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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Giuseppe Zolli
Titolo: Rosso Natale
Genere Horror - Raccolta di racconti
Lettori 169 2 2
Rosso Natale
Natale col vampiro.

Quando la navetta si fermò davanti allo chalet, il sole era già tramontato. Gli ultimi echi del giorno tinsero le nuvole d'arancio, proiettando indecifrabili ombre sul fianco della montagna.
«Ultima fermata!» esclamò, laconico, il conducente.
La sua voce inespressiva ruppe il silenzio, che aveva accompagnato il viaggio. Sobbalzai. Poco dopo, il tintinnio del segnale acustico riverberò dagli altoparlanti, freddo e disturbante. Raccolsi lo zaino dal sedile di fianco e mi avviai verso l'uscita. L'uomo, spalmato nel sedile di guida, non mi degnò neanche di uno sguardo. Tuttavia, il ghigno, che si materializzò sulle sue labbra, allorché gli passai accanto, mi turbò non poco. Un brivido mi percorse la schiena. Desiderai solo uscire dal veicolo il più rapidamente possibile.
Una volta sceso l'ultimo gradino, la porta si richiuse con un cigolio meccanico ed il mezzo ripartì. Lo osservai ridiscendere verso la valle, mantenendo a fatica il suo precario equilibrio, mentre si faceva strada attraverso la neve. Il grigio e denso fumo, che lasciava dietro di sé, fu l'ultima cosa che riuscii a scorgere, prima che scomparisse alla vista. Mi raccolsi dietro la sciarpa, il gelo mi penetrava fin nelle ossa. Ma era un riparo ben misero. Lasciai sprofondare le mani nelle tasche e mi incamminai verso l'entrata dell'albergo.
Appena posi piede all'interno, venni travolto da una piacevole ondata di calore. La sala, piccola, ma accogliente, era rischiarata unicamente dal caminetto, che ardeva, scoppiettando, sulla parete di fondo. La proprietaria del locale mi accolse con un luminoso sorriso. Era una donna non più giovane, di questo ne ero certo. Ma, nonostante ciò, il suo fascino era magnetico, irresistibile. Le andai incontro, provando a celare il sottile imbarazzo, che la sua bellezza mi suscitava.
«Il signor Blackwell, presumo» esordì, allungandomi la mano.
La sua voce era melodiosa, ipnotica. Ne fui rapito all'istante. Come scuotendomi da quel magico torpore, ne ricambiai il saluto. Il tocco della sua pelle, liscia ed insolitamente fredda, mi provocò un inspiegabile disagio. Mi sforzai di non lasciar trasparire alcuna emozione.
«Buonasera, Miss Moreau» replicai. Il suo sguardo era arpionato su di me, come scrutasse nella mia anima. Mi sentivo avviluppato da uno strano torpore.
«Ha fatto buon viaggio?»
«Lungo, ma piacevole» osservai.
Quando ci separammo, provai sollievo, ma la sua presenza continuava ad opprimermi. Un nodo mi serrava la gola. Senza scomporsi, si voltò, dirigendosi al bancone. Le sue movenze, così sinuose e sensuali, mi lasciarono stupito. Ne ero assuefatto. La seguii con lo occhi finché non raggiunse le chiavi delle stanze, ordinatamente appese alla parete dietro la reception. Ne afferrò una, delicatamente.
«La sua camera è la 2512» annunciò, appoggiandola sul tavolo dinanzi a sé.
Mi avvicinai. Realizzai che non potevo evitare di distogliere lo sguardo da lei, ero come incantato. Le sorrisi, afferrando distrattamente la chiave. Quando provai ad allontanarmi, mi resi conto che non riuscivo a muovermi. Il corpo sembrava pietrificato. Lei, però, seguitava a guardarmi con dolcezza, senza mostrare nemmeno una minima reazione. Iniziai ad averne timore. Sentivo il sangue pulsare sempre più forte nelle vene. Una goccia di sudore mi rigò il viso. Poi, finalmente, i muscoli risposero nuovamente ai miei comandi. Inspirai. Senza esitare, misi la chiave in tasca e mi affrettai alle scale verso il piano superiore.
«Buonanotte, signor Blackwell» la udii pronunciare, mentre salivo nervosamente i gradini.
L'incontro con Amelie Moreau mi aveva scosso profondamente. Quella donna, così distinta e affascinante all'apparenza, era per me fonte di sentimenti contrastanti. Mi sentivo drenato, come se tutte le energie mi fossero state risucchiate via.
Che sciocco, conclusi.
Stanco e assonnato, mi accasciai sul letto, lasciandomi cullare dal candore delle lenzuola profumate. Il mio ultimo pensiero fu per lei e per l'ardente desiderio di essere pervaso dal suo dolce aroma.
Quando mi ridestai era notte inoltrata. La stanza era immersa nel silenzio e la bianca luce della luna baluginava spettralmente sulle pareti. Inaspettatamente, avvertii un brivido corrermi lungo la gamba e poi ancora più su, fino al petto e alle braccia. Feci per mettermi a sedere, ma qualcosa mi trattenne. Allorché la vista si fece più chiara, notai un'ombra, priva di lineamenti, sopra di me. Il suo tocco era così suadente, eccitante. Le sue mani così lisce e fredde. Le unghie spingevano contro la carne. Mi baciava. Mi assaporava. Ne percepivo il tocco della lingua, umida, ma così piacevole. Ero in estasi. Il velo di tenebra sul suo volto svanì, lasciandomi sprofondare nel nero abisso dei suoi occhi.
«Amelie!» esclamai.
Mi sorrise. Le nostre labbra si fusero. Le nostre anime si intrecciarono. Quell'attimo di passione sembrò durare in eterno. Ne volevo di più, sempre di più. Fu lei a distaccarsi da me per un istante, sporgendosi verso il mio orecchio.
«Buon Natale, Adrian» mi sussurrò.
Chiusi gli occhi. Sospirai. Decisi che le avrei concesso di fare di me ciò che desiderava. Qualunque cosa. Quando le sue zanne affondarono nel mio collo non opposi resistenza e accettai il mio destino con abbandono.

Erano circa le sette di sera quando arrivarono. Le auto della polizia si riversarono nel vialetto del mio vicino, sul lato opposto della strada. I lampeggianti blu squarciarono l'imperturbabile oscurità della notte, risuonando come echi di un mondo lontano. Appoggiato al davanzale della finestra, tentavo di scrutare oltre l'impenetrabile muro di agenti in divisa. Ero turbato, questo è vero, ma la curiosità ardeva dentro di me, troppo intensa per essere ignorata. Il mio alito appannava il vetro, trasformandolo in una tela su cui prendevano forma misteriose ed eteree figure. In quelle sagome sfocate, mi pareva di scorgere i volti delle terribili creature, che popolavano i racconti del folklore.
«Vieni via» mi ripeteva, preoccupata, mia madre.
Il tocco della sua mano sulla spalla mi confortava, mi dava coraggio. Ma, come per tutti i bambini, la volontà di esplorare l'ignoto era irresistibile. Alla fine, si arrese alla mia reticenza a seguire i suoi consigli e andò a dormire.
«Non fare tardi» si raccomandò «altrimenti Babbo Natale non ti porterà i regali.»
Rimasto da solo e al buio, osservavo le luci dell'albero proiettare il mio riflesso nella finestra. Sembrava di scrutare in un mondo al di là dello specchio. Deglutii.
Stupido fifone, pensai.
Sforzandomi di non dare sfogo alla mia immaginazione, già molto sviluppata, focalizzai la mia attenzione sulla scena del crimine. Quando i poliziotti si scostarono, intravidi, ai loro piedi, la figura di un uomo grosso e alto, completamente immobile. Aveva una lunga e folta barba, il cui candore, macchiato di scarlatto, mi fece trasalire. Il suo vestito non lasciò spazio ad interpretazioni: Babbo Natale era morto. Alcune persone ne adagiarono il corpo su una lettiga. Lo coprirono con un lenzuolo e lo trasportarono nell'ambulanza. In pochi istanti, le sirene presero a cantilenare la loro nenia e il veicolo partì. Lo guardai allontanarsi lungo il viale alberato, fino a dileguarsi nelle insondabili tenebre della notte.
Piansi. Non riuscivo a trattenermi, fiumi di lacrime mi solcarono il volto. Scossi la testa. Continuavo a ripetere quella laconica negazione con un filo di voce, come se le mie parole potessero finalmente risvegliarmi da quell'incubo. Mi voltai e mi accasciai, singhiozzando, sul divano alle mie spalle. Restai lì per un tempo inquantificabile, con la faccia sprofondata nel cuscino e le braccia avvolte attorno ad esso come in un abbraccio lenitivo. Alla fine, il sonno giunse a reclamare ciò che gli apparteneva. Non opposi resistenza. Lentamente, il dolore scivolò via. E mi addormentai.
Venni svegliato di soprassalto, nel cuore della notte, da un rumore sordo e inaspettato. Indolenzito, balzai in piedi. Il cuore batteva forte. Mi guardai attorno, senza scorgere nulla di strano. Pensai fosse stato solo un brutto sogno, ma, poco dopo, lo udii ancora. Proveniva dalla stanza accanto, laddove l'albero continuava a tingere le pareti con le sue luci dai mille colori.
È tornato, gioii.
Animato da una traboccante felicità, mi fiondai verso il salotto. Il rumore dei miei passi rimbombava, cupo, nel silenzio della casa. Non m'importava. Volevo vederlo. Volevo finalmente incontrare colui che credevo di aver perso per sempre. E così fu. Era alto, grosso e indossava il suo tipico abito rosso con gli stivali. Istintivamente, però, notai qualcosa di sbagliato in lui. Le sue mani erano livide, gonfie. Le sue braccia ciondolanti. Il vestito, sporco e logoro, emanava un forte olezzo di marcio. Allorché si voltò, riconobbi quella lunga e folta barba bianca, macchiata di scarlatto, che avevo intravisto poche ore prima. Mi sorrise. E, in quell'istante, mi sentii paralizzato da un terrore viscerale. Avrei voluto urlare, chiamare il nome di mia madre. Ma la bocca non si aprì. Poi, le sue labbra si schiusero, mostrandomi quegli orribili denti, gialli come la paglia e affilati come rasoi. Con un movimento innaturale, si piegò verso di me. Avevo il suo terrificante volto dinanzi al mio. Provai a scuotermi da quel torpore, ma invano. Riuscii solo ad emettere un patetico mugolio. Se ne compiacque. Alla fine, quel mostro mi parlò.
«Buon Natale, Jeffrey» tuonò.
La sua voce cavernosa mi risuonò nel petto e, per un attimo, pensai stesse reclamando la mia anima. La testa mi scoppiava. Sentivo il suo fetido alito pervadere il mio corpo. Feci per vomitare. Tuttavia, proprio quando iniziavo a riappropriarmi di me stesso, vidi le sue mani allungarsi sul mio viso. Quel gelido tocco mi fece rabbrividire. Poi, le sue dita presero a stringere sempre di più. La mia vista si annebbiò, ma, prima di perdermi nell'oscurità, udii una risata. Non ebbi tempo di provare alcun dolore. In breve, era tutto finito.
Giuseppe Zolli
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