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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP, ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo già formattato che per la copertina.
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Giorgia Saggin
Titolo: Disordinaria... come in una favola!
Genere Romanzo Contemporanea
Lettori 471 6
Disordinaria... come in una favola!
Favola moderna (senza bacchette magiche) di rinascita e caos familiare.

Scene ordinarie di una famiglia (dis)ordinaria

Mi sveglio con il gomito immerso in qualcosa di umido. Teo ha bagnato il letto. Di nuovo.
Apro un occhio, poi l'altro, poi la bocca per sbadigliare e infine il cuore, che di notte tengo chiuso a chiave. La sveglia ha già suonato ma io ho ignorato. Dalla cucina la voce di Livia legge l'etichetta dei cereali con la solennità di un annunciatore: «Con zucchero di canna integrale. Fonte di fibre». So che sta roteando gli occhi.
Sollevo Teo, che dorme beato nel suo lago personale, e lo porto sul fasciatoio. Le mani si muovono da sole: pannolino, salviette, body, pantaloni, calzini (ne trovo uno... l'altro è disperso nella dimensione parallela dove finiscono forcine, tappi di penne e la mia pazienza).
«Mammaaa! Teo ha fatto la pipì sul tappeto!»
«E tu che ci facevi in sala alle sette e dieci?»
«È stato lui a seguirmi!»
«Teo ha due anni e mezzo, Livia. Non organizza spedizioni.»
Ho i capelli arruffati, il pigiama con le zebre e due calzini diversi (uno è di Teo). Non me ne frega niente.

Il telefono vibra: chat delle mamme, mentre cerco il pane.
«Ricordate: domani dolci per la festa della scuola.»
«Solo fatti in casa, mi raccomando!»
«Senza zucchero raffinato!»
Fotografo il pacco di frollini del discount. Metà metterà il cuoricino, l'altra metà invocherà i servizi sociali.

Provo a preparare il caffè ma dimentico di accendere il fornello. La moka mi giudica. Livia sbuffa – ha otto anni ma la grazia di una trentenne delusa. Teo ha rovesciato il barattolo delle mollette del bucato e lancia proiettili colorati sul pavimento. Vado a cercare il borsone della piscina: fradicio. Ho lasciato l'asciugamano bagnato dentro. Ora c'è un ecosistema tropicale.

Carico figli, zainetti, speranze residue e partiamo. Arriviamo a scuola in ritardo (ovviamente). Parcheggio tra lo scivolo e il cassonetto del vetro. L'atrio pullula di bambini in costume, glitter, genitori con la faccia di chi ha cucito fino alle tre. Una mamma brandisce una teglia da quaranta porzioni: «Senza glutine!» Io sorrido come se sapessi cosa significhi. Foto, coriandoli, caos. Rimetto in riga tutti promettendo torta (comprata). Per un attimo li guardo: comunque è bello. Siamo qui.

Più tardi, in macchina dopo averli lasciati, accendo la radio, cambio tre stazioni, spengo. Tre notifiche: pediatra («Vaccino Teo»), vocale infinito di Zaira («Stasera aperitivo?»), e un messaggio suo: «Porto i bambini sabato. Alle 10. Non prima.» Tono da ordine militare. Scrivo «Ok», poi cancello. Il messaggio resta; lui, purtroppo, anche.

Rientro. La casa è silenziosa, viva e vuota allo stesso tempo. Mi tolgo le scarpe già sulla soglia. Cammino piano, come se potessi svegliare qualcosa che dorme. Apro e richiudo armadi senza scopo. Apro il cassetto delle bollette. Lo richiudo. Il tavolo è pieno di briciole, i giochi a metà, tazze con l'alone. Potrei sistemare. Non lo faccio. Ascolto il fruscio del frigorifero: sembra un respiro.

Da quanti anni non penso a me stessa?
A cosa mi piace. A chi sono.
Sono stata madre. Sono stata moglie. Tutto il resto l'ho messo via insieme alle gonne troppo corte e ai sogni troppo grandi.
Ho detto «dopo». «Più avanti». «Quando avrò tempo».
E intanto il tempo è passato.
E io mi sono persa di vista.

Poi suona il telefono: mia madre.
«Dimmi.»
«Ciao. Come stai?»
«Bene.»
«Sei pallida.»
«Non mi vedi.»
«Appunto. Sei pallida.»
Chiudo con: «Ti richiamo più tardi» e mi lascio cadere sul divano.

Il vuoto di non avere un lavoro pesa come un'etichetta stampata in fronte: inutile. Come se se non produco niente non valgo niente. Mi torna in mente Livia: «Da grande voglio fare l'insegnante... oppure la filosofa... oppure la mamma.» Avevo sorriso. Ora mi chiedo se basti essere mamma. A lei. A me.

Mi ricordo: domani è la festa di compleanno di Marta, la migliore amica di Livia, serve un costume. Vado all'armadio dell'ingresso. Rovisto: zaini vecchi, tute, una parrucca arancione, ali da fatina, un boa rosso...
E poi, lui.
Il cappello di piume.
Lo prendo in mano. Mi si ferma il respiro. Non lo toccavo da un anno. Non lo volevo rivedere mai più. È lì, vivo. Un richiamo.
Le gambe mollano; mi ritrovo seduta sul pavimento, piume tra le mani e lo stomaco in un nodo.
Il tempo si piega. Ricordo.

Un anno fa.
Carnevale. Palestra della scuola. Coriandoli ovunque. Livia esploratrice. Teo coccodrillo. Io con questo cappello ridicolo.
E lui. «Dobbiamo parlare» aveva detto.
E tutto si era rotto: sogni, progetti, progettualità di vent'anni in un colpo.
Mi mancava l'aria. È ancora oggi viva, quella fitta. Oggi non piango. Non ho tempo nemmeno per quello. Ma il cappello lo tengo, lo nascondo. Anche i dolori più stupidi servono a ricordarci quanto siamo sopravvissuti.

Un anno prima – Non avevo capito niente

Il cielo era di un azzurro quasi indecente: ti fa pensare che sì, forse andrà tutto bene. Anche quando, nell'arco di un'ora, sta per franare tutto.
Festa di Carnevale a scuola. Arrivo con anticipo, due bambini travestiti, borsone pieno di merendine, salviette, cambi, fazzoletti, forbici a punta tonda, scarpe di scorta e cervello fuso.
Livia è perfetta: esploratrice con binocolo e taccuino, «giurata ufficiale» dei costumi. «Se qualcuno mi offre una caramella per vincere, lo dico alla preside o lo scrivo nel verbale?»
Teo è (era) un coccodrillo; dopo cinque minuti ha già strappato una manica e perso il cappuccio. Corre urlando «BAAAM!» contro le sedie.
Io: jeans, maglia larga e – per spirito di gruppo (leggasi: smettere di sentire Livia insistere) – cappello di piume fucsia del Carnevale 2004. Non sapevo che quel cappello avrebbe segnato la fine del mondo come lo conoscevo.

La palestra è un'orgia di coriandoli e zucchero a velo: bambini truccati, genitori in stato confusionale, palloncini suicidi, tavoli di dolci da sfida tra zie pasticcere e influencer del cake design. Sono stanca, sbatacchiata, ma felice. Ho preparato tutto. I bambini stanno bene. Perfino un filo di correttore mi sono messa.
«Arriva papà?» chiede Livia.
«Sì, certo.»
Quando finalmente arriva – in ritardo, senza un coriandolo addosso – capisco dallo sguardo: è presente per dovere, non con l'anima. Camicia chiara, giubbotto impeccabile, capelli perfetti. Quel mezzo sorriso che un tempo mi scioglieva e ora mi dà l'orticaria. Saluta Livia con una carezza rapida. A me... uno sguardo di passaggio. «Ciao.» «Ciao.» Fine.
Gira tra i tavoli, parla con un papà, ride con la maestra, guarda il telefono. Con me? Niente. Due estranei con due figli e una sala piena di coriandoli.

Lo vedo ridere. Per qualcosa sul telefono. Leggero. Presente. Come non lo è più da mesi a casa nostra.
Mi avvicino e gli tocco il braccio. «Possiamo parlare?»
«Adesso?»
«Sì. Adesso.»

Usciamo dalla palestra attraversando la giungla appiccicosa di bambini e genitori. Fuori la luce arancio del pomeriggio rimbalza sui coriandoli a terra. Lui si mette in controluce, come in una pubblicità. Sembra bello. Lo odio.
«Che succede?» chiedo.
«Niente.»
«Ti prego, rispondimi. Non farmi impazzire.»
Silenzio.
«Mi sono innamorato di un'altra.»
Il mondo fa *crack*.
«Scusa?»
«Mi è successa un'altra persona.» Mi è successa. Come se l'avesse trovata nel carrello del supermercato. «Da quanto?»
«Qualche mese.»
Mentre io cercavo di non crollare, curavo Teo, seguivo Livia, lui... Qualche mese.
«Chi è?»
«Non importa.»
«Per me sì.»
«Valentina.»
La mia Valentina. L'amica dai selfie motivazionali e dalle pose perfette. Quella che rideva troppo e ascoltava poco. Quella che aveva sempre avuto gli occhi su di lui. Ora aveva anche il resto.

Mi scappa una risata amara, poi gelo. Parte il trenino di Carnevale, musica a volume assassino. «Sotto questo sole, bello pedalare!» Una mamma travestita da suora ci urla: «Ma quanto siete belli voi due! Sembrate una pubblicità del Mulino Bianco!» Lui abbassa lo sguardo. Io resto impassibile. Dentro pulsa dolore.
Lui guarda di nuovo il telefono. Io glielo strappo di mano e lo lancio oltre la siepe. Gesto perfetto. Silenzioso. Definitivo.
Mi guarda come se non mi riconoscesse. E forse è così: quella Lea non tornerà indietro.
Mi volto e cammino via, dritta, cappello di piume che ondeggia come un addio. Un inchino. Un inizio.

Rientro in palestra con il cuore in fiamme e il viso calmo. Non ho pianto. Non ho urlato. Ho rotto solo un silenzio durato troppo. Sorrido da hostess in turbolenza, afferro un prosecco di plastica e lo butto giù in un sorso: mi serve un gesto normale, automatico, sociale.
«È ora di andare, amore» dico a Livia (giurata severissima). Mi guarda, capisce che qualcosa è successo, non chiede. Recupero Teo prima che mangi un marshmallow da terra. Una mamma insiste: «Manca solo il gran finale! Il balletto dei genitori...» Sorrido in quel modo che significa: insisti e ti sotterro sotto coriandoli. «È stato bellissimo. Ma per oggi basta così.»
Usciamo. Cappello fucsia in testa, bambini stretti a me, dentro un silenzio nuovo. Non di dolore. Di trasformazione.
Giorgia Saggin
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