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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: Francesco Caldieri
Titolo: Brown Rock: ombre del passato
Genere Giallo
Lettori 657 7 6
Brown Rock: ombre del passato
Brown Rock era un pittoresco borgo incastonato tra le maestose montagne della Sassonia, un angolo remoto e incantato dove il tempo sembrava rallentare fino quasi a fermarsi. Abbracciato da una corona di vette frastagliate e innevate per gran parte dell'anno, il paese sorgeva a un'altitudine che gli conferiva un'aria frizzante e pulita, profumata di resina, muschio e legno umido. Lì, tra pareti di roccia verticali e vallate ombrose, ogni stagione portava con sé una metamorfosi profonda del paesaggio: in inverno, un mantello bianco e silenzioso avvolgeva tutto, mentre d'estate il verde smeraldo dei boschi prendeva il sopravvento, punteggiato dai colori accesi dei fiori di montagna.
Il borgo prendeva il nome da una gigantesca rupe di granito che si ergeva come una sentinella solitaria all'orizzonte, una cicatrice geologica risalente a millenni fa. Le sue sfumature mutavano con la luce del giorno: all'alba era dorata come il miele, a mezzogiorno brillava in tonalità ocra e ramate, e al tramonto si spegneva in un profondo marrone terroso, attraversato da venature nere che sembrano fiumi pietrificati. Nuda e severa, priva di vegetazione, la rupe dominava il paesaggio con un'aura solenne e misteriosa, affascinando generazioni di scalatori che la consideravano una sorta di sacra reliquia da conquistare con rispetto e fatica. In cima, il vento soffiava incessante e la vista si apriva su un oceano di montagne ondulate che si perdevano all'orizzonte.
Accanto a questa colossale formazione rocciosa si estendeva la rinomata pista da sci di Brown Rock, un'arteria bianca che serpeggiava tra i versanti innevati come un nastro d'argento. Durante l'inverno, le piste si animavano di sciatori esperti e principianti, snowboarder audaci e bambini sulle slitte, mentre le baite in legno con i tetti carichi di neve offrivano riparo e vin brulé fumante. Nei mesi più miti, quando la neve si ritirava lasciando spazio all'erba alpina, lo stesso tracciato si trasformava in una rete di sentieri perfettamente segnalati, percorsi da escursionisti con zaini colorati, famiglie in cammino e ciclisti che affrontavano le salite con tenacia. Gli impianti di risalita, moderni ma discreti nel paesaggio, portavano i visitatori a terrazze naturali da cui si ammiravano vallate sconfinate, laghi alpini incastonati come gemme tra le rocce, e persino branchi di camosci al pascolo nelle ore più tranquille.
Il paese era immerso in una corona di boschi vetusti, veri e propri templi naturali dove pini silvestri, abeti rossi e larici secolari si innalzavano fieri verso il cielo. I loro tronchi, ruvidi e screpolati, raccontavano storie di tempeste sopravvissute e di inverni gelidi. La luce filtrava tra i rami come oro liquido, creando giochi d'ombra e di colore sul sottobosco, dove crescevano felci, funghi, e muschi dai toni smeraldo. I sentieri che si snodavano in mezzo agli alberi erano battuti da camminatori silenziosi, fotografi in cerca di uno scorcio perfetto, o semplici amanti della pace che lì trovavano conforto e solitudine. Al calar del sole, il bosco si animava di sussurri: il fruscio delle ali di un gufo, il lieve crepitio dei rami, il bramito lontano di un cervo. In rare notti limpide, si poteva udire l'ululato dei lupi, remoto e primordiale, come un canto antico che risvegliava gli istinti sopiti dell'uomo.
In primavera, i margini del bosco si accendevano di colori vivaci. Narcisi selvatici, genziane blu, crochi lilla e stelle alpine sbocciavano in un'esplosione di vita che spezzava la monotonia del verde. I prati in fiore si estendevano fino ai pascoli delle malghe, dove mucche pezzate ruminavano placide e campanacci tintinnavano nell'aria tersa. Era in quei momenti che Brown Rock sembrava sospeso tra realtà e fiaba, un luogo fuori dal tempo, dove la natura mostrava il suo volto più benevolo.
Nonostante il suo aspetto da cartolina, Brown Rock era prima di tutto un paese vivo, pulsante, con un'identità forte e una comunità affiatata. Le case in pietra grezza e legno scuro, ornate da balconi fioriti e tetti spioventi, si raccoglievano attorno alla piazza centrale come a proteggere il cuore del villaggio. Qui si trovava la locanda del paese, il "Vecchio Stambecco", con la sua insegna in ferro battuto e le finestre appannate dal calore del camino. All'interno, l'odore di legna bruciata si mescolava a quello di spezzatino di cervo e pane appena sfornato. La sera, uomini e donne si riunivano per raccontare storie, bere birra artigianale o giocare a carte sotto lo sguardo curioso di qualche gatto acciambellato accanto al fuoco.
Tra tutti gli eventi dell'anno, la Fiera dello Stinco Cotto nella Birra di Fieno era senza dubbio il più atteso. Per tre giorni, il borgo si riempiva di visitatori, profumi e musica. I vicoli erano ornati da festoni e bandiere, e l'aria vibrava del suono di fisarmoniche e risate. L'aroma dello stinco, cotto lentamente in calderoni di rame insieme a birra profumata di fieno essiccato, si insinuava ovunque, facendo venire l'acquolina in bocca. I banchetti offrivano delizie locali: formaggi intensi, salumi stagionati, dolci speziati e miele dorato raccolto nelle arnie ai margini del bosco. Era un trionfo dei sensi, un rito collettivo di celebrazione della terra e delle sue ricchezze.
Ma la fiera non era solo cibo: c'erano giochi tradizionali, giostre colorate, una ruota panoramica che offriva una vista mozzafiato sull'intero borgo e, per i nostalgici, un carosello in legno con cavalli intagliati a mano. La sera, la piazza si animava con danze popolari, canti antichi e lanterne accese che oscillavano nella brezza montana. Ogni sorriso, ogni stretta di mano, ogni brindisi con un boccale di birra artigianale sembrava raccontare una storia: quella di un paese che, pur essendo piccolo, custodiva nel cuore un'anima grande quanto le sue montagne.
Brown Rock era, in definitiva, un luogo sospeso tra il cielo e la terra, dove la natura regnava sovrana, la tradizione era viva e il tempo sembrava dilatarsi, concedendo a chi vi metteva piede un raro e prezioso senso di pace.
Il vento leggero che accarezzava le foglie dei platani lungo Viale dei Tigli sembrava quasi sussurrare un presagio, un'eco lontana che Lara non aveva saputo – o voluto – ascoltare. Ora, ritrovandosi di fronte al terzo corpo esanime, Lara sentì il gelo propagarsi dalle punte delle dita fino al cuore. Non era più un'anomalia, una tragica fatalità. Qualcosa di oscuro, di viscido, si stava insinuando nel cuore pulsante della sua piccola città.
Il profumo dolciastro dei funghi, solitamente così confortante, le arrivò alle narici come un'eco beffarda di un'esistenza spensierata, ormai irrimediabilmente perduta. Gli occhi le bruciavano, la gola era stretta in una morsa di terrore. Intorno a lei, il vociare confuso dei carabinieri, le luci bluastre che saettavano sui muri antichi, creavano una danza macabra che le straziava l'anima.
Cosa stava succedendo a Brown Rock? Come era possibile che quella cittadina così tranquilla, dove tutti si conoscevano e le porte non si chiudevano a chiave, fosse diventata il teatro di una spirale di violenza così brutale? Lara si sentiva come un'attrice sbalzata fuori copione, catapultata in una trama oscura e sconosciuta. E mentre il suo sguardo cadeva sul volto della vittima, un pensiero agghiacciante le attraversò la mente: e se il prossimo fossi io?
MOLTI ANNI PRIMA
Il sole in Sassonia non picchiava, infuriava. Era un martello invisibile che batteva sulle tegole rosse, imprigionando l'aria umida tra le case strette, tra i muri antichi, trasformando la valle in una fornace soffocante. Respirare lì era come ingoiare cotone bagnato. Lara, sei anni appena e un'energia che avrebbe dovuto far scoppiare qualsiasi costrizione, tossiva. Spesso. Il respiro le si bloccava in gola, corto, affannoso, fragile come l'ala di un fringuello finito in un cassetto.
Il dottore, un uomo dalla voce grave e dagli occhi che non ammettevano repliche, era stato chiarissimo.
"Signori," aveva scandito, lo sguardo fisso sui volti preoccupati dei genitori, "quest'aria... quest'aria è un veleno lento per i polmoni di vostra figlia. Non c'è sciroppo che tenga, non c'è cura miracolosa."
Si era sporto in avanti, appoggiando i gomiti sulla scrivania, le mani giunte.
"Portatela in montagna. Ogni volta che potete. L'aria lassù... quella sì, le farà bene. La rinvigorirà, la farà sbocciare. Le darà una nuova vita."
Quella "nuova vita" divenne un'urgenza silenziosa. Così, quando l'occasione bussò alla loro porta sotto forma di un trasferimento a Brown Rock – un paese così piccolo da sembrare incastonato, quasi perduto, tra vette maestose – i genitori di Lara non esitarono un istante. Per Mark, suo padre, fu più di un semplice trasloco; fu un ritorno a casa, un'immersione nelle sue vene che sapevano di neve e velocità. Abbandonò la monotonia grigia dell'ufficio con un addio liberatorio e abbracciò la sua vera passione: la slitta, il bob, il vento gelido sul viso, il contatto crudo, primordiale, con il ghiaccio. A Brown Rock, Mark non fu più l'impiegato; divenne "il Maestro", l'uomo che insegnava a domare la discesa. E non solo: con l'esempio della sua audace trasformazione, inculcò in Lara il coraggio di scommettere su sé stessi, di inseguire le proprie inclinazioni, e le trasmise una fiducia incrollabile nelle capacità del proprio corpo, visto non come limite, ma come strumento di pura gioia e libertà.
Elena, la madre di Lara, portava con sé il profumo inconfondibile dei libri, un sentore di carta e inchiostro che si mescolava alla quiete ovattata delle aule scolastiche di montagna. Insegnante per vocazione, aveva seminato in Lara l'amore per la conoscenza, la scintilla della curiosità che illumina il mondo. Le aveva insegnato che le parole non sono solo suoni o segni, ma mattoni con cui costruire ponti e arieti per abbattere muri. E, forse ancor più preziosa, le aveva trasmesso l'idea che la gentilezza, quella tenera ma potente forza interiore, potesse essere una forma di resistenza silenziosa, caparbia, una corrente calma ma inarrestabile capace di modellare il mondo.
A Brown Rock, l'aria non era soffocante; era viva. Entrava nei polmoni di Lara come una brezza frizzante, pungendole dolcemente le guance, riempiendola di una vitalità nuova, quasi inebriante. La valle chiusa della Sassonia era un ricordo sbiadito, un brutto sogno che l'aria di montagna aveva spazzato via. Qui, tra le case di legno che profumavano di resina appena tagliata e i prati in fiore che si perdevano all'orizzonte, Lara cresceva. Cresceva in fretta, alta per i suoi anni, con una postura eretta e spalle già larghe, modellate dalle lunghe, silenziose nuotate nei laghetti alpini dall'acqua così trasparente da sembrare vetro liquido. I suoi movimenti erano fluidi, armoniosi, quasi felini nella loro naturale eleganza, la grazia innata di chi ha imparato ad ascoltare il proprio corpo, a fidarsi della sua forza inesplorata.
I suoi capelli, un'esplosione di rosso vibrante e indomito, sembravano voler catturare ogni raggio di sole, imprigionando la luce in una cascata fiammeggiante che contrastava con il verde intenso e profondo dei suoi occhi. Erano occhi attenti, indagatori, abituati a spaziare sull'orizzonte sconfinato delle montagne, a cogliere il più piccolo fruscio tra gli abeti secolari, ogni sfumatura del cielo che dipingeva scenari diversi con il passare delle ore. Quando parlava, la sua voce era sorprendentemente ferma e misurata per una bambina, ma non rigida; sapeva modulare il tono, ammorbidirlo, per esprimere un'empatia che pareva innata, una comprensione intuitiva del mondo che la circondava.
Fu tra i banchi di legno scuro della piccola scuola elementare di Brown Rock che il mondo di Lara si allargò ancora di più. Fu lì che conobbe Chiara. Chiara aveva i capelli biondi, biondi come il grano maturo accarezzato dal vento estivo, e occhi azzurri, di un azzurro così limpido e senza nuvole da sembrare frammenti di cielo caduti sulla terra. Era un turbine di vivacità, chiacchierona, con un sorriso così contagioso che, quando esplodeva, sembrava illuminare l'intera aula come un raggio di sole improvviso. Dal primo giorno, tra le risate soffocate dietro le mani durante le lezioni di disegno e le corse sfrenate, senza fiato, nel cortile durante la ricreazione, nacque tra Lara e Chiara un'intesa immediata. Una sintonia profonda, inspiegabile, che le rese, da subito, inseparabili.
Condividevano tutto. I segreti sussurrati all'ombra fresca dei grandi abeti, confidati come fossero tesori inestimabili. Le merende, un semplice panino col cioccolato, divise sempre rigorosamente a metà, sapendo che il sapore era migliore se condiviso. Le avventure immaginarie, popolate da fate dispettose e gnomi barbuti nascosti tra le radici contorte degli alberi secolari, nate dalla fantasia fervida di Chiara e alimentate dallo spirito avventuroso di Lara. Insieme esploravano i sentieri boschivi, mano nella mano o correndo a perdifiato, raccogliendo fiori di campo dai colori sgargianti e inseguendo farfalle multicolori che danzavano nell'aria tiepida. Lara, con la sua agilità e la sua innata audacia, prendeva spesso l'iniziativa:
"Andiamo da questa parte!", esclamava, guidando Chiara attraverso ruscelli gorgoglianti e prati sconfinati. Chiara, con la sua inesauribile loquacità e la sua immaginazione senza confini, riempiva ogni loro spedizione di storie fantastiche, di domande inaspettate e, soprattutto, di risate cristalline che si disperdevano nell'aria di montagna.
Francesco Caldieri
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