|
Writer Officina Blog
|

Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
|
|
|
|
Conc. Letterario
|
|
Magazine
|
|
Blog Autori
|
|
Biblioteca New
|
|
Biblioteca Gen.
|
|
Biblioteca Top
|
|
Autori
|
|
Recensioni
|
|
Inser. Estratti
|
|
@ contatti
|
|
Policy Privacy
|
|
La Leggenda del Monaco Cavaliere
|
La neve del cuculo. Imbianca tutto e se ne và. Si scioglie quasi subito. E mentre il candido manto si ritira, tutto quello che l'inverno ha messo sotto ghiaccio rispunta dal terreno col vigore che la natura, sprigiona a primavera. Un trionfo di vita, di colori. E Morte. Là, tra il verde, le gemme, i crotus, le viole i cardi le campanule e i tarassaco, spuntava una mano. Pareva un artiglio. Ammuffito dal tempo. Consunto dalle intemperie. Scorticato dai corvi.
La neve del cuculo. «Finalmente.» Commentò Jacquot. Era da tempo che l'aspettava. Contadini di montagna da generazioni, i Fournier vivevano in una valletta riparata dai venti gelidi che scendevano dalle gole del nord e anche col solleone conservava quel briciolo di umidità per non inaridire. «È terra benedetta questa.» Gli ripeteva il nonno. Siamo i primi a portare i prodotti al mercato e gli ultimi a chiudere le bestie nelle stalle. Le stesse cose che Jacquot adesso ripeteva a Lucas, suo figlio. Un anno davvero disgraziato. L'inverno aveva picchiato forte. E non aveva intenzione di mollare. L'anno domini 1112 era iniziato peggio di come era finito quello passato. Aveva faticato per garantirsi qualche primizia e se il tempo non metteva giudizio, per via dei tratturi ancora impraticabili rischiava di non poterle portare al mercato. E vedersele marcire nel campo. Perciò scrutava il cielo e le nuvole che coprivano la montagna. Nottata di neve. Ma c'è neve e neve. Il contadino di quelle parti deve riconoscere i suoi messaggi se vuole sopravvivere. Lo senti nell'aria l'odore della prima neve, quella vera, che si stende sopra i campi e avvolge ogni cosa di un velo bianco. Pulito, leggero. Aveva preso tutti impreparati quell'anno. Natura, contadini, selvaggina e predatori. Era arrivata in anticipo. La transumanza dall'alpeggio, una tragedia per il povero Jacquot. Affamati, i lupi erano scesi fino alla fattoria per sbranargli qualche pecora. La prima spruzzata di primavera, quella che si scioglie nei versanti a sud era invece arrivata in ritardo. Seguita da un feroce ritorno di freddo e neve vecchia, indurita dalle notti ancora sotto zero. Volubile come marzo e ultima resistenza dell'inverno, la neve della rondine era scesa già da un paio di settimane. E finalmente: lei, che tutti i contadini attendono, il segnale che risveglia il bosco. Neve effimera, di fine stagione. Basta il tepore della terra per scioglierla. La neve del cuculo. Si era fatta desiderare. Era quasi maggio. E là, dove il contado del Baglivo confina con quello dei Des-Fossés, nell'angolo di paradiso che i Fournier coltivavano da generazioni, tenere, fresche, gustose e colorate, le primizie erano già da cogliere. «È arrivata, babbo.» Lucas non stava più nella pelle. «Si parte.» «Ancora un po' di pazienza, ragazzo.» Jacquot era forse più felice di lui, ma l'esperienza faceva la differenza. «Lassù dove dobbiamo andare è ancora neve vecchia. Di notte gela. È pericoloso il tratturo. Rischiamo di farci male e perdere il carico.» «E quanto dobbiamo aspettare? Le primizie sono mature.» «Già si sente il libeccio. Domani raccogliamo e prepariamo il carretto. Tu intanto vai a prendere qualche pesce a fiume. Che a loro gli piace. Hanno mangiato broccoli e fagioli per tutto l'inverno.» «Te le raccolgo io le primizie. E poi vado a pescare intanto che tu prepari il carretto. Così anticipiamo di un giorno e non rischiamo di consegnarle già guaste.» Fatica e ansia. La stessa dei suoi genitori. «È questa la vita del contadino. Ci devi fare l'abitudine.» Lo rimbrottò bonario, Jacquot. «Si cammina su un ponticello stretto. Di sopra c'è il cielo con le sue bizze e di sotto il raccolto coi suoi tempi. Se litigano e la provvidenza non ci aiuta si muore di fame. Ma è pericoloso lassù, credimi. Appena fa buio spuntano i lupi e se ti prende una bufera di nevischio perdi l'orientamento. Non hai idea di quanti poveri pellegrini si sono smarriti per via. E al disgelo solo qualche straccio hanno ritrovato.» Era stato il trisavolo a iniziare quella specie di commercio. Jacquotte. Quello che coltivava gli bastava appena, non c'era granché da vendere. L'unica vera risorsa erano le primizie. Con le annate buone ci pagava le sementi per la semina di primavera. Oltre che generoso, il suo podere godeva di una vista davvero unica. Che ai suoi avi niente aveva suggerito ma al vecchio Jacquotte aveva acceso la fiammella. Scorgeva a nord la parte alta del tratturo che scendeva dall'abbazia e a sud, la parte bassa del sentiero che attraversava la valle e portava al valico. Poteva quindi vedere chi scendeva dalla cima e chi saliva dalla valle molto prima che transitassero lì, dalle sue parti. Allora caricava il carretto e con la famiglia appresso correva a vendere i suoi prodotti. Col carretto vuoto e le tasche piene se ne tornavano. I monaci di lassù mica avevano bisogno del carretto dei Fournier. Ma dopo un inverno chiusi là dentro, vedere qualche faccia nuova e variare la dieta era pur sempre una buona maniera per festeggiare la primavera. Col tempo però, le cose erano cambiate. E se prima lo facevano anche per candeggiare l'anima ai Fournier, una necessità sopratutto per loro era adesso diventata. Erano pochi. Erano vecchi. E le scorte finivano prima dell'inverno. Se Jacquot tardava era quaresima lassù. Digiunavano i poveretti. Col saio nero e la chierica bianca. E per i Fournier col tempo, più che un negozio una festa era diventata. Ci tenevano a ben figurare. Partirono che ancora c'era la luna. La nebbia ovattava rumori e nascondeva i boschi. L'aria era profumata ma fredda. Il carretto era bello carico e per non stancare il mulo Jacquot con le briglie e Lucas con la torcia procedevano a piedi. Dopo un'ora di cammino, alle prime luci dell'alba Lucas aveva esaurito gli argomenti e Jacquot che di argomenti ne aveva pochi anche quando era brillo, procedeva in silenzio. Il passo era scandito dal mulo. Ma alla prima scivolata di Lucas che per poco non finì sotto le ruote del carretto, lui era sbiancato, il mulo si era fermato, e Jacquot era sbottato. «Cosa ti avevo detto. Bisogna starci attenti. E la salita vera neanche è cominciata.» «È stato solo un inciampo, babbo.» «Inciampo o scivolata che importa. Se ti rompi una gamba come ci torni a casa? Devo buttare il carico per metterti sul carretto.» «E se si fa male il mulo?» Lucas cercava di deviare l'ira del padre verso l'unico che ancora non aveva aperto bocca. Impegnato com'era a tirare il fiato. Oltre il carretto. «Il mulo sa dove mette i piedi.» Che poi erano zoccoli. «E ne ha ben quattro da badare.» Il nervosismo di Jacquot era un tantino esagerato, ma non campato per aria. Un passo dopo l'altro si era accorto che le condizioni del tratturo peggioravano. Ghiacciato e scivoloso. E salendo era peggio. Per buoni tratti, pure franato. Il carico era l'ultima delle sue preoccupazioni. Se succedeva qualcosa al ragazzo madame Fournier mai glielo avrebbe perdonato. Altro che scampagnata di primavera. Adesso non poteva più tornare indietro. Le primizie? c'era giusto il tempo di salire lassù, prima che diventassero pastone per le capre. «Mi raccomando, stiamo attenti che la strada è lunga e faticosa e più si va su, più i riflessi si fanno lenti. Che la stanchezza sale più in fretta dei nostri passi.» Non era successo niente in verità. L'unico a scivolare via per quel disgraziato inciampo era stato l'entusiasmo di Lucas. Che testa bassa e torcia in mano procedeva come fosse un funerale. Quello della tanto sospirata scampagnata di primavera. Camminarono senza più parlare per almeno un'ora. La paura di Jacquot era passata. L'entusiasmo di Lucas era tornato. E la torcia l'aveva spenta da un pezzo, per risparmiare la pece. Ma tra nubi nebbia boschi e quant'altro, i raggi del timido sole là sul tratturo ancora non erano arrivati. «Dopo quella curva facciamo una sosta.» Propose Jacquot che non era un ragazzino e i suoi polmoni mica pompavano come una volta. Si ritrovarono in una gola circondata da rocce e dirupi che oltre il sole persino l'aria le rubavano. Quasi un'insenatura. Tanto che là dentro sembrava di essere tornati indietro di due mesi. Inverno pieno. Il sole lì, ci entrava solo d'estate. Jacquot si era pentito della decisione, ma doveva solo tirare il fiato mica accamparsi. «Guarda babbo, cos'è che luccica laggiù?» Pareva una scintilla. Che si accendeva solo se la guardavi da una certa prospettiva. Infatti, «non vedo niente» rispose Jacquot. Lucas intanto era corso là per controllare e muovendo la terra si ritrovò per le mani un elmo. «Guarda cos'ho trovato.» Gridò al padre. «È un elmo delle guardie di Folco. Il Baglivo.» Confermò Jacquot dopo averlo ripulito. Ma Lucas. che era già uscito da quella gola gelata, stava in uno spiazzo dove il sole era riuscito a far filtrare qualche raggio e là, tra il verde, le gemme, i crotus, le viole i cardi le campanule e i tarassaco, spuntava una mano. Pareva un artiglio. Ammuffito dal tempo. Consunto dalle intemperie. Scorticato dai corvi. E tutt'intorno, sparsi un po' dappertutto: stracci, ruote, selle, spade elmi scudi e lembi mummificati. O quello che restava. Dopo che intemperie, lupi e predatori ne avevano fatto scempio. «Guarda questo anello.» «Dove l'hai preso?» Gli domandò Jacquot rigirandoselo fra le mai. «É roba da signori.» «Era là, vicino alla mano inguantata.» Neve. Neve. Neve. Ghiaccio e abbandono. Lassù in abbazia. Un inverno da incubo. Due monaci ahimè se n'erano andati. Morti sereni. «In tutta umiltà hanno vissuto. In tutta umiltà ci hanno lasciato.» Aveva commentato l'Abate nell'omelia. Nevicava, quando a distanza di un mese uno dall'altro li hanno sepolti. Scavare la fossa, un'impresa. E per forza di cose, veloce la cerimonia e giusto una sintesi l'omelia. Del resto, visto i picchi di gelo su quelle cime non è che all'interno fosse molto meglio. Solo il comignolo dell'Abate fumava. Gli altri, il caldo cercavano di procurarselo coprendosi e muovendosi molto. Il saio però era di un tessuto così grossolano che il gelo entrava alla grande e il tepore del corpo usciva così veloce che manco ti accorgevi di averlo comunque prodotto. Si andava di tisane calde, starnuti, tossi convulse e alitate sulle mani. Desolazione dentro. Squallore fuori. Prati incolti. Alberi da sfrondare. Muri da rabberciare. Tetti da riparare. Legna da ardere finita e provviste al lumicino. E a parte due muli e un paio di galline, stalle vuote e pollai deserti. Ruscelli ghiacciati. Candele sparite. I monaci ne avevano fatto incetta per scaldarsi nelle camerette. Le funzioni al buio le facevano. La neve del cuculo? una chimera lassù. E quando il primo monaco la vide scendere e sciogliersi sul selciato... «Sta arrivando.» Urlò con quanto fiato aveva in gola. Si riferiva infatti, alla primavera. La stavano aspettando come l'acqua il contadino che vede avvizzire le sue pianticelle appena spuntate da un terreno che più arido, c'era solo il deserto. La bella stagione la intuivano osservando la vallata laggiù, col bianco che svaniva a favore del rigoglioso verde. Ma lassù c'era ancora da aspettare. Col gelo che non mollava e il tratturo impraticabile nessuno si avventurava su per quei sentieri. E le provviste non arrivavano. Magri e scarniti, i bravi monaci pregavano e cantavano con un fervore da pelle d'oca. Ma se laggiù in valle nessuno li sentiva, lassù oltre le nuvole di un cielo che più terso di così non si poteva, impossibile ignorarli. E nei cortili al sole, la neve piano piano diventò fango. Chiuso là nel suo alloggio in foresteria, anche per l'Abate non era stato facile. Inverno che non dava tregua. Iniziato con un evento preparato nei minimi dettagli. Un processo per eresia. Con un giudice d'eccezione: il messo di Cluny. Un primo giorno d'inverno così memorabile da diventare epico. Finito come doveva finire. Con l'eretico impiccato e bruciato sul rogo. Celeste-Des-Fossés. L'amico d'infanzia che aveva preferito portarseli all'inferno i suoi peccati. L'angoscia più grande per l'Abate però non era il gelo, la mancanza viveri e quant'altro, ma il futuro. Suo e dall'abbazia. Che per lui erano la stessa cosa. Il mondo della chiesa stava cambiando. Ma in quello sperduto convento sulle cime del Giura, né vento né profumo era arrivato, di quel cambiamento. A Cluny invece, l'avevano sentito eccome. Il vento laggiù era già uragano. E le regole stavano cambiando. Le più semplici. Per quelle più complicate ci voleva altro che l'uragano. Per limitare il proliferare dei piccoli conventi, Cluny aveva deciso di declassare a fattoria o chiudere quelli che non raggiungevano il numero minimo di dodici monaci. Perciò l'Abate era preoccupato. Con la morte dei due confratelli il loro numero era sceso a dieci. La sua abbazia aveva i giorni contati. Chiusa prima dell'estate. E i monaci sistemati in altri conventi. Per loro niente cambiava. E di sicuro andavano a stare meglio. Gli bastava un Crocefisso per sentirsi a casa. Per lui, invece. Altro che Crocefisso. Addio potere. La prima cosa che perdeva. Lui che giusto l'anno prima, anche sull'intero casato Des-Fossés aveva esteso il suo potere. Fatto salvo però, il pesante debito contratto col Baglivo. Che neppure di un soldo aveva ridotto. Perciò aspettava con ansia la primavera. Per correre subito a rinegoziare il contratto. Gli altri monaci intanto, quando non erano in chiesa per le liturgie se ne stavano in biblioteca o in cucina a lavorare e discutere in compagnia. Le celle erano gelate. In cucina infatti, avevano accudito i due confratelli. Nonostante difficoltà e privazioni erano sereni. Ma quella specie di processo e il maledetto rogo li aveva basiti. E le prime timide uscite, anche sotto quella tormenta che laggiù in valle era solo nevischio primaverile e lì ti tagliava le orecchie, erano davvero salutari. Per lenire le angosce. Anche se qualche polmone non voleva smetterla di tossire. «Ti conviene ritirarti se no ti prendi un accidente proprio adesso che arriva la primavera.» Aveva commentato l'amanuense affacciato sul poggiolo, a picco sulla valle. «Meglio tossire davanti a questo panorama che sopravvivere là dentro.» Un bravo monaco, Alberico. Decano dei sopravvissuti. Asservito al potere dell'Abate. Per rispetto all'autorità più che per convenienza. «Laggiù è già arrivata. Qui dobbiamo pazientare ancora, prima di mollare i mutandoni.» La prima risata all'aperto. Cristallina, gioiosa, spontanea. Liberatoria. Pareva di sentirne l'eco. Il primo che aveva smesso di ridere era quello del gruppo che ci vedeva meglio. Aubert. Non il più giovane, l'amanuense. Che gli occhi se li era consumati sui tomi a trascrivere inni e preghiere al lume di candela. Come quello del Veni Creator Spiritus. Appena ultimato. «Lo vedete anche voi?» chiese Aubert indicando qualcosa tra il fondo valle e la costa. Gli altri, smisero di ridere. Eccetto Alberico. Il decano. Che essendo quasi sordo, non aveva sentito una parola. E quando si accorse che se ne stavano tutti zitti a scrutare la valle, «sta salendo qualcuno?» domandò. «Io non vedo niente.» La risposta più gettonata. Tutti in là con anni e diottrie. Perciò smisero di guardare la valle e fissarono Aubert. Il monaco che aveva lanciato l'allarme. «Laggiù» indicò un punto. «C'è qualcosa che si muove. Sembra un carretto.» La forza della fede. Anche se non vedi gioisci come un fanciullo dopo mesi di privazioni. Pane, acqua e stalattiti. Chi saltava e chi pregava. Chi gioiva e chi si limitava a tenere la bocca spalancata. Baci abbracci e pacche sulle spalle. Felici di condividere la propria gioia col resto dei sopravvissuti. Che farlo in gruppo è meglio. «Neanche sappiamo chi sta arrivando.» Brontolò tra un salto e l'altro il decano. Ma nessuno lo stava più a sentire. Il sole era già al tramonto e l'aria si era raffreddata. Il decano aveva ripreso a tossire e lassù nella foresteria, la sagoma scura dell'Abate aveva chiuso gli scuri. «Tu che fai, non vieni?» Aubert era già quasi dentro quando girandosi per l'ultima occhiata si accorse che l'amanuense era ancora là, a osservare la valle. «Penso a quelli laggiù che stanno salendo.» «Si vede a malapena un carretto. Magari neanche ci devono salire quassù.» «C'è solo una maniera per sincerarsene. Prepariamo i muli e andiamogli incontro.» Suggerì l'amanuense. «Con questo tempo?» Ma quando decisero che al diavolo i dubbi si poteva fare, si sparpagliarono per l'abbazia. Chi a preparare uno scarno sacco dei viveri. Chi muli e fiaccole. E chi a prendere guanti e coperte di lana. Alberico gli procurò una fiasca. «Mica devo andare al polo.» Brontolò l'amanuense quando se li rivide davanti. «Vengo con te.» Gli disse Aubert, che per coprirsi si era procurato un cencio. «So badare a me stesso. E serve un mulo libero. Tu sei più utile qui.» «E se l'Abate non ti vede ai Salmi del Mattutino?» Domandò Alberico. «Già lo sa che non ci sarò.» Rispose indicando la finestrella della foresteria. L'attimo che la sagoma si scostò. Due muli, uno dietro l'altro, legati tra loro. Sul primo c'era l'amanuense infagottato, con la fiaccola. Sull'altro, lo striminzito sacco delle provviste e la fiaschetta di Alberico. «Questa resuscita i morti.» Gli assicurò il decano. Fissandola al somarello. Campane a martello, fiaccole ardenti. Sembrava Pasqua in anticipo. Segnale importante per i pellegrini che stavano salendo.
Jacquot era preoccupato. Lucas sfinito. Passo dopo passo la scampagnata si stava trasformando in una Via Crucis. Subito dopo lo spiazzo dei cadaveri mummificati il tratturo era franato. Imprevisto fatale per quei poveretti, morti da chissà quanto. Per chi saliva era quasi l'inizio. Jacquot e Lucas infatti, l'avevano incrociato alle prime luci dell'alba. Perciò si erano salvati. Per i poveretti che scendevano invece. Era già buio e di sicuro erano stanchi. Ne avevano fatta di strada. La discesa non è faticosa come la salita, ma più pericolosa. Le bestie scivolano e devi tenerle a freno con le briglie. La fretta, il buio, il terreno ghiacciato, sotto una bufera di neve è un attimo e scivoli giù. I segni erano fin troppo evidenti. Tutt'intorno là sotto era un cimitero di rottami e stracci sparsi in ogni dove. Una ruota di qua, un pezzo di pianale di là. «Gli è mancata la terra sotto i piedi.» Commentò Jacquot, levandosi quella specie di straccio che teneva in testa a mo' di chaperon. «Sono morti tutti.» Lucas aveva i brividi. «Qualcuno subito, laggiù. Schiacciato dal carro, dai cavalli, per le ferite o il freddo. Quelli che l'hanno scampata sono riusciti a trascinarsi chi fino allo spiazzo e chi dentro la gola che abbiamo appena attraversato e lì» silenzio, «il gelo, il buio e i lupi hanno fatto il resto.» «Il buio?» «In una notte disgraziata come quella, dopo una scivolata che massacra le ossa come questa,» indicò la spianata piena di reliquie di quei disgraziati, Jacquot, «non vedi dove metti i piedi e là è tutto uno spuntare di rocce che se ci scivoli su, la pelle te la fanno a fette. Il botto, le urla e il sangue. Questo pezzo di mondo è stato peggio dell'inferno per quei poveretti. Ma chi li poteva sentire, se non le bestie della foresta? Che quando fiutano il sangue arrivano da tutte le parti. E non hai scampo.» Lucas era di sasso. Jacquot, pensoso. «Si dovrebbe dargli sepoltura a questi miseri resti» disse, «ma con tutta la strada che dobbiamo fare rischiamo di non averne abbastanza per arrivarci. Meglio che ci sbrighiamo.» Concluse dopo una breve preghiera. Lo diremo a quelli di lassù. Poi andremo al casato per avvertire il Baglivo.» Lavorarono parecchio per scavalcare il tratturo franato. Scaricarono il carro e trasportarono i sacchi di là della frana, per poi ricaricarli e ripartire. Trovarono altri piccoli crolli su per il sentiero e ogni volta, la stessa faticosa procedura. Se ne andarono via così, forze, tempo e morale. Il tratturo adesso era integro, ma le energie al lumicino. Come il sole. Che stava già per sparire dietro la cima. Jacquot era preoccupato. Lucas, sfinito. «Fermiamoci babbo.» «Ancora uno sforzo e siamo arrivati. La vedi?» Indicava l'abbazia. «È da un pezzo che la vedo. Sembra di non arrivarci mai là in cima.» Jacquot non sapeva che fare. Fosse stato da solo non aveva dubbi. Continuare. Accamparsi c'era il rischio dei lupi. Doveva dormire con un occhio solo e le torce accese. E sfinito com'era, difficile non cedere al sonno. Ma Lucas era allo stremo. Se gli capitava qualcosa, Colette non l'avrebbe mai perdonato. Guardò ancora una volta lassù per valutare il tempo e: «meno di tre ore» commentò a voce alta perché Lucas capisse. «Pensi di farcela?» Lucas alzò lo sguardo per cercare di farsi coraggio e «guarda babbo» gridò. «Cosa sono quelle luci?» «Sono torce.» Urlò Jacquot che non credeva ai suoi occhi. «Ci hanno visto.» Era commosso più che felice. Poi, sentirono le campane. Certe sventagliate in giro per la conca. Il suono andava e veniva. A seconda di come soffiava il vento. C'era eccitazione nell'aria. La fatica era sparita. L'entusiasmo era tornato. Pure il mulo aveva preso vigore. L'ultima ruota del carro. Portava su tutto senza una piega. Mentre la valle là sotto già sprofondava nel buio della notte. Meno di un'ora durò la felicità. Il tempo di incontrare l'amanuense che gli veniva incontro coi muli e diventò apoteosi. Veloci i convenevoli. Ad attenderli lassù all'abbazia c'erano tutti. Monaci in assetto benedicente. Mancava solo l'Abate. Che però aveva acceso la lucina e aperto gli scuri in foresteria. La grande sbornia di fatica. L'orrore dei poveri resti, la paura di non farcela e la felicità dei rinforzi inaspettati. Che giornata. Lucas si era accasciato. Jacquot era catatonico. Non si muoveva più e non spiccicava parola. Sorrideva soltanto. Un sorriso spento. Senza spessore, calore e senso. «Questi due sono più di là che di qua.» Commentò Alberico. Che data l'ora e l'età, non era né di qua né di là. Ma reagì alla grande. «Diamogli qualche goccia di elisir.» Suggerì, ficcandogliela in gola al povero Jacquot. Paura, gioia, incredulità, fatica. Sulle facce stravolte di padre e figlio c'era di tutto. «Dev'essere successo qualcosa di grave. Questa è gente che non si getta allo sbaraglio sperando nella sorte.» Li conoscevano bene lassù, i Fournier. E all'imrovviso... «Le primizie. Le primizie.» Delirò nel suo strampalato dormiveglia, Jacquot. Scuotendo il braccio di Alberico. Che: «l'elisir sta facendo effetto» commentò con un sorriso contagioso. Ma qualche istante dopo, «dobbiamo dargli dignitosa sepoltura,» delirò Jacquot, brandendo ancora il braccio del povero Alberico. Che: «spero non si riferisca a noi» borbottò perplesso. «Di certo non sta parlando delle primizie.» Gli rispose Aubert. Jacquot intanto si era messo a sedere e si guardava in giro con l'aria di chi si meraviglia di esser tornato dalla parte dei vivi. Ma appena l'occhio si posò su Lucas per poco non gli prese un colpo. «Dorme.» Gli disse subito l'amanuense. Cercando di scuoterlo dal dormiveglia che l'accendeva e spegneva come una candela nella tempesta. Era un contadino umile e rispettoso e si vergognava di starsene lì su un giaciglio circondato dai monaci, come una comare dopo una notte di bagordi. «Dovete scusarmi reverendissimi monaci.» Esordì timido. Cercando di darsi un contegno solenne. «È stato un viaggio terribile. Ho davvero temuto il peggio. Se non era per il vostro aiuto, l'incitamento delle campane e tutto il resto, mi sarei arreso. Dio mi perdoni.» Aveva i lacrimoni. Quelli si, contagiosi. Visto che pure i monaci si erano emozionati. Un omone così, scolpito nella roccia. Pareva un ragazzino dopo una marachella. Che «presto, prendete le primizie che ho portato» urlò. «Altrimenti si guastano.» Un chiodo fisso. Non voleva fare brutte figure. E vedere tutto il suo lavoro finire alla malora. Ci doveva barattare semina e unguenti per tutto l'anno. Con le sue primizie. «Non ti preoccupare.» Gli rispose il decano. «Sono davvero speciali. Domani le cuciniamo.» «A chi ti riferivi quando parlavi di dargli degna sepoltura?» Si girarono tutti. Anche Jacquot. Che sbiancò come un lenzuolo per l'imbarazzo. E la paura. Col saio nero e cappuccio calato fin sugli occhi, pareva uno spettro. Là nella penombra tremula, dei ceri accesi. Nessuno l'aveva visto arrivare. Se n'era stato nell'ombra per tutto quel tempo come suo solito, l'Abate. Prima di dare voce all'unico suo dubbio. La sua comparsa aveva ammutolito tutti. La domanda poi, aveva fatto il resto. Intenti ai due ospiti, i monaci non avevano prestato attenzione all'accenno della degna sepoltura. Ma per cogliere un accenno così breve in quel contesto, c'era da dubitare che l'Abate conoscesse già anche gli antefatti. Più che la domanda in sé, il modo li aveva sconcertati. Perché il tono dell'Abate sempre quello era. Angelo giustiziere. Neanche ci facevano più caso. E visto che tutti lo guardavano ma nessuno faceva cenno «sto parlando con te» ribadì l'Abate, puntando il dito sul povero Jacquot. E con un dito così a due passi dal naso Jacquot si sentì già condannato. «Io non ho fatto niente.» Balbettò. «È sfinito, lasciamolo riposare.» L'amanuense si era messo in mezzo. D'istinto. I monaci indietreggiarono di qualche passo. Immobile, con lo sguardo severo di circostanza, l'Abate attese che l'amanuense si scansasse. E ripreso colore, Jacquot cominciò raccontare. «Il tratturo è franato in più punti. Laggiù verso il fondo s'è aperta addirittura una voragine. Il sentiero è scivolato di sotto formando un poggio di pietre e fango.» Da come l'aveva detto, pareva ancora là a rimirare lo scempio. «Successo cosa?» L'Abate si era avvicinato. «La tragedia.» Disse chinando il capo. «Sono tutti morti. Devono essere lì dalle prime bufere d'inverno. Quel poco che rimane è sparso tutt'intorno. Dal poggio fin dentro la gola che c'è più avanti.» Silenzio. I monaci si guardarono confusi. E per cercare di fermare l'improvviso tremore delle mani, l'Abate fu costretto a nasconderle nelle larghe tese del saio. Ma anche così si capiva che stava tremando. «Hai riconosciuto qualcosa che possa aiutarci a capire?» L'amanuense. L'unico con un minimo di lucidità. «È tutto a pezzi. Uno scampolo di pianale e una ruota. Probabilmente un carro. Un elmo. Di quelli che usano le guardie di Folco il Baglivo.» E qui si fermò. I monaci si erano agitati. Per quanto si sforzasse, l'Abate non riusciva più a nascondere il suo tremore. L'amanuense era sbiancato. «Ho trovato questo.» Concluse Jacquot, allungando un anello. «La chiave e la spada.» Commentò Aubert. Ben conoscendo il significato. Simboli di Pietro e Paolo. I due santi a cui era consacrata Cluny. «L'emissario di Cluny.» Sussurrò l'Abate. Ormai preda dei suoi tremori. «Col Baglivo e tutti gli altri.» Aggiunse l'amanuense. «I testimoni del rogo.» Concluse secco. Fissando l'Abate. «Non sono i soli.» Replicò il decano. «C'eravamo tutti.» «Cosa vuoi dire?» Minacciò l'Abate. «Un rogo? Il Baglivo?» Jacquot era sconvolto. «Quando? Dove?» Si era dimenticato le pene dell'arrampicata. L'enormità di ciò che stava emergendo aveva stravolto tutto |
Votazione per
|
|
WriterGoldOfficina
|
|
Biblioteca

|
Acquista

|
Preferenze
|
Recensione
|
Contatto
|
|
|
|
|