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Writer Officina Blog
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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La stanza nella mente
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La madre di Alessio - Terzo incontro Era una domenica pomeriggio grigia, una di quelle in cui il cielo sembra voler restare a mezz'altezza, come una coperta troppo pesante da sollevare. La porta si aprì piano, senza fretta, e la voce della madre di Alessio arrivò come un soffio tra le stanze. «Permesso?» Alessio le sorrise e annuì, senza bisogno di parole. Era già in cucina, con la moka che borbottava sul fuoco e due tazze spaiate pronte sul tavolo. Avevano una strana complicità fatta di silenzi e sguardi, maturata negli anni, attraverso i dolori e i piccoli ritorni. Lei entrò e si sedette, appoggiando la borsa sul pavimento come se volesse poggiare anche i pensieri. «Ho preso un treno senza pensare troppo. Ogni tanto mi fa bene scappare da casa mia, e venire da te... mi fa sentire utile.» Alessio la servì con un cenno. Lei prese la tazza, la guardò un attimo prima di bere. Il caffè aveva un sapore più dolce, o forse era solo la compagnia. «Ti ricordi» cominciò lei con voce morbida, «quando avevi quattordici anni, e prendevi quattro in matematica un mese sì e l'altro pure?» Alessio rise, piano. «Me lo ricordo eccome.» «Quanti pianti ho fatto» disse lei, con un sorriso che non nascondeva la nostalgia. «Ti chiudevi in camera, con la musica a palla. Litigavamo per ogni cosa. Dicevi che la scuola non serviva a niente, che tanto tu volevi “capire la vita”.» «Un po' di ragione ce l'avevo.» Mormorò lui. Lei scosse la testa, dolcemente. «Forse sì. Ma io avevo paura. Temevo che ti perdessi, che non trovassi la tua strada. Ero sola, tuo padre era sempre fuori, e io non sapevo come aiutarti. Poi c'erano i tuoi silenzi. Quel modo che avevi di startene zitto anche quando stavi male. Non chiedevi mai aiuto.» «Non lo sapevo fare.» «Nemmeno io» confessò lei. «E così passavamo giornate a evitarci, quando invece avevamo solo bisogno di abbracciarci.» Fuori, le foglie si muovevano appena, lente come se anche loro stessero ricordando qualcosa. La madre di Alessio si alzò, prese una foto dal frigorifero. Era sbiadita: lui e lei al mare, Alessio bambino, una paletta in mano, il secchiello rovesciato. Ridevano. Sullo sfondo, il cielo azzurro senza nuvole. «Eravamo felici. Ti svegliavi alle sette, mi tiravi dal letto dicendo “mamma, è ora di andare al mare!”. Passavamo ore a cercare le conchiglie. E poi, la sera, ti addormentavi con la sabbia ancora sotto i piedi.» Rimase un momento in silenzio, la foto tra le dita. «Mi manca quella felicità semplice. Senza domande. Senza pretese.» Alessio le si avvicinò, lentamente. «Ci manca a tutti.» Lei si sedette di nuovo, stavolta con un peso diverso sulle spalle. Ma nei suoi occhi c'era una luce nuova. Una fiammella stanca, ma viva. «Lo sai, sto cercando di tornare a essere felice» disse. «Non è facile, non a questa età. Ti svegli e senti che il tempo è passato. Che le cose che sognavi non ci sono più. Le telefonate si diradano, gli amici si ammalano, tuo figlio vive lontano, e tu... tu resti con i ricordi. Ma i ricordi, per quanto dolci, non bastano.» Alessio ascoltava, senza interrompere. «Ho ricominciato a cucire. Ho comprato della stoffa, delle forbici nuove. Ho persino ordinato dei cartamodelli su internet. Mi sento un po' ridicola, come una ragazzina che vuole fare la stilista. Ma quando tengo ago e filo in mano, mi sembra di rimettere insieme i pezzi di me.» Alessio le prese la mano, la strinse. «Non è ridicolo. È bellissimo.» Lei sorrise, con gli occhi lucidi. «E poi penso a te. A questa casa. A tutto quello che sei riuscito a creare, nonostante tutto. Ogni tanto ho paura di essere stata una madre a metà. Ma poi vedo l'uomo che sei, e penso che qualcosa di buono, almeno, l'abbia fatto.» Si abbracciarono. Lungo. Silenzioso. Di quelli che servono per non crollare. Quando si staccarono, lei si passò le dita sugli occhi, con quel gesto goffo che solo le madri sanno fare. «E tu? Sei felice, Ale?» Lui ci pensò un attimo. «A volte. Altre no. Ma sto imparando. Ad accettare. A guardare le cose belle anche se sono piccole. A sentire la malinconia senza lasciarmi schiacciare.» Lei annuì. Poi si alzò e si mise a trafficare tra i fornelli. «Ti cucino qualcosa, va bene? Come quando arrivavi da scuola arrabbiato e io ti preparavo la pasta con il burro e il parmigiano.» «Quella era la mia preferita.» «Lo so» disse lei, mentre metteva l'acqua sul fuoco. «Anche questo, lo ricordo.» E in quella cucina piena di assenze, c'era ancora spazio per ricominciare. Anche solo per un piatto di pasta semplice. Anche solo per una domenica grigia da tenere stretta, come un vecchio album di fotografie. Ombre lente Ci sono momenti in cui il silenzio pesa più delle parole, in cui anche la luce del sole sembra filtrare con cautela, come se temesse di disturbare i pensieri di chi la riceve. È in quei momenti, spesso solitari e lenti, che le paure inconsce delle persone iniziano a salire in superficie come bolle d'aria da un fondale troppo profondo per essere visto a occhio nudo. Alessio, seduto sul divano con una tazza di tè tra le mani, osservava la strada dalla finestra. Una madre spingeva un passeggino, un uomo anziano camminava con passo esitante. La vita si muoveva, ma sembrava farlo a velocità diverse per ognuno. Lui osservava e pensava, come spesso gli succedeva la sera, quando le voci dei suoi amici ormai erano diventate ricordi recenti e la casa tornava a essere silenziosa. C'era qualcosa che accomunava tutti quelli che venivano a trovarlo. Giulia con i suoi desideri in bilico tra dolcezza e tormento, Riccardo con la rabbia smorzata da anni di disillusione, Elena con i suoi abissi silenziosi, Samuele con la sua fame di rinascita e fuga. Anche sua madre, con quella malinconia che non sapeva dove mettere. Tutti, in fondo, portavano dentro paure che raramente dicevano ad alta voce. Erano paure inconsce, difficili da nominare. Non il terrore di un incidente o di un ladro in casa, ma qualcosa di più sottile, di più strisciante. Era la paura di essere dimenticati. La paura che il proprio dolore non interessasse a nessuno. La paura che la propria vita non fosse abbastanza. La paura di invecchiare. Non si parla mai abbastanza di cosa significhi invecchiare. Non solo nel corpo — quello lo si accetta a fatica, lo si combatte con creme, palestre, interventi — ma nell'anima. Il tempo si insinua prima nelle piccole cose: si smette di riconoscere i cantanti in radio, si fatica a comprendere il meme, si sbuffa davanti ai nuovi linguaggi, alle nuove mode, come se la propria epoca fosse stata l'ultima sensata. Ma sotto quell'ironia c'è un senso più profondo: il mondo comincia a non parlarti più. Poi arrivano le frustrazioni. Si guardano le vite degli altri, sui social, nei racconti a cena, e ci si domanda: “E io? Ho fatto abbastanza? Ho scelto bene? Ho perso tempo?”. Si rimpiangono le strade non percorse, gli amori lasciati andare, i sogni messi da parte “perché non era il momento”. C'è chi cerca di colmare il vuoto con la produttività. Lavorare, fare, costruire. Come se ogni ora piena fosse una barriera contro il panico dell'inutilità. Ma anche l'iperattività, spesso, è solo un'altra faccia della paura. La paura che fermandosi si debba fare i conti con sé stessi. Altri si rifugiano nei ricordi. Nelle foto, nei luoghi del passato, nelle canzoni che facevano da colonna sonora a un'estate che ormai non torna più. Ma anche la nostalgia può essere una trappola. Può diventare il modo più elegante per non affrontare il presente. E poi c'è la solitudine. Non quella fisica, ma quella più profonda: la sensazione di essere diventati invisibili. Di essere in una stanza piena di gente ma sentirsi come se si fosse dietro un vetro. Di parlare e avere l'impressione che le parole cadano a terra, senza eco. È la paura che si prova quando si sente che il proprio tempo “centrale” è finito, che si è passati da protagonisti a comparse nella propria vita. In fondo, tutti hanno dentro un adolescente spaventato che si domanda: “Sarò abbastanza? Mi vorranno bene per davvero? Cambierà qualcosa se un giorno non ci sarò più?”. Alessio ripensava a quando aveva vent'anni. Si sentiva immortale. Il futuro era un continente da esplorare, pieno di promesse e di strade infinite. Pensava che ci sarebbe stato sempre tempo. Per dire, per fare, per cambiare. Ma poi il tempo comincia a correre. E non corre in linea retta. Corre a strappi. Salta anni. Si sveglia a quarant'anni con la sensazione di averne ancora trenta, ma con il corpo che ne sente cinquanta. “E se non diventassi mai quello che pensavo?” è una domanda che molti si fanno, tardi, quando ormai non ci si può più illudere di essere all'inizio. Ma non è solo la paura del tempo che passa. È anche la paura del non saperlo abitare. Di non sapere come essere felici, sereni, vivi in un tempo che cambia troppo velocemente, in una società che chiede sempre di più e dà sempre meno. Alessio sapeva che ogni persona che varcava la sua porta portava con sé questi fantasmi. Nessuno li diceva subito. Ma bastava un bicchiere di vino, una pausa tra due racconti, un silenzio più lungo del solito, e quei fantasmi si facevano sentire. Ma c'era anche una forza, in tutto questo. Un desiderio di riscatto. Di verità. Di intimità reale. Di amore. C'era chi, come Giulia, voleva tornare a sentire il cuore battere davvero. Chi, come Riccardo, continuava a combattere per un'idea giusta, anche con rabbia. Chi, come Elena, lottava ogni giorno contro il buio con una forza che nemmeno lei sapeva di avere. E Alessio, testimone silenzioso di questi frammenti d'anima, capiva che forse, nella condivisione di queste paure, c'era già una forma di guarigione. Nessuno era davvero solo, se trovava qualcuno disposto ad ascoltare. Fuori, il cielo iniziava a scurirsi. La strada si svuotava. La madre con il passeggino era sparita dietro l'angolo. L'uomo anziano si era seduto su una panchina, immobile, come un punto fermo in mezzo al tempo che passava. Alessio rimase a guardare, in silenzio. Le paure non sparivano. Ma, a volte, bastava riconoscerle. Dar loro un nome. Condividerle. E allora, anche in mezzo all'inquietudine, si apriva uno spiraglio. Un piccolo varco verso la pace. |
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