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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Mauro Drago
Titolo: Le tue parole
Genere Romanzo Storico
Lettori 139 2 2
Le tue parole
Manfredi Benvenuti aveva vissuto la sua infanzia in una famiglia modesta, composta da due genitori che erano pronti ad ogni sacrificio per regalargli un futuro dignitoso.
Sognavano per lui, forse in maniera riduttiva, un impiego sicuro, un'istruzione adeguata ed economicamente non troppo dispendiosa e una famiglia che avrebbe costruito nelle maniere convenzionali, con le proprie possibilità.
Manfredi era l'unico figlio di quella coppia di operai conosciutisi presso la Regia Manifattura Tabacchi di Torino che, dopo essere scappati, entrambi, dalla miseria della campagna, con tanti sacrifici e il loro rispettoso amore, erano riusciti ad acquistare un appartamento a Regio Parco, zona dove entrambi lavoravano.
Una famiglia “normale”, una come tante delle classi operaie dei primi del ‘900 torinese.
Emanuele, il papà di Manfredi, oltre a lavorare alla Regia Manifattura Tabacchi svolgeva, quando poteva, altri lavoretti extra che gli permettevano di scambiare prodotti e favori con gli altri operai suoi colleghi e che, a loro volta, lo ricambiavano.
La sua disponibilità e il suo modo di interagire con gli altri gli fu particolarmente utile durante i primi anni di vita di Manfredi, perché spesso aveva necessità che qualcuno coprisse i turni scoperti della moglie, dandole la possibilità di mantenere il proprio impiego e di crescere al meglio il suo figlioletto.
Emanuele e la moglie non pensarono mai di averne altri, perché non volevano dividere con nessuno quello che era il loro unico scopo di vita e la loro più grande gioia.
Per loro esisteva loro figlio e basta.
Manfredi visse così, un'infanzia comune a tutti i bimbi della sua età, ma raggiunta la fanciullezza cominciò a sentirsi inadeguato e inadatto agli usi e agli interessi dei suoi coetanei.
Era come se non avesse l'esigenza di integrarsi e di adeguarsi ai generi comuni, come se non volesse sviluppare nessun senso di appartenenza per nessuna cosa.
E nel processo di integrazione di certo non lo aiutavano le cattiverie dei ragazzini della sua età che, vedendolo sempre riservato e sempre distante dai loro modi usuali, non mancavano di emarginarlo da ogni combriccola.
E così giorno dopo giorno, anno dopo anno, quel bambino sempre più fragile e sempre più solo non ebbe altro che la compagnia dei suoi genitori, dei suoi libri e delle pareti della sua stanza, dove quasi sempre si nascondeva e chiudendo gli occhi si lasciava cullare e trasportare dai suoi pensieri, in quei mondi incantati e stupendi che solo la fantasia di un ragazzino sa creare.
Ma non era del tutto solo in quella stanza dove ogni sera finita la cena si rintanava per finire i suoi compiti, oltre a lui c'era la musica che proveniva dall'abitazione limitrofa, le note che la signora Adele Ricolmi, puntualmente e alla stessa ora, faceva vibrare durante i suoi esercizi al pianoforte.

Natale 1911, la cena a casa di Adele
La Signora Ricolmi, vedova del notaio Pascali, era una persona rispettabilissima della Torino di quegli anni, una donna con un viso dai lineamenti nordici, con lunghi capelli biondo scuro arrotolati dietro le spalle e vestiva in abiti da vera lady.
Nata da genitori modestissimi, aveva vissuto la sua infanzia a Millefonti , si era sposata appena sedicenne con l'anziano notaio contro il suo volere e con l'imposizione compiaciuta della sua famiglia che vide in quella proposta di matrimonio un futuro brillante per la loro ragazza e forse anche per sé stessi.
Ma per la deliziosa e giovane Adele non fu altro che una prigionia militare, costretta ad impersonare la perfetta moglie di un rispettabilissimo quanto insopportabile consorte, e ora che era quasi quarantenne e vedova da un anno, portava con regale eleganza gli abiti scuri in segno di un falso rispetto che doveva ad un uomo che non aveva mai né amato né sopportato.
Adele, dopo la morte del marito, sentendosi finalmente libera da qual carcere, aveva abbandonato Villa Pascali e si era trasferita anch'essa in un appartamento a Regio Parco, portando con sé, oltre che i suoi sontuosi vestiti, tutto ciò che aveva accumulato durante il periodo vissuto con il suo consorte.
Amante dell'arte e della musica, la sua casa era un tempio dedicato e devoto ad ogni forma artistica conosciuta fino ad allora.
Ogni stanza era in perfetta sintonia con l'arredo e, quest'ultimo, un tutt'uno con le tante opere presenti nella casa che aveva accuratamente posto su dei piedistalli in legno intarsiato, che più che far da supporti erano essi stessi dei veri capolavori.
Il buon gusto, la conoscenza e l'amore per l'arte che aveva coltivato nella sua vita, vissuta a sottrarsi ai doveri matrimoniali con ogni espediente, avevano fatto di quella casa un vero e proprio museo.
Era anche lei una fruitrice dei favori di Emanuele Benvenuti, che spesso le faceva la spesa e qualche volta anche piccoli lavoretti in casa, e poiché a volte lui non si faceva nemmeno pagare, Adele volle disobbligarsi invitando tutta la famiglia a passare con lei la sera del Natale del 1911.
Appena entrati in casa di Adele, i coniugi Benvenuti furono subito accolti dal sorriso e dai modi gentili della splendida Signora Ricolmi, che dopo la dipartita del marito, oltre a cambiare casa aveva anche licenziato tutta la servitù.
Manfredi appena undicenne porse alla gentile signora il pacchetto di cioccolato Caffarel, che le avevano portato e che, sicuramente, era stato racimolato dal padre in uno dei suoi innumerevoli scambi.
Era probabilmente un regalo riadattato, ma per nulla inadeguato, e rendeva perfettamente omaggio all'inaspettato invito dell'affascinante signora.
Adele, ormai libera da ogni imposizione del marito che la obbligava a frenare le sue frivole dimostrazioni di affetto verso chiunque, si abbassò a ricevere quel dono e avvicinandosi al ragazzo lo baciò sulla guancia, tenendolo stretto a sé come forse non aveva mai fatto con nessuno da tempo.
Il profumo e le labbra morbide di quella signora così affascinante fecero colorare le guance di Manfredi e lo fecero sentire desiderato, forse per la prima volta nella sua vita, da una donna diversa da sua madre.
Manfredi, infatti, non era molto tenuto in considerazione dalle ragazzine sue coetanee, sicuramente per il suo comportamento introverso e inusuale, probabilmente perché non era in grado di farsi notare.
Finiti i convenevoli, i tre preceduti dalla padrona di casa, furono condotti nella sala da pranzo adiacente la cucina, attraverso un corridoio che, per quanto era tappezzato di quadri, non si riuscivano più nemmeno a vedere di che colore fossero le pareti.
Ma a metà percorso, una porta aperta, distrasse Manfredi.
Era la stanza nella quale l'adorabile signora teneva i suoi strumenti e dove, ogni sera, suonava le melodie ascoltate dal ragazzino.
Alla vista dei tanti strumenti e degli spartiti perfettamente posizionati e ordinati all'interno di quella camera, Manfredi si paralizzò, tanto che non riuscì più nemmeno a muoversi.
Fu come stregato dalla meraviglia di quel pianoforte che aveva solo ascoltato fino ad allora, e non riuscendo a smettere di guardarlo, si rese conto che finalmente i suoi sogni avevano una forma ben definita.
C'era anche una grande libreria posizionata su una delle pareti e in essa, disposti in ordine quasi maniacale più raccolte di libri; tutti rilegati con splendide copertine in cuoio e su di esse, impresso con foglia d'oro, il fregio raffigurante lo stemma della casata dei Pascali.
Tutti si accorsero di quanto gli occhi di quel ragazzo fossero lucidi e divisi tra la meraviglia di quello strumento e l'incanto di quei libri, ma non potevano lasciarlo guardare oltre, dovevano proseguire la serata e seguire la padrona di casa.
Per tutta la serata Manfredi non toccò cibo, era come se la sua mente fosse presa da un unico pensiero, sentire quelle corde vibrare e magari poter leggere uno di quei meravigliosi libri, poter finalmente chiudere gli occhi e sognare quei mondi incantati, nati nella sua immaginazione e ora, in parte, in procinto di materializzarsi.
Adele, di conto suo, vedendo lo sguardo assente del ragazzo, non poté non chiedergli un po' indispettita se la cena non fosse stata di suo gradimento, e lui, dimenticatosi per un attimo di tutta sua introversione, suscitando anche stupore nei suoi genitori, in una esclamazione inusuale per il suo modo di essere, ingenuamente le disse: «Vorrei tanto sentirla suonare.»
Quelle parole, così teneramente dette, fecero sorridere tutti e ancor di più la signora Ricolmi che cambiò subito l'espressione del suo viso e ribatté dicendogli: «Mangia tutto quello che hai nel piatto, soprattutto i tomini che mi hanno portato stamattina i miei cugini di Millefonti, freschissimi, e appena finita la cena andremo al pianoforte e suonerò per te, ma non prima di aver assaggiato i deliziosi cioccolatini che mi avete regalato. Io ne vado matta.»
Manfredi non riusciva a credere a quello che aveva sentito, mangiò un boccone dopo l'altro ogni cosa gli dessero, e con grande impazienza continuò a fissare Adele come se volesse imboccarla per farla mangiare più velocemente e trascinarla il prima possibile al pianoforte.
La cena, però, non fu così breve come sperava, Adele aveva una gran voglia di chiacchierare e di raccontare ai suoi ospiti quanto si sentisse sola in quella casa e quanto fosse triste per aver liquidato la servitù senza un vero motivo, trapelò perfino una nota di vittimismo, adornata da una forte dose di orgoglio che ormai le impediva di richiamarla a sé.
Erano ben calibrate le parole che usava, ma i discorsi che faceva un tantino contraddittori, tanto che tutti ne conclusero che Adele non avrebbe voluto la compagnia di una schiera di servitori, ma una compagnia più intima, magari di un uomo che riusciva finalmente ad apprezzarla e ad amarla per le sue doti e non per le sue forme.
Si percepiva quanta solitudine aveva provato in quella prigione dorata e quanto fossero false le parole di cordoglio che in quella cena pronunciò in ricordo del suo defunto marito.
Trapelava addirittura l'astio, colorato da un sottile alito di speranza e da una prepotente voglia di riprendersi la sua vita, che era stata venduta tanti anni fa, dai suoi genitori a quell'uomo mai amato.
E così, una chicchera dopo l'altra, la cena arrivò alla sua conclusione; tutti nel dissenso della padrona di casa aiutarono a sparecchiare e a lavare i piatti, anche Manfredi che non l'aveva mai fatto in casa si adoperò, e forse più di tutti, perché il suo unico pensiero era quello di vedere le dita affusolate e bianche di Adele poggiarsi sul pianoforte.
Nella sala da pranzo si creò un'inattesa armonia, come se quelle persone fossero state unite da sempre, particolari che non passarono inosservati agli occhi di Adele, che per un attimo riassaporò quella sensazione di famiglia per lei lontana e perduta, e sentendosi nel dovere di onorare la promessa fatta al ragazzo, finite le faccende, condusse i suoi ospiti nella stanza degli strumenti, sedette davanti al pianoforte, scelse uno spartito ben preciso e chiese a Manfredi, con il preciso intento di coinvolgerlo nella scelta, se le note di Franz Liszt fossero di suo gradimento.
Il ragazzo non ebbe nemmeno il coraggio di chiederle chi fosse costui e senza svelare la sua lacuna, annuì facendo un cenno con la testa che fece muovere vertiginosamente le mani di Adele Ricolmi su e giù per la tastiera.
Aveva scelto un allegro agitato così come era lei quella sera, sembrava che fossero i tasti e i pedali a guidare i suoi arti e non il contrario.
Era abbandonata alla musica con tutta sé stessa.
Riuscì persino a suonare con gli occhi chiusi e senza avere l'esigenza di leggere le note scritte su quel foglio che aveva davanti, non si accorse nemmeno che la fronte le brillò di piccole goccioline di sudore, né che i suoi ospiti trattennero per tutto il tempo il fiato per quanto erano catturati da quell'impeto improvviso e inaspettato.
Il furore di quella musica si placò, poco dopo, in un allegro moderato, e tutti nella stanza, finalmente, ricominciarono a respirare.
Era intanto giunta la mezzanotte e il Natale di quel 1911 era arrivato e aveva portato, per ogni persona che occupava quella camera, un'emozione apparentemente diversa, ma accomunata da una sola e grande gioia vissuta in quella serata inaspettata.
«Venitemi a trovarmi più spesso,» disse Adele, mentre accompagnava i suoi ospiti verso l'uscio di casa, finita la serata «e tu Manfredi quando vorrai sentirmi suonare, non esitare, vienimi a trovare e se vuoi ti insegnerò anche come si fa. Mi pare proprio che tu abbia una vera passione per la musica.»
Il ragazzo non credeva alle proprie orecchie, diresse lo sguardo verso il viso del padre, quasi a cercarne un'approvazione che, immediatamente lo smorzò dicendogli: «Se alla signora farà piacere, finita la scuola, potrai imparare da lei, ma a una condizione, che le darai una mano in casa per qualunque cosa le occorrerà.»
«Non serve,» replicò subito Adele, «la musica e l'arte sono di tutti e per tutti, i soli unici servigi vanno a lei.» Poi, accarezzando il capo del ragazzo, concluse dicendogli: «E sia! Se Manfredi vorrà imparare, finita la scuola può venire a prendere lezioni da me.»

Estate 1912, le lezioni di musica
«Cosa pensi di quella donna?» Chiese Emanuele Benvenuti alla moglie mentre varcavano la porta del loro appartamento molto più modesto e meno arredato di quello di Adele.
«Penso che abbia una grande voglia di vivere e di dimenticare, lo si legge dai suoi occhi e lo si sente dalle sue parole. Secondo me farebbe bene a togliersi quegli abiti scuri e a uscire da quell'appartamento. È così giovane.»
«Già!» Replicò il marito, «potrebbe anche risposarsi, ma non è affare nostro.» Concluse prima di andare a dormire.
Ma non tutti riuscirono subito a prendere sonno, Manfredi era con la testa poggiata alla parete a sognare ancora ad occhi aperti, senza riuscire a dimenticare la magia di quella serata e le note di quella musica a lui sconosciuta, così brillante e viva nelle mani di una donna così tenera e bella.
Pensava a quando avrebbe finito la scuola, a quando finalmente sarebbe entrato in quel sogno e in quella stanza a respirare il profumo che emanava il cuoio delle copertine dei libri dorati.
Perché viene il tempo per ogni cosa, per sognare e per crescere e anche per capire che i sogni possono essere vissuti e realizzati; ma, ahimè, viene anche un tempo per diventare consapevoli che quei desideri resteranno tali.
E purtroppo, a discapito di Manfredi, quell'amore per la musica non si realizzò mai.
Finita la scuola, così come convenuto con il padre, cominciò gli studi artistici a casa della signora Adele, che notò subito in lui una poverissima quanto inappropriata predisposizione verso la musica, ma come poteva dire ad un ragazzino che il proprio sogno non si sarebbe mai realizzato e che per lui non sarebbe mai stato una realtà?
Ma nonostante la sua poca predisposizione alle arti, Adele Ricolmi non cercò mai di dissuadere Manfredi, era troppo presa da ciò che gli stava dando, era troppo felice di avere finalmente qualcuno in casa con cui passare del tempo, qualcuno con cui condividere il suo amore per l'arte.
Lo indirizzò anche verso la lettura dei classici, affidandogli e raccomandandogli di averne cura, uno per volta i libri che custodiva gelosamente nella sua libreria.
Non fece parola con nessuno di quanto aveva percepito, era quasi fiduciosa che un giorno sarebbe riuscita a far di quel ragazzo un musicista, magari non capace di calcare palcoscenici importanti, ma di certo in grado di suonare un pianoforte.
Pensò pure che Manfredi, accorgendosi con il tempo di quanto fosse per lui improbabile riuscire a suonare, avrebbe mollato da solo.
Del resto, si sa, ogni ragazzo sceglie sempre e solo la via più breve.
Ma Manfredi incoraggiato dai suoi genitori e dalla sua voglia di riuscire, non ci pensava per nulla a mollare, anzi, in ogni giorno di quell'estate così calda, si recò a casa di Adele per imparare la musica e per leggere i suoi libri.
Imparò le prime nozioni basilari e da quelle poche regole, così perfette, intuì come la musica potesse cambiare gli animi delle persone.
Capì quanto potere avessero l'arte e le parole, quanto importante fossero diventati gli artisti che studiava e le loro celebri frasi, leggendone le loro vite nei libri di Adele.
Capì anche il perché della cura con cui lei conservava i suoi testi e da cui non si era mai separata, perché era stata quella l'unica cosa bella del suo matrimonio, quell'unica attenzione che il defunto marito aveva avuto nei suoi riguardi, che le permisero di accrescere il suo sapere e di coltivare il suo amore per l'arte.
E così, con la stessa costanza di sempre, il giovane Manfredi continuò a frequentare casa Ricolmi, ma quasi alla fine di quell'estate del 1912, le cose furono destinate a cambiare.
Era un giorno degli ultimi di agosto, Adele, che raramente usciva di casa e che ormai meno spesso apriva le finestre delle sue stanze, mentre era intenta a raccontare a Manfredi il suo grande amore per la musica di Felix Mendelssohn , della sua grande forza e del suo smisurato talento, sentì dei passi che provenivano dal soffitto della camera in cui erano.
Si rese subito conto che in quell'appartamento che sapeva sfitto, qualcosa stava accadendo, tanto erano il disordine e le urla che le arrivarono alle orecchie, e quel cicaleccio le suscitò curiosità e le fece intuire che qualcuno vi stesse trasportando dentro degli oggetti.
Adele ormai colta da quell'improvviso, quanto inspiegabile fremito di curiosità, sospese il suo racconto e si mise ad origliare cercando di percepire qualche parola.
«Cosa pensi che stia succedendo al piano di sopra?» Chiese a Manfredi, stupito dal ricevere una simile domanda, «magari abbiamo, qualche nuovo inquilino,» disse speranzosa al ragazzo, poi aggiungendo: «Non credi che potrebbe essere arrivato qualcuno ad occupare l'appartamento di sopra? Non sarebbe bello per te se nel nostro palazzo ci fosse una nuova famiglia? Magari con dei figli della tua età, qualcuno con cui socializzare e condividere le tue passioni? Non sei curioso di andare a vedere cosa succede? Potremmo far finta di andare in terrazzo a prendere un po' di sole e vedere cosa accade. Cosa ne dici?»
Ma non erano le risposte che Manfredi poteva darle a interessarla, quanto il voler dare risposte alle proprie domande, e per farlo prese il ragazzo e quasi trascinandolo su per le scale, lo condusse verso il terrazzo.
Giunti di fronte all'uscio di quell'appartamento e trovandosi impossibilitati ad oltrepassare il corridoio che era vistosamente pieno di bagagli e pacchi, Adele quasi intimidita da quelle presenze, con un filo di voce, chiese a uno di quegli uomini, che stava trasportando mobili e pacchi, di liberarle il passaggio, ma nessuno le rispose, tutti proseguirono il proprio lavoro, tanto che stavolta con tono più regale e alquanto altezzoso Adele replicò la sua richiesta, intenta questa volta ad ottenere udienza.
«Stiamo cercando di andare in terrazzo a prendere un po' di sole,» esclamò con l'intento di farsi sentire, «e i vostri bagagli e la vostra insolenza ci impediscono il passaggio, potreste farci strada e soprattutto imparare a rispondere alle richieste di una signora, quale io sono?»
«Perdonateci Signora,» disse una voce che simpaticamente giungeva dalle scale, «stiamo quasi per finire e comunque non era nostra intenzione trattenervi. Vi facciamo passare subito.»
Era un uomo sulla trentina colui che aveva pronunciato quella frase, alto sul metro e ottanta con i capelli lunghi e scompigliati, vestiva pantaloni beige e una camicia bianca semi aperta e giunto davanti ai due, con grande eleganza e educazione si presentò dicendo loro: «Mi chiamo Antonio Novara,» poi rivolgendosi verso Adele, «e sono incantato di fare la vostra conoscenza. Signora...?»
«Adele Ricolmi,» ribatté subito lei mantenendo il tono regale e le sopracciglia corrucciate.
«E questo ragazzo? Immagino sia il vostro figlioletto,» chiese lui, cercando di ammorbidirla facendo leva sul suo amore materno.
«No, signore,» disse Adele, «è il figlio dei miei vicini, i coniugi Benvenuti che sicuramente avrete modo di conoscere, sempre che siate Voi ad occupare questo appartamento.»
«Sono io,» replicò lui, «ho appena ottenuto un impiego di contabile alla Regia Manifattura Tabacchi e, da pochi giorni, su suggerimento di un mio collega, mi sono trasferito qui, ma avremo modo di chiacchierare e di conoscerci più in là, come vedete in questo momento sto ultimando il trasloco e per di più sono anche in un imbarazzante disordine, nell'abbigliamento e nella mia persona. Direi un modo poco galante di presentarsi ad una signora incantevole come Voi.» Concluse Antonio, suscitando in Adele un fremito di paura e di piacere che cercò di camuffare come poté.
Poi lei, continuando con il tono distaccato e imperioso che aveva assunto, gli disse: «E sia! Se lo vorrete, ma per il momento permetteteci di oltrepassare i vostri bagagli e di raggiungere il terrazzo.»
«Certamente!» Rispose l'uomo, «come vedete, gli uomini che sono con me lo stanno già facendo.»
Adele e Manfredi si voltarono e vedendo che quanto gli era stato riferito era la verità, salirono le scale e raggiunsero il terrazzo, ma lei non curandosi degli sguardi di tutti, fissò profondamente Antonio e lui, sorridendole fece altrettanto.
«Hai sentito Manfredi, quel signore andrà a lavorare dove lavorano i tuoi genitori, magari faranno pure amicizia,» disse speranzosa Adele più per sé che per loro e poi richiamandosi all'ordine concluse: «Dai su! Riprendiamo la nostra lezione.»
La lezione riprese, ma quel pomeriggio non fu come tutti gli altri, Adele volle concluderla in terrazzo senza pensare minimamente di rientrare, proprio lei che da tempo non aveva nemmeno aperto i balconi di casa sua per farvi entrare l'aria, ora voleva rimanere all'aperto. Anche i suoi racconti furono diversi, qualcosa in lei era improvvisamente cambiata, aveva assunto improvvisamente un'aria particolarmente felice e quei passaggi sulla vita dei musicisti erano diventati più piacevoli e la sua voce sempre più gradevole da ascoltare.
Non si accorse nemmeno dell'ora che era ormai tarda né della preoccupazione della madre di Manfredi che, non vedendolo tornare a casa, lo aveva cercato fin sopra il terrazzo, ma questa fu subito rassicurata vedendo il figlio con Adele e stupita dello strano sorriso con cui lei la salutò e la abbracciò.
Antonio Novara
Antonio Novara era un giovane molto brillante, prima di giungere alla Regia Manifattura Tabacchi, aveva prestato servizio come contabile alle Concerie Italiane Riunite.
Si era fatto notare da subito dagli industriali torinesi per le sue grandi doti finanziare e per la sua spiccata capacità di intrattenere le persone con cui dialogava nelle birrerie del centro cittadino, e in quelle delle borgate dove ogni tanto amava recarsi.
Era una persona molto estroversa, si definiva amante della poesia e della musica, lui stesso diceva che amasse comporre versi, ma soprattutto era un grande amante, icona delle giovani donne torinesi che facevano a gara per farsi notare ed essere osservate da quegli occhi di ghiaccio sempre sorridenti e penetranti.
Tutte rimanevano affascinate da quel giovane che con motivi poco noti e pochi chiari e che lui stesso ometteva intenzionalmente, era riuscito ad entrare a far parte del gruppo contabile della Regia Manifattura Tabacchi.
Non era per niente un tipo che passava inosservato e nulla di ciò che faceva era per caso, ogni suo gesto, ogni sua attenzione per qualcuno o per qualcuna aveva sempre uno scopo ben definito o un interesse preciso e spesso un doppio fine.
Aveva preso quell'appartamento in affitto in quel palazzo non curandosi della varietà di persone che lo abitavano. Ceti sociali promiscui, forse fin troppo diversi, ma non per lui che con i suoi modi affabili riusciva sempre ad affascinare e ad ammaliare chiunque, non gli importava a quale ceto, il suo interlocutore appartenesse, se Antonio avesse potuto trarne profitto, per lui sarebbero stati tutti uguali.
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