Ma sì, pazienza.
Malìa desiderava solo lavar via il sale che le seccava la pelle e stendersi su un giaciglio che, per una volta, non beccheggiasse. Si augurò che, a palazzo, l'aspettassero almeno un bagno caldo e un letto comodo.
Lita non accennò nemmeno un inchino; le tese, invece, la mano nuda. In Eurasia, solo la gente del volgo non portava guanti.
«È un vero piacere conoscervi, Altezza.»
Pur esterrefatta, Malìa lasciò che la presa energica di Lita le stritolasse le dita sottili.
«Mi aspettavo una donna» considerò Lita, ilare «invece siete quasi una bambina!»
«Veramente» obiettò Malìa, accomodandosi in carrozza, «ho compiuto diciannove anni e, proprio di recente, mi è stato fatto notare che presto non sarò più in età da marito.»
La donna scosse il capo e rise di gusto
«Non dite sciocchezze, Malìa! Non è mai abbastanza tardi per cominciare a sfornare marmocchi, e lo so bene io, che ne ho tirati su due!»
Parola sua, la principessa d'Eurasia non si era mai sentita tanto in imbarazzo!
Quella Lita non si limitò a rivolgersi a lei chiamandola per nome, con una confidenza che non le era stata accordata: vedendola infilare le dita nel colletto pieghettato – perché faceva caldo e quella maledetta gorgiera le impediva di respirare liberamente – le fece notare quanto inappropriato fosse il suo abbigliamento.
«Non devono avervi informata di quanto sia torrido il nostro clima, in questa stagione. Una volta a Kala-ren, bisognerà che commissioniamo qualche abito più leggero, cara. Nel frattempo vi farò prestare qualcosa.»
Contrariare la sua ospite rifiutando di adeguarsi ai costumi locali – che, a quanto pare, prevedevano di insossare vesti usate! – non sarebbe stato un buon inizio, ma Malìa aveva sentito parlare degli abiti delle rinnegate, in termini che lasciavano intuirne l'indecenza.
Poteva pure far caldo, ma lei non si sarebbe mai scoperta la gola e le spalle!
Un guerriero – un ufficiale, a giudicare dalle mostrine rosse ricamate sulle spalle del mantello – si accostò al cocchio. I bauli erano stati caricati e attendeva istruzioni. Lita gli fece cenno di partire e Malìa ne incrociò per un attimo lo sguardo.
Fiero.
Feroce, le parve.
Un dettaglio, però, la affascinò: un occhio era giallo come il topazio, l'altro azzurro come l'acquamarina.
Si affrettò a guardare altrove e si fece più piccola sul modesto sedile di legno.
«Questioni diplomatiche» attaccò Lita, con un mezzo sorriso divertito, «hanno trattenuto il kàesar a Kala-ren. Mi ha chiesto di riferirvi che se ne dispiace e che non mancherà l'occasione di conoscervi.»
«Naturalmente...» concesse la principessa, rilassandosi un poco: i convenevoli per cui si era tanto a lungo preparata erano rimandati. Meglio così.
«Immagino vi aspettaste un'accoglienza più... eurasiatica. In generale, troverete le nostre usanze assai informali, ma se è vero che nel vostro Paese non è consuetudine incontrare uomini leone, allora ritengo che la nostra scorta vi abbia impressionato a sufficienza, per cominciare.»
Un sorriso spontaneo affiorò sulle labbra della giovane.
«In effetti» ammise, «trovare voi ad attendermi è stato rassicurante. Devo ammettere che questa gente mi intimorisce alquanto.»
Lita storse il naso.
«Dopo mezza vita trascorsa quaggiù, non scorgo più alcuna differenza tra umani e uomini leone. Quella che, inevitabilmente, ora vi salta agli occhi – se serve a tranquillizzarvi – non è che un punto di vista estetico.»
«Intendete dire che gli uomini bestia sono come noi? Mi riesce difficile credere che sappiano dominare la loro natura» replicò Malìa.
L'altra parve studiare le emozioni sul suo volto stanco e inquieto.
Che razza di idee dovevano averle messo in testa!
«Vedete» spiegò, «gli uomini bestia, come li chiamate voi, dalle vostre parti, non sono meno intelligenti né più crudeli degli umani di sangue puro. Si distinguono in battaglia, è vero, perché sono muniti di zanne e artigli, hanno maggiore resistenza e tollerano il dolore molto meglio di un sangue puro. Non a caso l'esercito del Continente Dimenticato è il più temuto di tutte le Terre.
Tenete però a mente che gli animali non concepiscono di cagionare gratuitamente il male: le nostre leggi sono state imposte da chi ha conosciuto la discriminazione e l'esilio, e sono leggi giuste.
Quella che voi ritenete una natura bestiale ha costruito un grande Paese. E se ve lo dico io, che ho conosciuto entrambe le realtà, dovete proprio credermi.»
Malìa rifletté su quelle parole e chinò il capo.
«Lasciaste l'Eurasia di vostra volontà?»
Lita annuì.
«Presi servizio su un mercantile come ufficiale di cucina dopo aver fatto da rosticciera a una nobile famiglia della provincia di Fashtos, fin da ragazzina. La paga era migliore.
Quando giunsi nella Quarta Terra, ebbi la fortuna di entrare a corte con la stessa mansione, del resto me la cavo proprio bene ai fornelli!» precisò allegramente, poi si adombrò. «Poco dopo, mi innamorai di un bel tipo di queste parti, un carrettiere che ogni mattina portava al castello frutta e verdure fresche delle campagne circostanti.»
«Credevo che gli uomini bestia mangiassero solo carne.»
«Preferibilmente», ammise Lita, «ma non solo. A dispetto delle apparenze, il loro organismo è più simile al mio e al vostro che a quello di una fiera delle Terre Nere».
Malìa prese atto e giunse le mani in grembo, in attesa del seguito della storia.
«Siamo tanto distanti dall'Eurasia ma sapete come si dice: tutto il mondo è paese. Quel giovane mi corteggiò e io gli cedetti per ritrovarmi gravida. Già mi vedevo sposata con lui, a tirar su nostro figlio in una bella casetta fuori le mura. Peccato non mi avesse detto di aver già una moglie.
Ebbene, nascosi la faccenda finché mi fu possibile, finché il mio ventre lievitò al punto da non poter più essere nascosto. Credevo che sarei stata licenziata, ma andò diversamente. A quei tempi, anche la consorte di Ta-Kala era incinta, e fu proprio lei a garantirmi che io e mio figlio saremmo rimasti a corte come parte della famiglia.
Poi lei non sopravvisse al parto, al contrario di me, così allattai entrambi i nostri figli. Sono cresciuti come fratelli, Kala-ja e il mio Amon.
Dunque, Malìa, non vi sarà difficile capire che una così grande umanità non mi sarebbe mai stata dimostrata a Fashtos, né in alcun altro luogo in Eurasia».
Malìa era imbarazzata. Un po' per la schiettezza di quel racconto, un po' perché Lita non aveva certo tutti i torti.
«Il bel tipo era un uomo leone?» volle accertarsi per farsi un'idea più completa di tutta la questione e trarre delle conclusioni. Lita annuì e la fanciulla prese un profondo respiro.
«Credo di essere stata offensiva», riconobbe. «Vi devo delle scuse.»
«L'ignoto vi intimorisce», comprese dolcemente Lita, «ma non precludetevi la possibilità di cambiare opinione. Questa è una realtà che non vi appartiene ancora, e il mio consiglio è di giudicare solo quando saprete di che cosa state parlando.»
«Avete ragione», si arrese Malìa, più che altro per troncare quella discussione.
Aveva una gran voglia di abbandonarsi al sonno.
Il rollio della carrozza era conciliante.
Era possibile che fino a quel momento si fosse ingannata, ma si concesse il beneficio del dubbio.
Faceva davvero caldo.
Alla fine si decise a togliersi la cuffietta.
Con le dita, si sistemò i capelli alla bell'e meglio.
Lita inclinò il capo, osservando i riccioli ribelli sfuggire all'acconciatura.
«Che magnifica chioma, avete!» E aggiunse, con un'espressione sorniona. «Ho la sensazione che Kala-ja si darà parecchio da fare per sciogliere le vostre riserve.»
«Che volete dire?» si allarmò Malìa, più che mai turbata.
«Il kàesar nutre una certa predilezione per le fanciulle dai capelli fulvi».
Splendido, adesso sì che poteva stare tranquilla!
Certo che, da queste parti, non si usano troppi giri di parole.
«Che dite?!» si scandalizzò. Poi, arrossendo: «Non sono nemmeno tanto attraente.»
«Non siate modesta!
Sarebbe fantastico se questa storia si concludesse con uno sposalizio».
Dunque il maestro Badesh non era il solo ad augurarle il peggio del peggio!
«Ditemi, lui com'è?» domandò. Nell'eventualità che suo padre la forzasse alle nozze, tanto valeva cominciare a prepararsi. Se Lita era stata la sua nutrice, doveva conoscere quell'uomo bestia meglio di chiunque altro.
«Oh!» fece quella, con un gesto vago della mano. «Io ho fatto del mio meglio...» Scoppiò in una risata argentina. «Definerei Kala-ja di bell'aspetto e di buon cuore. Ma badate, talvolta è piuttosto permaloso, anche se detesta sentirselo dire... il che è tipico dei permalosi!
È in gamba, Malìa. Nonostante sia salito al trono che era solo un ragazzo, ha fatto davvero tanto per tutti noi. Come far costruire una rete capillare di acquedotti, perché queste sono terre desertiche e non è facile vivere nell'entroterra, lontano dai rari corsi d'acqua. Recentemente sono iniziati i lavori di scavo per la realizzazione di nuovi pozzi, e immagino che presto anche le aree più impervie potranno essere raggiunte dalla civiltà.»
«Quindi il suo popolo lo ama» immaginò Malìa, mentre l'idea che si era fatta, di un paese selvaggio e arretrato, cominciava a incrinarsi alla base.
«Ma certo!» confermò Lita. «Kala-ja vuole che tutti abbiano delle buone ragioni per amare questo Paese. All'inizio, la vita nella Quarta Terra era molto dura, ma adesso come adesso, chi più chi meno, tutti hanno di che vivere decorosamente. È naturale che chi è più abile a gestire un'attività abbia modo di arricchirsi... ma non oltre un certo limite: se lo si travalica, quanto avanza viene gestito da Kala-ja in persona e impiegato affinché non manchi niente a nessuno.»
«In Eurasia, è tradizione che certi confini tra i ceti non vengano oltrepassati.»
«Qui, invece, esiste solo una certa gerarchia: dappertutto serve che qualcuno dia delle direttive e mantenga l'ordine. Questo, però, non significa ridurre la popolazione alla miseria per pascere un pugno di nobili».
La critica di Lita mise Malìa piuttosto a disagio: non aveva certo dimenticato la misteriosa sparizione del maestro Le Droit, poveretto! Anche lui la pensava così.
Lita osservò la sua ospite con indulgenza: era evidente che fosse combattuta tra la sua posizione sociale e i vantaggi che gliene derivavano, e una naturale predisposizione alla compassione.
Ma si era già tolta la cuffietta, e presto non avrebbe resistito a spogliarsi anche della gorgiera. Una volta che avesse respirato liberamente, sarebbe diventata una di loro.
O, almeno, se lo augurava.
E lo augurava anche a lei.

«Svegliatevi, bambina...» sussurrava la voce di Lita, lontana e ovattata.
Malìa batté le palpebre e la luce del sole le ferì gli occhi ancora assonnati.
Si era addormentata!
«Perdonatemi!» sobbalzò. Nei confronti della sua ospite, non faceva che collezionare figuracce! «Devo aver chiuso un attimo gli occhi e...»
«Eravate molto stanca» la tranquillizzò Lita. «Vi avrei lasciata stare, dormivate così bene, ma...»
«Siamo arrivati?» Malìa guardò, in apprensione, fuori dal finestrino.
Una cinta muraria di pietra, rossa come la terra nuda che si estendeva tutt'intorno, a perdita d'occhio, sovrastava la carrozza.
Gli uomini della scorta stavano smontando da cavallo.
«È Kala-ren, questa...?» s'informò la ragazza, dubbiosa.
Lita confermò i suoi sospetti.
«Oh, no» spiegò. «Ci troviamo presso una stazione di ristoro. Ce ne sono diverse, lungo le strade che congiungono gli insediamenti portuali alla capitale, e anche tra una città e l'altra, per esempio tra Kala-ren e Barruan.
Siccome arriveremmo comunque a destinazione in serata, ho pensato di far tappa qua, per riposarci e mangiare qualcosa. Sempre che non vogliate proseguire. Certo, gli uomini resterebbero delusi: noi due abbiamo viaggiato in carrozza e voi siete persino riuscita a dormire un po', ma loro hanno bisogno di scrollarsi di dosso la polvere e la stanchezza per la lunga cavalcata.»
Le esigenze di un manipolo di soldati anteposte a quelle di una principessa... adesso le aveva proprio sentite tutte!
Lita, però, aveva esposto abilmente la questione: se Malìa si fosse opposta, avrebbe fatto la figura dell'odiosa, insensibile strega cattiva di una favola per bambini!
Sospirò.
In fondo, aveva appetito anche lei, così evitò di farne una questione di puntiglio.
Un appetitoso aroma di cibo si spandeva dalla stazione di ristoro, dunque Malìa si accinse a raccogliere cuffietta e ombrellino. Però Lita la fermò.
«Lasciateli lì, non vi servono: c'è un bel giardino ombroso. E poi, datemi retta: approfittatene per prendere un po' di colore, siete così pallida!»
Pallida.
Come dire che sembrava malata.
Che strano Paese!
Per la prima volta in vita sua, Malìa uscì allo scoperto senza nulla a ripararla dal sole, scoprendo il piacere del sole sulla faccia e del vento caldo tra i capelli.
Condotta la carrozza nel cortile, un imponente uomo leone cedette loro il passo affinché lo precedessero nella taverna, dove s'intravedevano i suoi compagni liberarsi di mantelli e scimitarre per sedersi attorno a bassi tavoli di legno scuro. Stravaccati su stuoie di paglia intrecciata, aspettavano che fosse pronto da mangiare.
Malìa si augurò che, almeno, quella gente sapesse come usare forchette e coltelli.
«Altezza...» la ossequiò la voce profonda di un rinnegato, che ora si stava liberando del suo copricapo.
Celava un volto dalla mascella protrusa e dal pizzo biondo, ben curato. La folta chioma ondulata, leonina, ricadde sulle spalle e sulla fronte bassa. Le narici, nel naso solido e tozzo come quello di un leone, fiutandola si dilatarono un poco, e gli occhi sorrisero, divertiti dal suo timore. Li aveva già incrociati: uno dorato e uno azzurro.
Malìa sgusciò rapidamente all'interno del locale, senza rispondergli, attaccata alle gonne di Lita come una mocciosa a quelle della mamma.
«Eccoci qua!» annunciò la balia. «Che ve ne pare?»
Gli uomini della scorta avevano preso possesso della prima e più ampia delle sale, e già aggredivano grossi pezzi di carne, prendendoli a mani nude direttamente dagli spiedi su cui arrostivano, posti sull'alta fiamma crepitante del camino.
«Pittoresco» commentò Malìa con un sospiro rassegnato. «Dovrò imparare a mangiare con le mani».
La saletta che era stata riservata alle due donne, per fortuna, era più raccolta ed elegante: sul tavolo c'era una tovaglia di cotone bianco, e stoviglie di coccio offrivano cibi più raffinati di quelli destinati alla scorta: focaccine, carne speziata, formaggi e dolci alla frutta.
Sedie al posto delle stuoie!
La locandiera, un'inquietante donna leone, si rivolgeva solo a Lita, preoccupandosi che entrambe gradissero il cibo. O si trovava in soggezione di fronte all'ospite di riguardo, o conosceva le usanze d'Eurasia, che proibivano di rivolgersi ai reali se non interpellati.
Non riuscì però a trattenere un sorriso, quando Malìa s'inebriò di un ottimo, delicatissimo sidro dal gusto ingannevolmente leggero.
«Ho bisogno di prendere un po' d'aria...» gemette la principessa, alzandosi da tavola e cercando di riconquistare l'equilibrio, puntellando bene i piedi per terra.
«Non fatico a crederci, Malìa!» rise Lita, servendosi dell'altro dolce. «Precedetemi in cortile, a breve vi raggiungerò».
I sensi appannati dall'alcol, alla giovane parve di impiegare ore a farsi largo in quella specie di bivacco di bestie antropomorfe che continuavano a versarsi, senza remore, enormi boccali di birra schiumosa.
Bionda, come la chioma del rinnegato che le aveva ceduto il passo poc'anzi.
La guardava, ora, in un modo che le parve addirittura lascivo, così se la diede a gambe, suscitando la goliardica ilarità generale.
Che cosa pensano, questi selvaggi, che sia una specie di servetta disponibile?
Se non altro, nessuno si era azzardato a metterle anche solo un dito addosso, altrimenti...
Altrimenti niente.
Era sola, da qualche parte, in una terra senza dèi, checché Lita ne dicesse.
Avrebbe dovuto farci l'abitudine.
Soffoco.
Nel giardino, piante d'ulivo gettavano ombre contorte.
Al centro c'era una fontana circolare, simile a quella del cortile interno della reggia di Fashtos, ma senza statue.
Con circospezione, si sfilò i guanti, si tolse la gorgiera e slacciò un paio di alamari sul collo. Poi s'inumidì il viso per scollarsi dalla pelle l'odore intenso che le permeava le narici: un misto di sudore e grasso liquefatto.
Si chinò per specchiarsi e le parve di avere un'aria davvero stravolta!
Fu allora che il pettine d'argento che le raccoglieva i capelli sul capo scivolò nell'acqua, sollevando un piccolo spruzzo e disegnando una serie di lucidi cerchi.
«Oh, no...» gemette Malìa, mentre l'acconciatura si disfaceva inesorabilmente.
Con un sospiro, arrotolò le maniche del vestito e si sporse oltre il bordo della vasca. Quando immerse un braccio nell'acqua, cacciò un gridolino di disappunto. Però era anche piacevole, quella frescura!
Solo che non ci arrivava.
Per quanto si sforzasse, l'acqua era troppo alta e la sua mano non riusciva a raggiungere il pettine. Per prenderlo avrebbe dovuto bagnarsi il vestito.
«Posso aiutarvi?»
Solo per un soffio non si ritrovò a mollo.
Ancora lui, l'uomo leone con gli occhi strani.
A.Mara Cortes
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