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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Nico Mele
Titolo: Pietranuova
Genere Saga Familiare
Lettori 278
Pietranuova
Asmara, 12 dicembre 1939.

Un rosso vivo e denso stava tingendo il cielo, incorniciando la sagoma del campanile della Cattedrale che si elevava sui tetti dei caseggiati bassi e modesti, visibili ai piedi del viale che scendeva verso la città, spezzando la monotonia dei campi incolti ove spiccavano solo delle sparute piante di fichi d'india.
Giuseppe sedeva a fine giornata tra i suoi operai che ancora armeggiavano attorno ai gradoni della fontana Mai Ja Ja, chi intento a disporre le ultime marmette sulla scalinata, chi a intonacare il bordo della vasca, chi invece già impegnato a riporre le attrezzature. Da quando avevano iniziato quella costruzione nel nascente quartiere di Ghezzabanda, gli piaceva terminare lì il suo consueto giro tra i cantieri disseminati attorno alla città; guardare la fontana crescere e immaginare l'acqua sgorgarne imperiosa in zampilli più alti delle palme, gli schiamazzi dei bambini coi piedi nei vasconi e le strade attorno, nuove di zecca, brulicanti di asmarini che pian piano stavano popolando le tante villette con giardino che sorgevano nei dintorni. Quella collinetta verde così innaturale quanto suggestiva, con una parete verticale a picco su Asmara, riccamente popolata di farfalle e uccelli e frutti di ogni tipo, un tempo rifugio delle bande irregolari e poi insediamento delle truppe italiane in partenza per l'Etiopia, era stata unita alla città da un ampio viale e trasformata in un grande cantiere a cielo aperto che ne stava facendo una zona residenziale per i tanti stranieri in cerca di fortuna, sedicenti coloni di una terra già abitata.
Solitamente la visione quasi onirica di ciò che avrebbe costruito gli riempiva il cuore ben più di quanto il denaro, che indiscutibilmente andava accumulando, potesse riempirgli le tasche. Adesso invece vedeva solo dei gradini ancora grezzi, una catasta di piastrelle e cumuli di polvere, a cui si sovrapponeva il volto di Zeudi.
Continuava ad associare il viso incantevole e ancora levigato di quando avevano trascorso uno degli ultimi giorni spensierati sulla spiaggia di Massaua con la voce affaticata e biascicata con cui lei aveva inteso dirgli addio il giorno prima.
Finì di aggiornare sul suo taccuino i lavori del giorno e se ne andò senza salutare gli operai, né fermarsi a bere dal suo amico Mario.
Casa dei genitori di Zeudi, ai margini del villaggio eritreo, era ancora piena di gente; la famiglia della donna aveva acceso candele e ceri attorno al corpo vestito di bianco e continuava ad alternare preghiere e lacrime. Evitò qualunque contatto e uscì nel giardino dove, tra rigogliose euforbie e spinosi belés, un gruppo di bimbi attorniava la sua piccola; appena lo vide lei gli andò incontro stringendogli la gamba.
La prese in braccio, guardandola negli occhi verdi, chiara eredità paterna, le sorrise.
Sentì ancora le parole di Zeudi riecheggiare nell'aria nel suo delizioso italiano incerto, mentre il volto si andava dissolvendo.
«Sei un uomo buono, Giuseppe. Pensa tu a Italia. So che te ne andrai. So che tornerai nella tua terra. Porta con te tua figlia.
Poi Zeudi aveva aggiunto: «Solo l'acqua può scorrere dove vuole. Ricordalo». Glielo aveva detto in tigrino, come faceva spesso quando Giuseppe era convinto che tutto si potesse fare e che era lui l'unico artefice del suo destino. E lei invece gli rammentava che non era così. Che era il destino a scegliere. Sempre. E ne era più che mai convinta, in quel momento.
Ripose la bimba sul prato e pensò che non avrebbe mai visto la fontana Mai Ja Ja nel suo pieno splendore.
Si girò verso la figlia e le disse sorridendo: «Italia. Sei mai stata su una nave?».

Segrate, 7 aprile 2019
Alessandra siede accanto al letto e guarda la nonna ormai agonizzante: alterna momenti di lucidità, in cui riesce ad aprire gli occhi e parlarle, ad altri, sempre più frequenti, in cui la morfina prende il sopravvento, alleviando i dolori ma offuscandole la mente. Ha posato sul comodino il vassoio con il tè che adesso le farà sorbire lentamente; la domenica l'infermiera arriva più tardi e a lei non dispiace assolvere all'incombenza di imboccarla che anzi considera un momento di intimità.
Nell'attesa che si svegli, esce sul grande luminoso terrazzo pieno zeppo di piante che inizia a innaffiare: il cielo terso rende l'aria particolarmente frizzante e offre una vista ampia di quel polmone verde quanto artificiale a pochi passi dalla frenetica metropoli. In quell'appartamento di lusso Alessandra ci è nata, quasi trent'anni fa, e ci ha vissuto a lungo se non fosse per tre parentesi, brevi e turbolente.
Non aveva neanche un anno, infatti, quando i suoi genitori coronarono l'entusiasmo del loro amore giovanile sistemandosi finalmente in un delizioso appartamentino nel centro di Milano, che doveva assurgere, nei programmi dei due innamorati ventenni, a nido d'amore nonché a teatro di feste notturne e trasgressive. Ben presto però ai ritmi ipnotici del britpop sparato a tutto volume e ai gemiti degli amplessi consumati furiosamente in ogni angolo del loft, si sostituirono le grida isteriche e rabbiose e il rumore di piatti e oggetti scagliati sui muri e solo il rancore rimase a galleggiare nei fiumi di alcol che scorrevano sin dal mattino. Alessandra quindi tornò dalla nonna paterna col padre mentre la madre iniziò a intervallare periodi di forte depressione a soggiorni in cliniche per alcolisti e qualche sporadico mansueto ritorno a casa. L'ultima volta che li vide insieme fu il giorno della sua prima comunione quando Giuseppe e Barbara recitarono alla perfezione il ruolo dei genitori, accompagnandola all'altare e organizzandole poi una vera festa all'Idroscalo che la nonna fu ben contenta di finanziare. Erano bellissimi quel giorno e lei fu orgogliosa. Per la prima e ultima volta. Le origini eritree di Giuseppe si sublimavano nella carnagione scura dai lineamenti decisi e nel portamento leggero ed elegante avvolto nell'abito color carta da zucchero che indossava, in piacevole e armonico contrasto con la bellezza quasi eterea di Barbara che, la pelle bianca e i lunghi capelli biondi, era stata incastonata in un raffinato vestito verde smeraldo.
Tre giorni più tardi Giuseppe perse la vita in un incidente stradale mentre alle prime luci dell'alba rincasava da una lunga notte di bagordi. Barbara resistette qualche mese a farle da madre, cercandosi un lavoro perché, diceva, voleva riappropriarsi della propria vita e trovare la sua strada. Questa laboriosa ricerca la condusse in Grecia nella prima estate del nuovo millennio; qui conobbe un surfista che decise di seguire sul Mar Rosso dove si innamorò di un regista inglese di origini egiziane con la passione per la cocaina. Si trasferì con lui nel Kent, annunciando alla figlia che presto le avrebbe chiesto di raggiungerla, ma il ricongiungimento durò solo per un breve periodo natalizio.
Alessandra tornò per la seconda volta a vivere nello spazioso attico con la nonna e, molti anni dopo, la notizia della morte della madre per un'overdose di alcol e barbiturici, non offuscò i festeggiamenti per la laurea appena raggiunta.
Quando rientra nella stanza, la nonna ha aperto gli occhi, due spilli di un verde ormai stinto.
«Alex, devi fare una promessa a tua nonna».
«Nonna Italia... Buongiorno. Lo so, innaffierò sempre le tue piante, stai tranquilla, sono in buone mani. Soprattutto le tillanse, solo acqua nebulizzata una volta alla settimana, giusto?».
«Tillandsia si chiama» puntualizza Italia.
Alessandra torna a guardare quelle strane piante con cui la nonna ha riempito la parete del terrazzo: uno strano intrico di foglie molto lunghe e filiformi, intrecciate e appese alla parete, con dei fiori variopinti.
«Non ho capito cosa ci trovi in queste piante, nonnina. Ne hai riempito il terrazzo».
«Sono piante che vivono senza terreno e senza radici. Vivono assorbendo dall'aria circostante tutto quello che gli serve. Sono come me. Senza radici». Una smorfia di dolore si dipinge sul volto avvizzito e Alessandra accorre. La sistema meglio nel letto, porgendole un cucchiaino di tè.
Le piace ascoltarla, l'ha sempre trovata un po' buffa, con la sua voce che pur mantenendo l'inconfondibile timbro africano si è piegata all'accento milanese e rende musicale anche qualche spigoloso termine dialettale barese che ha mantenuto nel tempo.
«Mi ha detto la fioraia che quei fili sono i capelli di una giovane sposa spagnola, che le furono tagliati dai pellirossa come avvertimento al marito che aveva invaso i loro territori con le sue piantagioni. Glieli fecero trovare sugli alberi. E da allora cresce così, senza radici». Un'altra fitta di dolore, un'altra smorfia.
«Piano nonna, non ti stancare. Te lo prometto, le innaffierò sempre. Anzi, appena starai meglio, lo faremo insieme».
«Oh, sciocchina. Non era quella la promessa. E lo sai, non starò meglio: è giunta la mia ora». La nonna scuote leggermente la testa.
«Quando muoio, devi farmi cremare. E le mie ceneri le devi portare dove ho vissuto io, in Puglia, nel laghetto sulla Selva».
«In Puglia? Davvero ci tieni così tanto? Non mi ci hai mai portato...».
«Mi porterai tu». Un impercettibile sorriso prova a coprire la fatica.
«Perché laggiù poi? Non è lì che abitano quei tuoi parenti? Non ti hanno mai cercata in tutti questi anni...».
«E io non ho cercato loro. Sai a volte l'orgoglio ci porta a intraprendere delle strade a senso unico...» ribatte la nonna stancamente.
«Lo so nonna, lo so» riflette ad alta voce, ripensando alla sua terza parentesi lontana da quella casa, quella che non ha mai avuto il coraggio di raccontarle.
Alessandra era un architetto e da subito si cimentò in faticosi tirocini presso prestigiosi studi tecnici e contemporaneamente provò ad addentrarsi nei meandri dell'Università, alla ricerca di una collocazione che le desse la possibilità di esprimere ciò per cui aveva studiato e in cui credeva fermamente. Presto dovette accorgersi però che per coniugare la bellezza col benessere delle persone avrebbe dovuto passare diligentemente per noiose pratiche burocratiche e banali disegni che le venivano affibbiati, lunghe relazioni di ricerche che non avrebbe mai firmato oltre che schivare le lunghe mani di qualche dotto barone.
Non seppe pazientare abbastanza. Messa quindi nel cassetto la laurea in architettura, seppur raggiunta con caparbietà e sacrifici, Alessandra iniziò a lavorare nel mondo del web e coniugando la sua inventiva con l'assoluta dimestichezza nell'uso delle tecnologie si ritagliò un promettente ruolo di social media designer in un'agenzia milanese. Incaricata del lancio sui social del brand della Gizzy, un'improbabile miscuglio dolciastro e frizzante a base di gin, nuova bibita per teenagers, conobbe Maurizio, il rampante imprenditore che l'aveva ideata, e fu amore a prima vista, tanto che nel giro di due mesi traslocò con lui piena di entusiasmo in un appartamento preso in affitto.
Era la prima volta che apriva a qualcuno le porte del suo cuore che fino ad allora aveva tenuto al riparo, protetto dietro un'apparente anaffettività. Le poche persone che frequentava, che si proclamavano suoi amici, la chiamavano la Fredda; furono i primi a essere stupefatti dalla potenza con cui la travolse quella passione, improvvisa e totalizzante. Infatti la videro sempre meno.
Ma quell'amore, che riteneva tanto intenso quanto irripetibile si estinse altrettanto rapidamente com'era divampato, assumendo perfino i contorni della banalità, quando lei gli annunciò che ne portava in grembo il frutto. Seppe allora che lui aveva due figli e che era solo temporaneamente separato visto che la moglie sarebbe tornata di lì a poco dopo aver concluso il suo contratto di ricerca all'Università di Boston.
Fu come ricevere un pugno in pieno volto. Alessandra si chiuse in casa per giorni, senza alzarsi dal letto, irreperibile per tutti. Non volle mai rispondere alle continue chiamate dell'uomo, né ai suoi messaggi coi quali questi provò in tutti i modi a dichiararle il suo amore sincero, a prometterle una vita insieme, a giurarle che era con lei che voleva vivere. Si era sentita tradita e presa in giro e questo le era bastato.
Cancellato il grande amore, Alessandra lasciò anche il lavoro e, scoprì qualche giorno più tardi, perse anche il bambino forse per lo stress accumulato o forse perché la natura aveva deciso che fosse meglio così.
Così, dopo neanche un anno, tornò a bussare, gli occhi pesti e le valigie in mano, alla porta di nonna Italia che le disse semplicemente «Bentornata» e l'abbracciò mentre lei, finalmente, scoppiava in un pianto dirotto. Non le aveva chiesto niente. L'aveva solo accolta, lasciandole il tempo di leccarsi le ferite.
Alessandra adesso la guarda. È stata una madre per lei. Unica presenza costante nella sua vita, in cui troppe persone importanti erano state fugaci comparse, eppure di una discrezione tale che solo negli ultimi tempi, quando la lavava o le faceva compagnia, raggiunta una certa intimità, le raccontava qualcosa di sé. Ma sente di conoscerla così poco che le vorrebbe fare ancora tante domande; su di lei, sulla sua infanzia, sulla sua famiglia.
«Allora hai ancora delle radici laggiù?».
«Non lo so. Ma voglio assorbire quell'aria per sempre». Con una mano fa segno di non volere altro tè. Un'altra fitta di dolore le fa socchiudere gli occhi e increspare il volto rugoso.
Che idea, farsi portare in Puglia. Dopo tanti anni e dove ancora vive la sua famiglia, quella dalla quale è fuggita, o che forse l'ha allontanata. Alessandra non lo sa, non li ha mai incontrati: ha solo sentito parlare sporadicamente degli Armenise, come dei parenti costruttori pugliesi. Pensandoci, non ha nessuna voglia di conoscerli.
«Sai... lì sono stata felice» sussurra Italia. «Nonostante tutto, non riesco a odiare i miei ricordi in quella terra». Tossisce. Un colpo che scuote il corpo minuto.
Alessandra le sistema la flebo, regolandone il flusso. Le carezza il viso, la pelle che sente ancora liscia pur se ormai profondamente solcata ha mantenuto quel colore bruno che si è conservato, attenuandosi, nella gradazione ambrata della pelle di Alessandra. Le sfiora i capelli.
«Come sta?». La sorprende la voce dell'infermiera, appena entrata.
«Sta. Sempre uguale. Dorme, qualche volta apre gli occhi. Senti, sta cercando di parlare adesso».
La voce di Italia adesso è fioca, trascinata, un soffio.
«Anche mamma è lì. Cercala... è bellissima».
«Adesso riposati nonna».
«Parlava della madre?» le chiede l'infermiera.
«Sì...e della Puglia. Mi ha chiesto di riportarla dove ha vissuto in gioventù».
«Qualche sera fa ne ha parlato a lungo. Era sotto l'effetto della morfina. Diceva di non aver mai ricordato il volto di sua madre. L'ha conosciuta solo tramite un'immagine che vedeva da piccola in qualche posto in Puglia. Non so se una foto, o forse no, ha parlato di un dipinto, sì un dipinto che voleva ritrovare».
«Non ne sapevo niente. Ha parlato sempre così poco di lei...». Alessandra guarda l'infermiera controllare il macchinario cui la nonna è attaccata da giorni. Quando le dissero che non c'era molto da fare ha preferito portarla a casa, farle trascorrere lì con lei gli ultimi giorni e starle vicino come Italia ha sempre fatto con lei. E così è stato.
Mentre tira nervosamente la prima boccata alla sigaretta che ha acceso, guarda sul suo smartphone la distanza che la separa dalla Selva di Fasano. Non ha nessuna voglia di fare quel viaggio; tanto meno di incontrare gli Armenise, sicuramente odiosi e supponenti, però sente che quel viaggio lo dovrà fare e subito. Lo deve alla nonna. La porterà lì.

«Signora, Italia è entrata in coma».
Per quanto si fosse preparata a quel momento, non era pronta. Non lo sarebbe stata mai. Alessandra si sdraia accanto a Italia e l'abbraccia stretta.
«Stai tranquilla nonna, ti accompagno io».
Nico Mele
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