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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Alessandro Molteni
Titolo: La Leyenda Negra
Genere Narrativa Storica
Lettori 193 1 6
La Leyenda Negra
Due mondi.

Di là...
Maya. Inca. Aztechi.
Civiltà da leggenda.

E al di qua...
Il loro destino.

In mezzo...
L'ignoto.
Un immenso mistero blu di oceano da esplorare.

12 ottobre 1492.
Ventisette anni prima dello sfavillante luccichio, motivati dal profumo dell'avventura e della scoperta, le tre caravelle di Cristoforo Colombo gettano l'ancora nell'isola di Guanahanì. Che chiamerà: San Salvador.
E il Vecchio Mondo, incontra il Nuovo.
Niente sarà più come prima. Nuovi orizzonti. Territori da conquistare. Ricchezza da sfruttare. Gloria e potere da raccogliere a mani basse. Ci sono anche i popoli però, dall'altra parte. E i resoconti suscitano incredulità.
I nativi? “Omuncoli nei quali a stento potresti trovare vestigia di umanità, che si sarebbero addirittura cibati dei resti dei corpi umani sacrificati ai propri idoli”. Così li descrivono.
Gli animi si accendono. Le discussioni impazzano. Religione, giustizia e potere si confrontano.
Nel 1493, il papa spagnolo Alessandro VI, con la Bolla “Inter caetera”, proclama il diritto-dovere della Spagna di prendere totale dominio sul Nuovo Mondo e imporre agli infedeli, la fede cattolica.

«Quando ti accosterai a una città per combatterla, chiamala prima a pace. E se ti apre le porte, tutto il popolo che in essa si troverà, siati tributario e soggetto. Ma, s'ella non fa pace teco, anzi guerreggia contro di te, assediala; e il Signore Iddio tuo te la darà nelle mani; allora metti a fil di spada tutti i maschi. Predati sol le femmine, fanciulli, bestiame e tutto quello che sarà nella città, tutte le spoglie di essa; e mangia della preda de' tuoi nemici che il Signore Iddio tuo ti avrà data». Deteuronimo 20-10/14.

Passano gli anni. Le prime spedizioni cominciano a salpare. I resoconti si arricchiscono di dettagli ripugnanti. E in patria, la discussione che mai si è placata, riprende vigore.
“È compito degli spagnoli rieducare questi esseri manchevoli o, nel caso in cui oppongano resistenza, punirli sulla base di pregiudizi di valore, seguendo un processo in cui la paura si rivela come unico strumento educativo, poiché se calcolassimo i mali e i beni che questa guerra comporta per i barbari, senza dubbio i mali sarebbero oscurati dalla moltitudine e consistenza dei beni”.

Con questo scritto, il domenicano Juan Ginés de Sepúvelda esprime il suo pensiero e rimarca l'attualità della Bolla papale di Alessandro VI. La guerra è avvio alla evangelizzazione. I nativi la meritano per peccati e idolatria. I conquistadores invece: angeli punitivi che li guidano sulla retta via. E per tutelare i loro diritti e dare una solida base anche giuridica a conquista e sterminio...
Nel 1512 viene scritto il “Requierimiento”.
Un documento Ufficiale da leggere a mo' d'ingiunzione ai nemici, prima della battaglia. Per spiegare che chi viene dall'altra parte dell'oceano e gli sta di fronte, ha il sacrosanto diritto di prendersi le loro terre poiché cristiano e quindi, discendente del Cristo. Per farla breve...
O si sottomettono all'autorità legittima dei re di Castiglia e Aragona, o sarà "giusta causa" per la guerra e su di loro cadrà la colpa del sangue versato. I comandanti hanno l'ordine di leggerlo in spagnolo o in latino, alla presenza di un regio funzionario. Gli indigeni non capiscono una parola, ma la coscienza è salva e il cavillo giuridico, rispettato. Il notaio certifica per iscritto che i nativi sono avvertiti, e la mattanza può cominciare. Questa la procedura. Ma per fretta, paura o convenienza...
Chi lo urla dalle navi o al riparo dei fortini e chi prima spara, uccide, e poi lo legge ai sopravvissuti già incatenati giù nelle patrie galere. Perché è sempre lì, che si finisce. Lo spirito di chi detta le regole agli scrivani di corte nei lussuosi palazzi del potere sarà pure lastricato di buone intenzioni ma poi, chi le mette in pratica è quello che la fa sul serio, la guerra. E in quei posti lì, la regola aurea dettata non dal saggio di turno ma dall'esperienza fatta sul campo dal diretto interessato è, a dispetto dei ghirigori giuridico-filosofici-religiosi, di una semplicità disarmante: prima colpisci e poi parli.

Hidalgos.
La piccola nobiltà spagnola. Sono loro che fanno la guerra.
Titolo e privilegi non mancano, ma niente da spartire con le ricchezze dei ricoshombres. La vera, unica, grande aristocrazia della potente Spagna. Tanto che per marcarne la differenza li chiamano con disprezzo: “gli affamati”. E bisogna esserlo davvero, per diventare Conquistadores. Gente di umili origini e piccola nobiltà, che fa della guerra un mestiere. E finita una, se ne cerca subito un'altra. Coincidenza vuole, che dopo la caduta di Granada nel 1492, ultimo baluardo musulmano, la “reconquista” è compiuta e loro, sono senza “lavoro”.
Passa solo un anno e...
L'impresa di Colombo e le prospettive che apre con la scoperta del Nuovo Mondo, è l'occasione che capita nel momento giusto, per chi ha “fame” di guadagno e potere. Spietati e coraggiosi non vedono l'ora di sfidare la sorte e conquistare nuovi territori. Emissari della Corona o mercenari, l'obiettivo delle spedizioni è duplice.
Portare ricchezza alla madrepatria, e la verità dell'unica religione nel Nuovo Mondo.
Così che a quella ciurmaglia di mozzi e marinai reclutati a forza nelle bettole dei porti, agli hidalgos in cerca di fortuna e ai capi di ventura, si aggiungono gli evangelizzatori. Armati solo del coraggio e della fede. Caparbi e determinati quanto basta, per tenere a bada la ciurma, gli hidalgos, e catechizzare le popolazioni del posto. Apripista di domenicani, mercedari, agostiniani e gesuiti...
Il primo ordine che parte, è quello dei francescani.

Anno 1517.
La spedizione di Juan de Grijalva attraversa l'oceano.
Passa San Salvador, l'isola che 25 anni prima ha visto l'approdo delle tre caravelle, fa tappa a Cuba, costeggia la costa nord dello Yucatán e sbarca a San Juan de Ulúa, nei pressi del villaggio che poi diventa: Veracruz. Territorio Totonac, sotto gli auspici del potente Impero Azteco.

“Sicché remarono verso le navi e, quando l'ebbero raggiunte e visto gli spagnoli, baciarono tutte le prue delle imbarcazioni in segno di adorazione. Pensavano infatti che fosse il dio Quetzalcóatl che ritornava e che stavano aspettando, come si legge nella storia di questa divinità. [...] Quindi offrirono tutti quei ricchi mantelli a colui che era il capitano delle navi, ossia a Juan de Grijalva [...]. (Bernardino de Sahagún, dodicesimo libro del Codice Fiorentino).

Davvero un'accoglienza di tutto rispetto, per le cronache dell'epoca. Ma mentre marinai, soldati e frati della spedizione si sentivano degli dei, a Montezuma arrivò una triste conferma...
«Signore nostro, meritiamo la morte. Ascolta ciò che abbiamo fatto. Tu ci avevi messi a guardia della costa e noi abbiamo visto arrivare dal mare gli dèi». (Bernardino de Sahagún, dodicesimo libro del Codice Fiorentino)

Dopo qualche mese, la spedizione riprende il mare per esplorare la costa nord del golfo, fino alla penisola della futura Florida. Parte dell'equipaggio però, preferisce rimanere sulla terra ferma e guardarsi in giro. Ognuno ha il suo piccolo o grande progetto in testa, quello cioè, che ha motivato la scelta di partire e sfidare l'ignoto. Dopo mesi di navigazione e quell'accoglienza così calorosa, molti pensano sia arrivato il momento di fermarsi e metterlo in pratica.
Tra loro, c'è Manuel. Solo questo si sa di lui: il nome.
Il resto non interessa a nessuno e lui preferisce tenerselo per sé. Neanche l'età è quella giusta. Se l'è aumentata di cinque anni per prendersi l'imbarco. Semplice mozzo. Pulisce, spazza, lucida armi, accudisce i cavalli, sbuccia patate e aiuta il cuciniere. Fa di tutto, insomma. Nei mesi che ha vissuto sulla nave ormeggiata al largo, ha speso più tempo a girovagare per il territorio, che a bordo.
A dirla tutta, la decisione di rimanere a terra, mica è dispiaciuta al capo ciurma. Con tutte le vergate che gli ha inflitto per punizione, non è riuscito a raddrizzarlo di un grado. Se ne sta lì col suo sacco, finché le navi spariscono all'orizzonte. Poi si gira e s'incammina su per il sentiero che lo porta a una capanna un po' defilata, ai bordi del villaggio. È la che vive lo strano personaggio. Veste il saio nero e si fa chiamare Jean Luis Martinez de Casteňeda. Frate cistercense, dice di essere.
«Ma non hanno il saio bianco, i cistercensi?» gli chiede allora, al primo incontro.
«Anche lavarlo, al massimo diventa grigio», risponde serio l'altro. «È liso, logoro e sporco; avrei bisogno di un cambio ma qui non siamo al Monasterio Santa María la Blanca di Saragozza». Che per uno dell'Estremadura, è come parlargli del villaggio di capanne di qua del mondo, quando è ancora di là.
A Manuel pare un po' via di testa. Ma chi arriva dall'altra parte dell'oceano deve esserlo sul serio, per sbarcare lì tra capanne di rami e frasche, sperando di migliorare la propria condizione. Lui, umile contadino orfano di padre che non ha mai neanche conosciuto, e con la madre povera donna, che per campare si spaccia a seconda dei pochi e laceri clienti, una volta guaritrice e l'altra negromante. Cura insomma, con erbe miste a qualche diavoleria e arcani intrugli. L'unica sussistenza, dato che il campicello dell'Estremadura, nelle stagioni siccitose non produce niente. Il maiale è un sogno e le uova delle quattro galline si devono vendere, mica mangiare. Quando ne ha abbastanza, abbagliato dai racconti di città d'oro e erbe miracolose, Manuel pianta tutto e cammina fin sulla costa, per imbarcarsi.
E adesso è lì, davanti alla capanna di un frate cistercense via di testa e il saio nero, ma tanto convincente da riempirlo di sogni e spingerlo a restare, invece d'imbarcarsi per chissà quale altra missione.
«Così impari la lingua del posto e cominci a darti da fare».
Manuel ne ha abbastanza di mare, vomito, burrasche e vergate sulle natiche. Già convinto di suo, si è subito dato da fare. Ha corteggiato una ragazza, e la prima cosa che ha capito, è non provarci più. L'indio, con una mano lo prende per i capelli e con l'altra gli punta il pugnale di ossidiana dritto alla gola. Il frate a fatica, riporta la calma.
«Ricorda che prendere per i capelli qui, ha un senso preciso», gli dice, quando il ragazzo rinviene. «È così che trascinano i prigionieri su per le scale dei loro templi, prima di strappargli il cuore». E ne approfitta, per tagliargli quel ricettacolo di insetti e zazzera incolta, che si porta appresso da prima ancora di lasciare l'Estremadura.
«Ma mi hai fatto la chierica», brontola il ragazzo, dopo averla sfiorata con la mano.
«Così sembri un fraticello, nessuno si farà più domande su chi sei e cosa fai. E questa capanna diventerà la prima abbazia cistercense del Nuovo Mondo». Tanto è convinto, che pare l'Abate.
I due s'intendono alla grande. In fondo sono uguali. Perché lui, nella Estremadura qualche monaco l'ha pure visto. E se l'amico a cui adesso deve la vita, pare tutto meno che un frate, lui, con la sua chierica pellegrina in cima a un corpo emaciato e coperto di stracci, è messo peggio. Radici, erbe bollite o al naturale. Si nutrono di tutto quello che trovano o riescono a barattare. L'altro davvero ci sa fare, è un maestro: di intrugli ne fa di ogni. Alcuni danno alla testa ma poi ti senti sazio e dormi beato. Altri li evacui senza quasi accorgerti, da tanto veloci ti fanno andare. E Manuel, che con erbe e radici la madre l'ha svezzato...
«Sei proprio bravo», lo elogia una sera dopo l'assaggio dell'ennesima pozione di chissà che cosa. Si sente brillo, bello e forte. Ha voglia di cantare, muoversi e ballare. La frenesia cresce fino a scuoterlo come un fuscello, non riesce più a fermarsi.
«Lo faccio da una vita. E credimi, ci sono erbe qui, che non trovi da nessuna parte. A me piace sperimentare». Risponde il cistercense, mentre lo costringe a bere qualcosa, che lo fulmina all'istante.
Che sia bravo, glielo conferma ogni giorno la gente del posto, col via vai della capanna. Pare uno sciamano più che un cistercense. E Manuel fa di tutto per imparare. Lo segue passo passo in ogni dove. Raccoglie le erbe, prepara e sperimenta con lui nuove pozioni. Non tutte però. Ci sono cose che il frate tiene gelosamente per sé, e assaggia nel segreto di una misteriosa grotta.
«Qui non ci devi venire». E non scherza. «Ci sono cose pericolose, ti puoi far male. Addirittura morire».

Il tempo passa. Manuel ormai è ufficialmente “el-novicio” per tutti: indios e hidalgos. Ha imparato il nahuatl quanto basta, per tradurre gli uni e gli altri ogni volta che nascono discussioni. Ma il suo interesse adesso, è quello di dedicarsi alla segreta arte di Jean Luis Martinez de Casteňeda. Che da un po' di tempo si comporta in modo strano. Qualcosa non va per il verso giusto. Inutile chiedere. Non risponde.

Succede una notte.
Ha la febbre, gli occhi cerchiati. Sputa sangue. Trema. Manuel è preoccupato.
«Vedrai che passa. Non è la prima volta». Cerca di rassicurarlo il frate. «Esco. Una camminata mi farà bene». Lo sguardo però, gli manda tutto un altro messaggio. Già altre volte è capitato. Una settimana, due. Poi torna. Questa volta invece...
Manuel sa dove cercare. È là, che lo ritrova. Nella grotta del mistero: alambicchi, mortai e pestelli. Sementi, elisir, intrugli di ogni sorta. È nudo. Avvolto in un sudario. Stringe un crocefisso. Il saio è piegato lì vicino. Come chi sa di dover morire e si spoglia per volare via, con la stessa identica livrea con cui è venuto al mondo. Se ne sta lì, senza reazione, a fissare il corpo morto dell'amico e maestro che non c'è più. L'ha lasciato solo, in un mondo che è tutto da scoprire. Un attimo di sconforto. Rivede il suo pollaio di là del mare, la nave, i marosi, le vergate, l'orizzonte sempre uguale. E ripensa al sogno che si sta spegnendo. La spedizione è ripartita. L'amico-maestro se n'è andato. E lui è lì, perduto in una terra tanto bella, quanto misteriosa.
Si avvicina al sudario, fa il segno della croce, e decide di dargli la sepoltura che merita. Lo sotterra poco più in là. Su un terrapieno di fronte alla grotta. Poi rientra e si ferma a guardare. Ampolle, vasi, cesti, semi e radici. C'è un plico. Strappato, bruciacchiato, logorato dall'umidità e dagli anni. A malapena si notano segni, schizzi, annotazioni e glifi per lui indecifrabili. S'infila il saio, prende il plico, distrugge tutto e se ne va.

La mente si perde nei ricordi, mentre col passo greve torna al villaggio.
«Sai fare parecchi intrugli, con erbe, radici e tutto il resto. Hai una pozione per qualsiasi accidente. C'è la fila fuori della capanna. Cosa ti costringe a chiuderti là dentro, senza toccare cibo per settimane?».
«Pozioni, linimenti, elisir. Per questo basta uno sciamano». Gli risponde il frate, col tono di chi è in vena di confidenze. «Da quando sono arrivato qui, ho avuto modo di indagare a fondo, quello che di là nel vecchio mondo conoscevo solo per sentito dire. La leggenda di un'erba che prende vita da una pozza di sangue, e soffoca tutto ciò che di vivo c'è sulla sua strada. Lo penetra con le radici, prende forza e riparte. Finito l'effetto, se non trova altra linfa, questione di poco e non rimane più niente. Solo polvere». Gli occhi spiritati, fissano il buio. «Il fenomeno esiste. A pochi eletti è dato di notarlo. E per loro non è di certo un bene». Continua, angosciato da quello che solo lui vede. Lo sguardo si rabbuia e... «Stanne lontano. È un potere malvagio che si nutre del sangue delle povere vittime, per placare divinità perverse e crudeli». Lo ammonisce il cistercense, con una voce che via via si fa cupa, profonda e roca. «Pur di replicarlo e diventare potente, c'è chi è disposto a vendere l'anima al maligno, per possederne i semi. Quelli del Diavolo». E si zittisce.
Da allora, nessuno più torna sull'argomento. Manuel non ha più dubbi: l'amico si è bruciato il cervello.

Cammina el-novicio con il saio e il plico sottobraccio.
La mente vaga tra i ricordi e un futuro che tarda a farsi strada. Mentre con lo sguardo scruta l'immensità di quel mare che ha attraversato pieno di sogni, speranze e voglia di fare.
È allora che lo nota: c'è qualcosa all'orizzonte.
Affretta il passo, scende al villaggio e lo trova deserto. Sono tutti là, a rimirare lo spettacolo. Sulla distesa blu del mare, l'orizzonte è oscurato dalle vele di una poderosa flotta di undici navi.

Febbraio1519.
Accolta da urla e balli dei nativi in festa...
La flotta spagnola sbarca sulla costa dello Yucatán, in territorio Totonachi. E il piccolo villaggio, si trova letteralmente sommerso da un esercito che fra soldati, ufficiali, balestrieri e archibugieri, conta 550 uomini, 16 cavalli e 10 cannoni. Oltre un assordante e minaccioso latrare di cani, che paiono belve. Devono lavorare parecchio gli hidalgos venuti da lontano, per costruirsi un fortilizio.
E Manuel, che non ha mai visto tanti soldati bardati di tutto punto in una sola volta, spinto dalla piacevole novità di vederli all'opera: gestire cavalli, piazzare cannoni, governare i cani, montare tende e picchettare il campo, curiosando qua e là in quella baraonda, si trova faccia a faccia con due baffi poco rassicuranti.
«E tu, chi sei?» gli domanda l'omone, col piglio di chi è abituato a comandare.
Preso alla sprovvista, Manuel sulle prime non sa rispondere, ma ricordandosi di aver il saio indosso e la chierica sulla testa...
«Jean Luis Martinez de Casteňeda. Frate cistercense». Urla, neanche lui sa perché, quasi fosse un editto.
«Guarda che non sono sordo», lo rimbrotta il baffone, «che ci fa qui un cistercense con quel lurido saio indosso?». Ci pensa su e: «non dovrebbe essere bianco?». Aggiunge.
«Col tempo è diventato frusto e scuro. Mi sono perso il cambio». E in quel momento...
«Comandante Juan Ronquillooo» Urla uno dei soldati all'omone che ha davanti. «Subito a rapporto!».
«Da quanto sei qui?». Gli chiede ancora, mentre in fretta e furia si aggiusta la giubba.
«Più di un anno».
«Parli la loro lingua?». Indica gli indios, mentre cerca di darsi una frettolosa ripulita.
«Si».
«Bene», sbotta soddisfatto, «sei arruolato. Ti aspetto qui domattina». Ordina, mentre già sta correndo via.
«Ma io ho da badare alla missione», addita la capanna con due tronchetti a mo' di croce, ben in vista.
«Bruciala». Gli urla il Comandante da lontano.
La gente del villaggio intanto, si mette in circolo per ricevere in pompa magna, il Comandante in Capo dell'intera spedizione. I soldati si piazzano, formano un varco, e finalmente, seguito dai suoi comandanti arriva lui.
Hernàn Cortés “el Conquistador”.
Rude, crudele, coraggioso e scaltro. Ha solo trentaquattro anni e non conosce mezze misure. Fedele al Re di Spagna e religioso quanto basta, cerca gloria e ricchezza per sé e per la patria. Non scende a patti: va deciso per la sua strada.
E lo dimostra qualche mese dopo lo sbarco.
Alessandro Molteni
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