|
Writer Officina Blog
|

Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
|
|
|
|
Conc. Letterario
|
|
Magazine
|
|
Blog Autori
|
|
Biblioteca New
|
|
Biblioteca Gen.
|
|
Biblioteca Top
|
|
Autori
|
|
Recensioni
|
|
Inser. Estratti
|
|
@ contatti
|
|
Policy Privacy
|
|
Il farmacista di Cavenate
|
Luciano inserisce il biglietto nel tornello del metrò, che glielo restituisce timbrato, la barriera di vetro si apre al suo passaggio. Non gli piace strisciarci sopra il bancomat come fanno in tanti, quel pezzetto di cartoncino stampato gli sembra più concreto, un piccolo aggancio alla realtà. Scende le scale e va a sedersi sulla fredda panchina di marmo in fondo alla banchina, sotto il porticato di cemento. Sui binari cade la pioggia, che con la sua morbida musica attenua i rumori del mattino, come i sogni fanno con quelli della notte. Questa è scorsa meglio della precedente, non è caduto, non ha rotto niente e soprattutto ha dormito qualche ora in più, però ha fatto ancora quel maledetto sogno. Si è svegliato sudato, col cuore in bocca e un forte senso di sporcizia interiore, non lavabile. Allo sportello c'era un anziano gentile che parlava un po' d'italiano. Aveva una voce soffice e i suoi occhi verdi sembravano vedere oltre il grigio scuro della notte di Cavenate. Si è intrattenuto per qualche minuto a chiacchierare con lui e l'ha aiutato a dimenticarsi di quella sensazione. Parlava del mare, di quando nel suo paese andava a pescare sulla banchina del porto prima dell'alba, mentre la luna bassa nel cielo si rifletteva ancora nell'acqua scura, e i pesci mangiavano con voracità. Luciano apre e chiude l'ombrello un paio di volte per strizzarlo, stando attento a non bagnare l'anziano seduto di fianco, che lo guarda comunque di traverso. Sopra il suo mento spigoloso spiccano folti baffi e globi oculari irritati. Dalla fine della banchina provengono alcune risate, seguite da un gruppetto di ragazzi con larghe giacche impermeabili e pantaloni della tuta colorati. Salgono dalla scaletta di servizio che porta ai binari, con gli zaini che scampanellano piccoli urti di alluminio e diffondono zaffate di vernice. L'anziano li fissa inorridito, muove la testa qua e là, e sputacchia versetti di dissenso. I ragazzi non smettono di ridere e si accendono delle sigarette. «Non si può fumare qui!», grida lui, ma loro continuano a ignorarlo. Con il viso indignato si volta verso Luciano. «Glielo dica anche lei». «Ha ragione, non si può fumare... ma siamo all'aperto, a me non dà fastidio». L'uomo spalanca la bocca, offrendogli un'indesiderata visuale verso la sua gola umidiccia. «Che vuol dire che siamo all'aperto... ma lo sa cosa fanno quei ragazzi?» «Che cosa?», domanda spostando lo sguardo. «Vanno in giro a imbrattare i muri e i vagoni della metropolitana, non ha sentito quell'odore di vernice?» Luciano osserva quel gruppetto di giovanotti ridacchianti. Devono essere gli stessi che sfigurano i muri della città con scritte disortografiche e nomignoli impronunciabili, però mettono anche un po' di colore nel grigio inaccogliente di Milano, nei luoghi di nessuno, sotto i ponti, tra le macerie di una vecchia fabbrica, su un autobus dimenticato in un prato, lungo il muro di un cavalcavia. A lui non interessa diventare un tutore del grigio. Gli sorride, ma l'anziano non riesce a tener fermi i piccoli occhi, spalancati sui baffi ingrigiti e il naso arrossato. Li continua a buttare lungo la panchina, veloci come mosche che non sanno dove posarsi. All'improvviso si alza e si avvicina al gruppetto di ragazzi. «Allora, le volete spegnere quelle dannate sigarette?» Uno di loro si volta e lo guarda serio. Indossa un cappellino blu, che spunta da sotto il cappuccio di una felpa rosso mattone. «Va bene, ora le buttiamo». L'anziano torna a sedersi di fianco a Luciano, fissando soddisfatto il suo ombrello nero. «Se non ci pensiamo noi, questi giovanotti fanno ciò che vogliono. Bisogna insegnare loro un po' di civiltà». «Eh sì...», Luciano gli sorride e butta una rapida occhiata ai ragazzi che continuano a ridere e fumare, soltanto un po' più distanti. Uno stridere metallico fa vibrare l'aria e attraversa le rotaie nei due lati, poi inizia a crescere da sinistra, è il suo treno. Luciano si alza e si allontana verso il centro della banchina, ne ha abbastanza di quell'uomo. Ha bisogno di concentrarsi, osservare in modo anonimo la gente e la città. Sul metrò ci sono vari posti a sedere, ma preferisce stare in piedi appoggiato alle porte, a lasciarsi scorrere davanti agli occhi i palazzoni, i parchetti e i campi vuoti della periferia di Milano, tra le scritte dei writers e i segni del tempo, che invecchiano la modernità meneghina. Sull'altro lato del vagone nota una ragazza appoggiata alle portiere, con i capelli a caschetto neri e un ciuffo più lungo color celeste. Indossa jeans grigi e una camicia di flanella a quadrotti verdi e lilla, sotto un giubbotto di finta pelle. Ascolta musica da un grosso paio di cuffie e guarda fuori dal finestrino. La periferia intanto si allontana oltre i binari, con i suoi spazi recintati inutilizzati, le auto ferme in coda, le aspettative e i sogni che svaniscono sotto il cielo plumbeo di Milano. La ragazza tira fuori un libro dallo zainetto, “Le vite precedenti: se conosci la tua storia puoi cambiare il tuo destino”, e inizia a leggerlo, è a circa metà libro. Luciano la osserva, attratto dal suo profilo fresco, ma lei si accorge e si volta dall'altra parte, verso la direzione di marcia del treno. I binari discendono sottoterra, nel buio dei cunicoli scavati sotto la città. Si accendono le luci piatte all'interno del vagone e le fermate diventano più brevi. Alcuni passeggeri si avvicinano ai sostegni verticali davanti alle porte, per non perdersi la loro.
Fuori dal metrò i rumori della strada si distinguono un po' alla volta dal boato squillante di fondo, lo scorrere inesorabile del traffico, i clacson delle moto, le voci gettate dentro i telefoni. Nessuno sta fermo sul marciapiede di quello stradone. Cammina anche lui, sotto la pioggia che danza sul suo ombrello. Prima dell'arcata ferroviaria prende una stradina sulla destra che attraversa un parchetto. Passa di fianco a una piccola parete da arrampicata con gli appigli colorati, un anfiteatro di cemento, un prato bagnato. Sulla sinistra il Naviglio scorre marroncino, oltre le barriere di ferro. Sotto un ponticello nota un uomo che siede al riparo dalla pioggia, con di fianco un carrello della spesa colmo di sacchi di plastica, forse il suo armadio. Incrocia due persone con gli ombrelli scuri, un rider che sfreccia sulla stradina e gli sfiora una spalla. Prosegue nel verso opposto allo scorrimento del canale e percorre una vietta sulla destra. Passa sotto una quercia calpestando centinaia di foglie gialle con i lobi arrotondati. Si ferma davanti a un cancello nero con una piccola tettoia di alluminio. L'indirizzo è quello giusto, il numero ventotto. Citofona alla Dott.ssa Mahler. «Sì?» «Sono Milani, ho un appuntamento». «Buongiorno, Luciano... ti spiego come arrivare. Vai fino in fondo al giardino e percorri la discesa, in fondo sulla destra troverai una porticina rossa... quello è il mio studio. C'è un altro campanello, suonalo che ti apro». La porta è dipinta di un melograno vivo e saturo. A parte la maniglia, su di essa non c'è nulla, nemmeno lo spioncino. Di fianco c'è un campanello rosso e sotto una piccola targhetta lucida, su cui è disegnato un simbolo col pennarello, un cerchio con all'interno un triangolo equilatero. Dai vertici del triangolo partono dei segmenti che raggiungono il centro. Luciano suona, la porta si apre. «Chiudi pure». Seduta dietro una scrivania c'è una donna sulla cinquantina, con i capelli neri rasati da un lato e un ciuffo lungo dall'altro. «Siediti». Luciano siede sulla poltroncina in pelle rossa di fronte a lei e si guarda in giro. Lo studio è zeppo di maschere tribali, statuette di legno, tamburi, ma anche attestati di laurea, corsi specialistici e poster di neuroscienze. Sulla scrivania c'è un piano di vetro, sotto il quale sono posizionate pietre e oggetti strani. Sopra è appoggiata una grossa ametista viola e, appeso a un sostegno, un pendolo che vibra e dondola. La donna lo fissa con occhi penetranti, ha cerchi concentrici scavati nelle iridi scure. Si alza e gli porge la mano. «Piacere, Lucilla». Lui gliela stringe con delicatezza. È ferma, forte, ma morbida. «Piacere mio». La osserva per qualche secondo. Di statura medio bassa, ha una corporatura robusta, curve sinuose e orecchie bucherellate da tanti piccoli orecchini d'acciaio, un piercing vicino alla punta della lingua. Indossa pantaloni attillati di pelle, un maglioncino rosso e un gilet di cuoio scuro. Due gran seni tondi chiedono spazio al tessuto fine della maglia attillata. Al collo porta un ciondolo con una grossa pietra nera con incastonate tre gemme rosse brillanti. Nonostante l'aspetto un po' aggressivo, sembra gentile e simpatica. Ha una voce profonda e musicale. Tiene le mani ben aperte, con le punte delle dita appoggiate al piano di vetro della scrivania. La dottoressa gli fa un breve sorriso e si risiede. «Allora, Luciano, raccontami... qual è il tuo problema?» Si mette comodo anche lui. «Mah, dottoressa... è che mi piacerebbe scavare un po' nella mia memoria, capire certe cose». «Hai perso la memoria?» «No». «Hai problemi di concentrazione?» «Non direi». «Assumi degli stupefacenti?» «No, dottoressa... si tratta di un sogno». «Parlami di questo sogno, allora». «Va bene», Luciano sospira e sposta lo sguardo, «È un sogno che negli ultimi tempi faccio spesso, ma che non riguarda niente della mia vita». «Ti mette paura?» «Direi più angoscia». «Descrivimelo». La guarda negli occhi. Il suo sguardo è dolce e amichevole, la voce morbida e accogliente. Luciano si apre: «Succede che mi sveglio in questa mansarda, in un letto, con un raggio di sole che entra da un lucernario e illumina la polvere della stanza. Le lenzuola sono insanguinate, c'è del sangue rappreso e mi dà fastidio, mi sento sporco. Poi vedo accanto a me il corpo di una donna con gli occhi chiusi e la pelle pallida. Lei è nuda, sotto le lenzuola. Spuntano le sue braccia e parte delle gambe, la pelle è macchiata di sangue. Tento di scoprirla e le vedo il seno, e lei rimane immobile, poi all'improvviso mi prende un senso di angoscia e mi risveglio dal sogno». «Lo fai spesso?» «Sì». «Quando è stata l'ultima volta che lo hai fatto?» «Questa notte, poco prima di alzarmi dal letto». «Che sensazione ti provoca?» «Angoscia, senso di colpa, disgusto». «E provi attrazione per quella donna?» «Ma, dottoressa, è soltanto un corpo...» «Provi attrazione per quel corpo?» Luciano arretra nella poltroncina, giocherella con le unghie sulla pelle rossa. «È vera pelle?» «Sì». «Bella». «Grazie. E quel corpo, ti piace?» Luciano rialza lo sguardo. «Sì, è un bel corpo». «Ti ricorda qualcuno?» «No, dottoressa, nessuno». «C'è qualche periodo in passato in cui sei stato poco cosciente o che non ricordi bene?» «No... cioè, a volte mi capita di essere assorto nei miei pensieri, o di dormire troppo profondamente, ma no... non ho vuoti di memoria, se è quello che mi sta chiedendo». «Fai uso di psicofarmaci?» «No». «Alcol?» «Bevo del vino, a volte un po' di brandy, ma non esagero». «E in passato?» «Forse ho ecceduto qualche volta da ragazzo, ma a chi non è capitato? Poi si cresce...» «Va bene, Luciano. Se vuoi ti posso ipnotizzare, così possiamo fare emergere altri particolari di questo sogno». «Sì, sono qui per questo». «Sei mai stato ipnotizzato prima?» «Per quanto ne so, mai». Lucilla Mahler sorride. «Mi piace la tua risposta. Non è facile avere sempre il controllo della propria coscienza e soprattutto ricordarselo». La dottoressa prende una cartelletta da un cassetto e gliela porge insieme a una penna. Sopra c'è un foglio con un testo scritto. «Questa, Luciano, è una dichiarazione di responsabilità in cui ti assumi ogni conseguenza del fatto di essere ipnotizzato. Ti devo dire che c'è una discreta probabilità che l'ipnosi non funzioni. Più del venti per cento delle persone non sono ipnotizzabili e con loro non c'è niente da fare. In tal caso dovremmo interrompere la seduta. Se mi metti una firma qui, mi dichiari anche che, in caso tu non lo fossi, mi pagherai lo stesso. Non dipende da me, ma da te. Ti sta bene?» Lo sguardo di Luciano si abbassa sul foglio, si arrampica sulla maglia rossa della dottoressa e torna lento nei suoi occhi, che lo osservano da dietro gli occhiali. «Sì, è un rischio che mi sento di poter correre. Secondo lei, dottoressa, sono una persona ipnotizzabile?» «Lo vedremo... anche se così a pelle mi sembra che lo sei». Luciano firma. «Bene, ora mettiti comodo, rilassati e guarda la penna». Lucilla Mahler la prende in mano e la muove in orizzontale davanti ai suoi occhi. «Seguila con lo sguardo, così... bravo, continua a guardarla... adesso guarda me». Si toglie gli occhiali e inizia a fissarlo, sussurrando parole incomprensibili che echeggiano nella sua testa ed esplorano gli angoli del suo corpo. Le pareti dello studio si sfuocano, le iridi della dottoressa si ingrandiscono e girano su se stesse sempre più veloci, gli entrano nelle pupille.
Luciano si sente calmo, attento e presente. «Luciano, mi senti?» «Sì». «Alza la tua mano destra, così, bravo... prendi una mela dal vassoio». Luciano prende qualcosa nell'aria. «Assaggiala... com'è, buona?» «Oh, sì, è molto buona, mi ricorda quelle che mangiavo da bambino». «Ti piace la mela, vero?» «Sì... ormai è difficile trovarne di così buone» «Ora rimettila nel vassoio, bene. È questa mattina e ti sei appena svegliato, hai dormito e hai sognato. Come ti senti?» «Confuso... ora agitato, mi batte forte il cuore, provo un senso di angoscia». «Puoi sopportare questo senso di angoscia?» «Sì, posso farlo». «Bravo, ora torna nel sogno, quello che stavi facendo prima di svegliarti». «Sì». «Stai sognando?» «Umf». «Non ho capito, Luciano, stai sognando?» «Sì, sto sognando». «Dimmi cosa vedi». «C'è quella donna nel letto, le lenzuola sono sporche di sangue». «Scoprila». «Sì». «La vedi?» «Sì... è nuda. Vedo il suo seno». «Scoprila ancora». «È nuda» «Ha un bel corpo?» «Sì». «E il viso?» «Sì». «Luciano... il viso? Riesci a vedere il viso?» «Sì». «Com'è il suo viso?» «Umf». «Com'è il viso di quella donna, Luciano?» «È pallido, le labbra sono rosse, carnose...» «E poi?» «E poi il naso è sottile... dritto e un po' spigoloso». «E ti piace?» «Sì, mi piace, ma il naso mi fa paura». «Puoi controllare la tua paura?» «Sì». «Prova a toccare quella donna». «Mmf». «Luciano... l'hai toccata?» «Sì». «Com'è la sua pelle?» «È calda... ahh!» «Che succede?» |
Votazione per
|
|
WriterGoldOfficina
|
|
Biblioteca

|
Acquista

|
Preferenze
|
Recensione
|
Contatto
|
|
|
|
|