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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Alessandro Molteni
Titolo: American River
Genere Narrativa Storica
Lettori 177 1 5
American River
«Oro! Oro! Oro!»
Nell'American River viene scoperto l'oro.
Quando il 15 marzo del 1848 il giornale di San Francisco riporta la notizia, la città conta settantanove edifici e 900 persone. E di quelle, ne rimangono soltanto cinque. Gli altri, si precipitano sulle sponde del generoso, piccolo fiume. Le attività nel raggio di miglia chiudono per mancanza di mano d'opera. Le maestranze sono tutte là, piedi ammollo nell'American River a dissodare rocce, deviare acque e agitare setacci in cerca di pagliuzze.
L'Eldorado.
Gente di ogni risma. Selvaggina sterminata. Boschi rasi al suolo. Agglomerati ovunque, tirati su dal tramonto all'alba. Perché di giorno c'è l'oro da cercare. Alture spianate: strade, ripari, capanne di fortuna e magazzini di ogni tipo. Il tutto, con l'immancabile contorno di saloon improvvisati, bische, donne di malaffare e faccendieri senza scrupoli.
Una bolgia, le incontaminate sponde dell'American River e i ruscelli dei dintorni.
I pochi fornitori che resistono sono costretti a impiegare personale di bassa lega, pur di continuare. E pagarlo a peso, quello si: d'oro. I prezzi sfiorano vette che niente hanno da invidiare alle pagliuzze. Il sacco di grano, il badile, il setaccio, il piccone e il paio di stivali, sono introvabili. E i prezzi, proibitivi.
L'uomo più ricco della California in quegli anni di corsa all'oro, non è un cercatore, ma Samuel Brannan.
Ha 26 anni quando sbarca a Yerba Buena, l'anno prima di cambiare nome in San Francisco.
Apre qualche negozio a Sacramento. Ma al primo cenno di pepita, da Coloma agli altri campi base, gli store sono tutti suoi. La corsa ancora non è partita e lui ha già riempito i magazzini. Acquistando tutte le forniture disponibili da San Francisco all'ultimo negozietto della Sierra. Sarà quindi lui a fissare il prezzo.
Profitti da capogiro.
Come quelli di Levi Strauss, che inizia allora a vendere i suoi jeans, ai cercatori d'oro della California.
Persone e territorio. Tutto, intorno all'American River e nella Central Vally, si sta trasformando.
E là dove il piccolo fiume sfocia nel Sacramento, il porto diventa un punto decisivo per il futuro della California. Navigabile da lì, fino a San Francisco. Sbocco commerciale sul Pacifico.
Ferrovie, diligenze, telegrafo e Pony Express...
Lo sviluppo della città di Sacramento è travolgente.
Tanto che nel 1854, dopo essersi ingoiata quello che rimane del Rancho Rio de los Americanos, diventa a tutto tondo, la capitale dello Stato della California. Il ritmo degli arrivi però, è inarrestabile. Etnie da ogni parte dell'intero globo approdano lì con i mezzi più disparati.
Dalla costa atlantica, la via a suo modo più sicura è quella di doppiare Capo Horn.
Sei mesi di mare. L'alternativa: sbarcare a Panama e attraversare l'infido e inesplorato territorio dell'Istmo a dorso di mulo. Ma una volta là sulle sponde del Pacifico, quasi impossibile trovare l'imbarco per San Francisco. Rare e strapiene le navi che decidono di fermarsi per fare rifornimento.
E per via terra, sono almeno sei i sentieri delle carovane dirette all'ovest.
Partono quasi tutti dal Missouri. Il più battuto è quello dell'Oregon.
Da Indipendence a Portland. Quattro, sei mesi di viaggio.
Tremiladuecento chilometri attraverso Missouri, Kansas, Nebraska, Wyoming, Idaho e Oregon.
Partenza da aprile a maggio, per garantirsi foraggio per le bestie, sentieri asciutti per i carri e anticipare la neve lassù, sui passi impervi delle alte cime. Dall'Oregon poi, seguendo il Siskiyou Trail, proibitivo per i carri, si scende giù fino alla baia di San Francisco a dorso di mulo. Perciò nel Wyoming, a tre quarti dalla meta, giunti al South Pass nelle Montagne Rocciose, molte carovane decidono di tagliare per il Californian-Trail.
Che finisce giusto al Sutter's Fort. Cuore del magico Eldorado.
Trecento mila persone sono arrivate fin lì, attratte dal miraggio di una nuova vita.
E il massiccio afflusso di oro, ha messo le ali all'intera economia americana. A che prezzo, però. Nel solo Oregon-Trail, in un decennio, fra coloni e cercatori, in ventimila hanno trovato la morte. Ma il conto più salato sono loro che lo pagano, i Nativi Americani.
Malattie, fame e genocidio. Oltre che brutta, questa è una lunga storia.
Dieci anni dura la corsa all'oro. Ma già dopo i primi quattro, dà segni di cedimento.
Il setaccio non basta più. Servono metodi sempre più invasivi per scavarlo fuori dalle rocce.
Solo le grandi compagnie di estrazione riescono ancora a fare utili.
Il lavoro massacrante e insalubre... Il costo impossibile dei materiali e il cibo ogni giorno più costoso e scarso... L'oro stesso, ridiventato la chimera di sempre... E l'affollamento dei campi, che ha reso il territorio invivibile e pericoloso...
Sono molti quelli che se ne vanno.
Sempre meno, di quelli che ancora stanno arrivando.
Gente che compra la concessione di posti sfruttati all'osso e si accampa in insediamenti che spariscono o bruciano di notte. Una beffa, insomma. Per chi arriva dall'altra parte del mondo per fuggire la miseria e si ritrova l'inferno.
Sguardi pietosi che tanto assomigliano a quelli che hanno lasciato là, all'inizio di un viaggio disperato. Questo il benvenuto. Hanno navigato mari in tempesta, scavalcato cime impossibili, guadato fiumi tra le rapide e attraversato valli torride come fornaci. Hanno sofferto fame, sete, fatica e nostalgie lontane.
Hanno abbandonato casa, affetti e adesso...

Willie John O'Kefee. Il Patriarca.
A proposito di disperati: uno di loro.
«L'inferno? Mica ce n'è uno solo. E non sono tutti uguali. C'è questo e quello. Ne ho passati tanti, me ne intendo. Ci sono nato. E spero tanto di uscirne prima o poi». Risponde nella sua cantilena celtico irlandese, a chi si lamenta di miseria e tutto quel corredo di disgrazie che si porta appresso.
Non è una battuta. E non lo dice tanto per lamentarsi o peggio, per vanto. Glielo leggi sul volto smagrito, tra una lentiggine e l'altra, come su una malinconica pergamena di papiro.
E in quanto all'uscirne prima o poi, ci crede eccome. Un inguaribile ottimista di giunco, con in cima un rigoglioso groviglio di zazzera color del fuoco, al posto delle foglie di papiro.
Ossuto da far paura, insomma.
Questa l'impressione. Più diffidenti dei re di quaglie, tipici della sua terra, gli occhi sbirciano il mondo da dietro due cespugli rossi. Difficile coglierli al primo sguardo. Alto e sfuggente, non indugia mai sul primo venuto. Piovuto lì dall'altra parte del mondo, ha solo diciannove anni Willie John.
Da un inferno all'altro, senza un attimo di tregua.
Laggiù nel paesello della contea di Donegal, sulla strada che conduce al porto di Derry c'è un ponticello, Droichead-na-nDeor nel dialetto del posto. Guai nominarlo in presenza della mamma, si rannuvola in un attimo e resta così per tutto il giorno. Quasi il presentimento di una disgrazia.
Ha solo sedici anni Willie John quando lo attraversa. Col suo fagotto è diretto al porto di Derry per imbarcarsi. C'è l'oceano da attraversare. L'America? Neanche sa cosa cos'è. Ma tutti da lì passano.
Ponte delle lacrime. Lo chiamano.
Perché è lì che i migranti salutano i propri cari prima di separarsi e scendere a Derry per andare dall'altra parte del mare. Sei fratelli. O troppo piccoli, o più adatti di lui per lavorare nei campi e sfamare la famiglia. Perciò hanno scelto lui. Qualcuno bisogna pur salvare.
La Grande Carestia irlandese.
Da quella sta scappando. È arrivata l'autunno dell'anno prima: 1845, e ha distrutto metà dell'intero raccolto delle patate. E le avvisaglie danno per certa anche la perdita del nuovo raccolto. C'è rimasto niente da servire in tavola. Solo radici.
È la peronospora della patata il killer che la riduce un ammasso marcescente immangiabile.
Che ironia della sorte, l'anno prima di attaccare le culture irlandesi, ha azzerato quelle del nord America. E da là, qualcuno dice via nave, è sbarcato in Irlanda.
Il percorso inverso di Wille John, che assieme agli anta e passa migranti partiti dalle coste irlandesi, sta per raggiungere il nord America per salvarsi dalla Grande Carestia.
La fame però, è da sempre una triste realtà della martoriata Irlanda.
Una volta i capricci del clima, la volta dopo l'inverno rigido e per ultimo la peronospora, ma il risultato è sempre quello. In verità, da secoli di killer ce n'è uno e basta. E mica porta la maschera per mimetizzarsi. Ha pure lui il suo bel nome e cognome, è così popolare che lo conoscono tutti.
Tanto che in confidenza, lo chiamano con un nome solo.
Miseria.
La popolazione è così povera da non permettersi altro che patate.
Che aggiunte al latte assicurano comunque una dieta quasi equilibrata. Il raccolto però, non si può conservarlo oltre giugno: marcisce. Quindi, anche quando le coltivazioni sono abbondanti, da giugno al nuovo raccolto di settembre si tira comunque la cinghia.
“Meal Months” li chiamano. Mesi di magra che per i più, è vera e propria fame.
La migrazione irlandese non è cominciata l'anno che Willie John si è imbarcato per l'America e con le lacrime agli occhi ha salutato le amate sponde della verde Irlanda. La storia dice ch'è iniziata almeno quarant'anni prima. E il numero è impressionante.
Il giovane O'Keefe, infatti, è stato preceduto da non meno di un milione e mezzo di connazionali.
«Di là del mare ci sono molti più irlandesi che qui, nella contea di Donegal. Sono così stufi di patate, che si strafogano nello spezzatino di quaglia». Si favoleggia nei pub della contea.
E il fratellone, che ogni tanto al pub ci mette il naso, ogni volta che può lo menziona intorno al desco di radici e piante selvatiche, buone solo per la solita zuppa da voltastomaco.
«Grazie al cielo c'è quella», commenta mamma, dopo un rimbrotto a quel gran lavoratore dalla lingua lunga.
E se menzionare patate a chi si ciba di radici è un delitto, citare tra il losco e il fosco addirittura lo spezzatino di quaglia, fa gorgogliare di rabbia lo stomaco. Che si sente inutile, visto che da sempre, ha niente da digerire.
Piange ogni notte Willie John, non lo sa che è fortunato.
Il dolore che prova quando pensa alla partenza è peggio della fame.
Più il giorno si avvicina, più s'incupisce. E alla fine smette anche di mangiare.
Lo fa senza farsi accorgere, non vuole dare un dispiacere alla sua mamma. Appena lei gli gira le spalle, ce n'è almeno sei di fratelli che gli asciugano il piatto in un baleno.
Tanto lui è fortunato e non lo sa.

Da Derry a Liverpool.
È da lì che partono i bastimenti per l'America.
Ed è lì che Willie John si accorge quanto è vera la prima parte di quello che si favoleggia nei pub del suo piccolo paese, nella Contea di Donegal. Che è già più lontana di un ricordo.
Barche di ogni tipo, fin dove la vista può spaziare.
E folle di disperati che attendono di partire. Willie John, uno dei tanti di un esodo senza precedenti. Quello del 1846. Masse enormi di persone stremate, stipate su qualsiasi carretta in grado di prendere il mare, per sbarcarli in ogni dove.
Tremila miglia di là del mare.
Canada o le sue colonie.
Qualunque approdo sulla costa est degli Stati Uniti, perfino Gran Bretagna e Galles. Pur di andarsene dalle infelici sponde che li hanno visti nascere. È gente già provata, allo stremo delle forze prima ancora di partire.
Perché è duro decidersi di abbandonare, può darsi per sempre, gli affetti più cari.
Lo fanno solo quando ormai il piede è già nell'abisso. Poveretti vestiti di stracci che niente hanno da portarsi appresso, se non denutrizione e malattie. Che là dove sbarcano scatenano grandi epidemie da contagio.
Navi pattumiera le chiamano.
E fanno paura. Ma l'afflusso è enorme, difficile contenerlo.
Sbaraglia qualunque tentativo di gestire la pur minima garanzia di quarantena, nelle località di approdo.
E per quei disperati, prendere terra di là del mare, diventa un miraggio. I porti bloccano, deviano o peggio, sono costretti a respingere quella marea di navi. E i disperati che pensano di approdare in un posto, possono dirsi fortunati se riescono comunque, a sbarcare in un altro, lontano chissà quanto dalla meta.
Ma la meta ormai, è per tutti quella di sopravvivere.
Una volta a terra sarà il buon Dio a provvedere.
Con un ospedale di duecento letti, l'approdo più attrezzato è Grosse-Ile, in Canada.
Il 17 maggio approda la prima nave, con quattrocento casi di tifo a bordo. Ma all'ancora in rada, la fila di navi in attesa di sbarcare ciascuna il proprio triste fardello è lunga più di due miglia. Una vera e propria invasione.
Seimila sono le tombe.
A testimoniare l'esodo di poveri migranti che sulle coste di quella meritoria isola sono arrivati con una valigia piena di sogni e hanno invece trovato una triste sepoltura. La storia racconta che quasi la metà degli immigrati giunti quegli anni negli Stati Uniti, da là provengono. Dall'Irlanda.
Tremila miglia di là del mare.

Willie John O'Kefee, il Patriarca, uno di loro.
Grosse-Ile l'approdo. Come molti altri sventurati compagni neanche lo vede l'ospedale.
Quarantena in rada. La maggior parte dei migranti così la passa. Si guarda intorno e vede solo barche. In quarantena come tutte le altre. Il sole a picco. L'arsura che spacca le labbra. Il rollio continuo. La noia. E la fame. Brodaglia. Il resto costa troppo. Una tortura. In un mare di barche.
E ogni tanto, un lenzuolo viene buttato a mare.
«Morti». Di poche parole, Colin. Che di cognome fa O'Hara.
Vicino di branda da Liverpool.
Qualche anno più vecchio di Willie John, un tipo da prendere con le pinze. Ma lì dove si trova adesso, altro che il tranquillo paesello della contea di Donegal, di prepotenti ce n'è fin troppi. Meglio averci un amico. Grazie a lui Willie John è ancora intero e non è morto di fame.
Ci dà di coltello Colin e sa pescare.
Ogni tanto gli butta lì una lisca con tanto di testa, che in quella brodaglia ci fa comunque un figurone.
C'è un sacco di pesci là sotto. Con tutte quelle barche alla fonda e le porcherie che buttano a mare, a branchi se ne vedono. I gabbiani ne vanno matti. Si posano dappertutto e insudiciano da far paura. E sono tanti quelli che poi si ritrovano nella brodaglia. Perché sulla nave c'è gente molto, ma molto più affamata di loro.
«Neanche una tomba», commenta triste Willie John.
«Li buttano ai pesci, fanno prima. È quella la fine che faremo tutti». Risponde secco Colin. Intanto che muove la lenza a mare, per controllare se c'è qualcosa appeso, per insaporirci quella schifezza di brodaglia che si è già freddata. I giorni passano e le porzioni diminuiscono. «Prima o poi finirà anche questa porcheria e ci butteranno a mare senza neanche lo straccio». Sempre più cupo, Colin.
«Ancora dieci giorni e la quarantena finisce. Poi siamo liberi di andare dove vogliamo».
«Sei proprio un ingenuo Willie John. Non ti accorgi che le navi sono sempre meno? Neanche si riusciva a vederla la fine là in mare aperto e adesso... controlla tu stesso». E indica il mare.
Certo, le navi sono di meno.
Willie John da mo' l'ha notato. Spariscono di notte, protette dal buio. I guardacoste si defilano prima del tramonto. Meno navi, meno problemi. L'hanno capito tutti da un pezzo. Un solo contagio e la nave è spacciata.
Arrivano di notte i barchini.
Vendono di tutto pur di farci quattro soldi.
Proibito? Se ne infischiano loro, della quarantena. Finché dura, possono lucrare sulla fame di quei poveracci là sopra, vendendogli di tutto purché sia appena, quasi commestibile. E se la fame si fa ogni giorno più insopportabile, i barchini si fanno ogni giorno più numerosi. Quelli delle navi si fanno ogni giorno più furbi.
E i guardacoste guardano dall'altra parte.
«Ogni cosa ha un prezzo, basta conoscerlo». Commenta Colin con l'aria furbetta.
Si mettono d'accordo in dieci. Di più, si da nell'occhio. È lui, il più squattrinato, che guida il gruppo. Ha scelto i tipi giusti, quelli che di qua o di là del mare gli frega assai delle patate. Si insomma, mica tutti scappano dalla fame. Sono loro che ci mettono i soldi.
I nove, pagano il passaggio anche per il decimo: Colin.
Senza di lui non si parte. Perché è lui che conosce il giro. Messo su da uno dei tanti marinai di fortuna che coi barchini vendono di tutto. E ironia della sorte è un irlandese emigrato lì vent'anni prima.
«Lo faccio solo per aiutarvi, mica per soldi». E sputa per terra. A mo' di giuramento. «Rischio grosso. Se mi scoprono altro che prigione. C'è la quarantena, quelli mi impiccano». Aggiunge, prima di sparare fuori il prezzo adeguato al rischio. Quello dell'impiccato.
Con una mano li aiuta, con l'altra li sfrutta.
Colin lo sta a sentire, tanto lui non ha un soldo. Ma conosce chi li ha. E quando conosci sia il furbastro che offre il servizio che il disperato in grado di pagarlo, sei già a cavallo. Con il favore delle tenebre, appena il barchino accosta la nave, Colin e i nove si calano giù senza far rumore.
«I soldi». Chiede con un certo piglio il marinaio irlandese.
«Eccoli». Replica Colin, che gli passa la borsa. E intanto che l'altro li conta, scorge il ciuffo rosso di Willie John che dalla tolda della nave osserva tutta la scena e affranto, agita timido la mano per salutarlo. È all'oscuro di tutto e non ha un soldo. Perciò Colin fa finta di non vederlo. Non è da lui, ma un groppo gli stringe la gola.
«Non fare scherzi amico». Sbotta il marinaio all'improvviso. «Qui c'è solo la metà dei soldi», dice indicando la borsa, «dove sono gli altri?» E alza il remo pronto a menar fendenti.
«L'altra metà ce l'ha lui», dice indicando il ciuffo rosso là sopra, «ma l'avrai solo quando sbarcheremo sicuri da questo fottuto barchino». Conclude facendo segno a Willie John di scendere.
La fretta, la paura, l'emozione o chissà, il dispiacere di lasciare solo quell'imbranato di Willie John, neppure lui sa il perché di una risposta così stupida. Certo, ha intenzione di pagarlo alla fine e il saldo è avvolto nello straccio imboscato sotto la giacca, basta solo dirlo. Neanche i nove compagni di fuga sanno di questo piano. E sul barchino, per una ragione o l'altra sono tutti piuttosto nervosi. Guardano Colin con l'aria di menare le mani.
E il barchino comincia a rollare.
Willie John intanto, scende da lassù così veloce che sembra un pirata all'arrembaggio.
E il barchino continua a rollare.
«Eccolo il saldo», sbotta a sua volta Colin. Che nel buio, si sfila lo straccio con i soldi, lo passa sotto la giacca di Willie John e lo mostra all'irlandese. «Adesso parti!» Gli ordina.
Il barchino non rolla più. Scivola tranquillo sulle onde.
«Dieci. Questi gli accordi. E voi siete in undici». Replica il marinaio. «Rimandalo su». E indica Willie John.
«La nave!» Urla uno dei nove. E tutti si girano a guardarla. Spinto dalle onde, il barchino ha preso il largo.
E tutti si girano a guardare Willie John. Con l'espressione da invito neanche tanto tacito, di buttarsi a mare. E nel silenzio della barca, lo circondano. Il marinaio regge sempre il remo, ma è immobile. Senza farsi vedere, Colin stringe il manico del pugnale. Un cenno e addio terra ferma. E quando l'irreparabile sta per succedere...
«Signori io non so nuotare», voce tremula e capo chino, Willie John sembra la statua del pulcino sacrificale.
«Sei in grado di pagare la tua parte?» chiede il marinaio. Già intuendo la risposta.
«Quello che i miei hanno potuto dare, è finito da un pezzo».
«Qui non si fa credito ragazzo». Non c'è verso di schiodarlo. Vuole i soldi.
E Colin è pronto a dargli una coltellata. Poi ci ripensa e: «tieni», dice al marinaio, intanto che gli passa qualche soldo. «È tutto quello che mi rimane». Uno alla volta, in silenzio, gli altri nove seguono il suo esempio. «Bastano?». Chiede per rompere l'angoscia dell'attesa.
«No». Replica pronto il marinaio. Si è accorto che quel furfantello di Colin, la sua parte l'ha presa dallo straccio del saldo. «Ma il resto ce lo metto io», aggiunge.

E finalmente: l'America.
Alessandro Molteni
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