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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Scacco agli dei
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La regola delle 50 mosse. Avevamo bisogno di saperne di più. Dovevamo sapere di più su quella macchina, l'Ajedrecista, ma anche sul ruolo di quel Lasker, e sulla vita del premio Nobel La Fontaine. Nomi. Storie. Vite. Posto anche che avessimo davvero sul tavolo gli elementi utili, non conoscevamo ancora il loro ruolo in quella strana storia. Come pedine di una partita a scacchi col caso, erano nomi buttati sulla scacchiera in disordine sparso. Fu subito chiaro che dovevamo dividerci i compiti. Clara, che conosceva il tedesco, si sarebbe occupata di Lasker. Jakob, con i suoi contatti, del premio Nobel La Fontaine. Io, dunque, mi sarei occupato dell'ingegner Leonardo Torres y Quevedo, inventore della leggendaria macchina scacchistica. Di comune accordo decidemmo che ognuno si sarebbe occupato del proprio personaggio senza aggiornare gli altri fino alla fine, per non influenzarci a vicenda. Solo al termine avremmo provato a ricomporre la trama globale. Così io cominciai a documentarmi su quella macchina dal nome esotico, e sugli automi negli scacchi. Il più famoso automa scacchista della storia era stato certamente quello che è conosciuto come Il Turco. Si trattava di un automa con le sembianze di un uomo arabo, che sedeva col suo turbante ad un tavolo, davanti ad una scacchiera. Fu costruito per l'imperatrice d'Austria ma si dice abbia battuto a scacchi molti illustri personaggi, tra cui anche lo stesso Napoleone. Facendolo arrabbiare. Una macchina che era in grado di battere un uomo in carne ed ossa! Si rivelò però poi solo un astuto inganno... Fu un giovane cronista, tale Edgar Allan Poe, ad accorgersi che qualcosa non tornava. Nel vano del grande tavolo su cui il turco armeggiava, stava infatti nascosta una persona di bassa statura che con le sue mosse manovrava il braccio meccanico dell'automa ottomano dall'interno, potendo vedere le mosse dell'avversario attraverso un ingegnoso sistema di specchi camuffati tra le vesti. Nonostante fosse meccanicamente una macchina prodigiosa, la sua intelligenza scacchistica restava dunque un fattore esclusivamente umano. Elemento non da poco. L'Ajedrecista non era un automa come il Turco, ma aveva qualcosa di molto più profondo. Grazie ai contatti dell'editore, riuscii a parlare con il museo di Madrid dove si trova ancora la macchina e, tramite un amico di Bilbao, scoprii due cose che mi colpirono. Primo, Torres aveva conosciuto la guerra, arruolandosi nella difesa della sua città durante un episodio della guerra civile. Secondo, dopo quell'esperienza era diventato un convinto sostenitore dell'Esperanto, la lingua universale in cui era stato scritto almeno uno degli appunti trovati sul manoscritto. Quella era un'informazione fondamentale! Era dunque sua la mano che aveva vergato quegli appunti? Cominciavo a mettere a fuoco la mia idea, ma dovevo aspettare di capire cosa fossero riusciti a scoprire gli altri. Decisi di concentrarmi sulla macchina. Si trattava apparentemente di un semplice tavolo, con al centro una scacchiera, animata in realtà da un complesso sistema di sensori e rudimentali algoritmi. La sua funzione non era di giocare un'intera partita, ma solo una chiusura contro il re avversario. Vincendola. Ma fu il come la vinceva a lasciarmi senza fiato. La macchina non era solo in grado di capire quale era stata la mossa di un avversario umano, ma anche di risponderle immediatamente, segnalando addirittura una sua eventuale scorrettezza nel gioco. Rimasi sorpreso, da un lato si trattava di un'opera di ingegno eccezionale, tanto può essere considerato il primo rudimentale esperimento di intelligenza artificiale o domotica, almeno cento anni prima che queste parole diventassero realtà per come le intendiamo oggi. Dall'altro lato però mi impressionò scoprire che, in base alla semplicità dell'algoritmo utilizzato, la macchina non giocava per battere direttamente l'avversario umano, ma piuttosto per protrarre la partita fino al suo limite estremo. Non essendo cioè sempre in grado di dare scacco matto al re avversario in poche mosse, per chiuderla, utilizzava tutte le mosse legittime e concesse fino a far scattare inesorabilmente quella che va sotto il nome di Regola delle 50 mosse. Un giocatore può richiedere la patta se nelle ultime 50 mosse della partita non si sono verificati né un movimento di pedone né una cattura. La patta. In altre parole, la fine della partita, senza che però ci siano un vincitore né un vinto. Se la partita era la simulazione di una battaglia, di una guerra, la patta poteva essere vista come quella di una tregua. Come una forma pragmatica di pace. La mia idea ritornava: non cercare il pieno, ma il vuoto. Quella sera, facemmo un punto a tre. Ero frustrato e confuso. «Non capisco» – esordii, senza preamboli. «Ho passato ore a studiare i meccanismi dell'Ajedrecista. La macchina di Torres è un prodigio, ma c'è qualcosa che non torna. Non è programmata per vincere velocemente, per dare scacco matto come si potrebbe immaginare. Anzi, spesso allunga la partita all'infinito, fino a forzare la patta. Che senso ha costruire una macchina per non vincere?» Vidi Clara aggrottare la fronte. Jakob, invece, sorrideva. «Forse, Michael» – disse lentamente, la sua mente analitica era al lavoro – «stai guardando il problema dalla prospettiva sbagliata. Forse lo scopo non è mai stato quello di vincere.» «Cosa vuoi dire?» – la incalzai. «Una patta non è una sconfitta» – continuò lei, gli occhi che si illuminavano. «È una tregua. È un atto diplomatico. È costringere l'avversario a sedersi a un tavolo perché nessuno dei due può più prevalere, ma senza l'onta della sconfitta. E negli scacchi, quando sulla scacchiera rimangono solo i due re, la partita si ferma e i due giocatori si stringono la mano.» Come due re a loro volta. La sua intuizione fu come una scarica elettrica. Improvvisamente tutto mi parve evidente: il disegno, i personaggi, le metafore, le culture, l'Esperanto. Tutto portava in quella direzione. Ma noi, per abitudine, ci eravamo concentrati solo sulla simulazione della guerra, sulla vittoria, sullo scacco matto. Non avevamo considerato l'alternativa. Neutralizzare le pedine armate e costringere i due re al dialogo. «Quindi secondo voi la macchina di Torres non sarebbe un simulatore di guerra» – aggiunse Jakob, cogliendo l'attimo – «ma un simulatore di mosse diplomatiche?» «Immagina che lo scopo non sia mai stato vincere, ma accompagnare l'avversario alla resa, portarlo al patto, al dialogo forzato.» Sin dall'inizio erano stati lì, sotto i nostri occhi con i loro ambasciatori: il re guerriero e il re diplomatico. Ma a differenza nostra, quegli uomini folli e visionari non guardavano agli eserciti sulla scacchiera. Guardavano ai meccanismi sotterranei, quelli che portano un passo alla volta quei re uno di fronte all'altro e li costringono a fronteggiarsi senza più la loro superbia, senza tollerare il sopruso da parte del più forte sul più debole, fino all'inevitabilità di una patta. Fino all'ultima delle cinquanta mosse consentite. Fino alla Pace.
I custodi della pace.
Quando tutti fummo giunti a conclusione della nostra parte di lavoro, decidemmo di chiedere la sala convention dell'albergo: avevamo bisogno di una stanza dove rimanere soli, di un tavolo, un computer e una lavagna. Come scolaretti che si ritrovano dopo le vacanze, ci sedemmo a quel tavolo ben coscienti che stavamo, forse, per chiudere un cerchio. Ciascuno di noi conosceva fino a quel momento soltanto la sua piccola parte di verità. Ognuno arrivava con la sua pedina da mettere sul tavolo, come uno scacchista geloso dei suoi pezzi. Iniziai io, nella convinzione che la mia scoperta sull'Ajedrecista fosse la base. Presi i pennarelli colorati e iniziai a tracciare uno schema sulla lavagna. «La mia idea è questa» – esordii. «Un gruppo di menti geniali, a inizio Novecento, unisce le forze. Sono diversi per cultura e provenienza – uno spagnolo, un tedesco, un belga, un giapponese, e chissà chi altri – ma li unisce la passione per gli scacchi e, forse, la speranza di usare la logica per prevenire l'irrazionalità della guerra. Il loro piano? Capire se possa esistere una forma razionale, una formula, per dipanare l'enorme matassa delle guerre. La prima guerra non era ancora scoppiata, c'era fiducia nel futuro. E per svolgere quei calcoli, chiamiamoli così, sfruttare una sorta Oracolo. Una macchina che potesse svolgere quel compito.» «L'Ajedrecista» – mormorò Clara, seguendo il mio ragionamento. «Esatto. Ma non una macchina per vincere, come abbiamo capito. Ma un simulatore di pace, programmato per forzare la patta, la tregua. L'idea forse era quella di inserire tutti gli schemi di gioco conosciuti, le migliori strategie, persino le mosse suggerite da un testo fantasioso ma pratico come l'Edda, per creare una specie di algoritmo potente capace di neutralizzare i meccanismi di ogni conflitto. Un'utopia, ma a suo modo scientifica.» Mi fermai, guardando i loro volti. Li sentivo respirare, ma nessuno parlava. Mi chiesi se tutto quello non fosse semplicemente folle. Clara ruppe il silenzio, scettica. «È una teoria affascinante, Michael, molto poetica. Ma non abbiamo prove... Potrebbe essere solo il delirio di un inventore geniale e solitario, Torres, che non ha mai conosciuto nessuno degli altri. Come leghiamo queste persone tra loro?» Jakob sorrise. Era il suo momento. «Forse con questo» – disse, posando sul tavolo la scansione di una lettera. «Berna. Archivio personale di La Fontaine. Datata 1913.» Ci avvicinammo. La lettera era scritta in Esperanto, ma una frase era cerchiata in rosso. Jakob la tradusse: "Il nostro progetto per la pace va avanti. Presto il nostro Oracolo darà la risposta giusta alle mosse errate."» «L'Oracolo...» – sussurrai. Era il termine usato da Torres. «Visto?» – disse Jakob. «Ma il bello non è nella lettera stessa. È sulla busta.» Girò il foglio. C'era solo una scritta esile, a pennino, senza indirizzo: Ai custodi della pace. Custodi della pace. Era dunque quello il nome che si erano dati? Aggiungemmo le nuove linee al nostro schema, che ora univa Bruxelles, Parigi, il 1913 e il 1914 in un arabesco sempre più fitto. Restammo a guardarlo, in silenzio. Clara, conscia di essere rimasta l'ultima a dover parlare, si alzò con lentezza, prese il pennarello verde e cominciò a tracciare una linea che univa i nomi: Kanakuri con Torres, La Fontaine, con Lasker. Ma con nostra grande sorpresa ne aggiunse un quinto: un certo Wilhelm Wundt. Ci disse che Lasker non era stato solo un geniale scacchista, ma un filantropo ossessionato dall'educazione dell'umanità. Poi sganciò la bomba. «Volete sapere di chi era grande amico Lasker? Di un certo professore che, guarda caso, dal 1912 al 1914 insegnava a Zurigo, a pochi chilometri dalla sede del Bureau di La Fontaine. Il suo nome era Albert Einstein.» Rimanemmo muti. «Anni dopo» – continuò Clara – «Einstein scrisse anche la prefazione a un libro di Lasker, e disse: Non mi piace la lotta tipica del gioco degli scacchi. Le ragioni della mia avversione sono, soprattutto, di natura etica. Capite? Loro non volevano vincere. Volevano solo provare a trasformare un gioco di guerra in un'equazione di pace.» L'ipotesi era suggestiva, ma di nuovo non avevamo vere prove del coinvolgimento di Einstein. Lo aggiungemmo allo schema con un punto interrogativo. Ci eravamo quasi scordati di quell'ultimo nome, Wundt, quando Clara lo cerchiò con un doppio giro d'inchiostro verde. Venimmo così a sapere che si trattava di uno psicologo tedesco, il padre della psicologia dei popoli. In sostanza era convinto che alla base dei comportamenti ricorrenti nella storia, come le guerre appunto, ci fossero degli schemi mentali universali connessi all'uomo, presenti in ogni cultura, dalla Danimarca al Giappone. «Era una teoria molto popolare allora. Credo che tutti loro avessero letto i suoi lavori» – disse Clara. «L'idea che i conflitti nascano da schemi prevedibili, e che quindi possano essere neutralizzati, sarebbe in fondo stata la base del loro intero progetto.» Poi proiettò sulla lavagna un diagramma usato da Wundt. Era un intreccio di linee e nodi, con frecce che scorrevano in entrambe le direzioni. ↔ Esattamente lo stesso simbolo che avevamo trovato nelle note a margine delle pergamene! Restammo in silenzio, a guardare quella matassa insensata che ora improvvisamente pareva acquistare un ordine, un senso logico e terribile. La teoria era completa. Un gruppo di menti illuminate che aveva tentato di applicare la logica, la psicologia e la tecnologia per fermare la corsa dell'umanità verso la guerra. «Hanno fallito» – disse Clara, con una tristezza nella voce. «La Prima guerra mondiale è comunque scoppiata, poco dopo. Il loro sogno si è infranto contro la ricchezza e la complessità del libero arbitrio degli uomini, e contro la ferocia umana che nessuna equazione potrà mai prevedere.» «Sì» – risposi io, guardando i nomi sulla lavagna. «Hanno fallito. Ma ci hanno provato. Si sono rifiutati di arrendersi all'idea che l'uomo sia solo il lupo degli altri uomini. Se anche hanno fallito, nel loro slancio ingenuo e un po' folle, il loro è stato il più nobile dei fallimenti.» Scese il silenzio. In quanto a noi, sentivamo che eravamo giunti alla fine della partita: ciascun giocatore aveva fatto la sua mossa e tutti i pezzi erano stati posati sulla scacchiera. Ma mancava ancora la mossa finale. Lo scacco al re. |
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