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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Mindaugas Deutheronomius
Titolo: Vendetta di sangue
Genere Thriller Politico
Lettori 442 1 1
Vendetta di sangue
La minaccia
Eolo spettinava dispettoso le chiome degli alberi.
Nubi plumbee oscuravano l'alba mentre le prime foglie rossicce turbinavano nell'aria, ambasciatrici di un autunno freddo e umido.
Alle 7.00 l'austera città di Buino dormiva ancora sonni beati, ignara del clamoroso scandalo che pochi giorni dopo avrebbe scosso i suoi ambienti più in vista. Un personaggio eccellente, morto in circostanze misteriose nella propria villa, avrebbe alimentato a lungo pruriginose illazioni. Indossava soltanto una vestaglia di seta mal chiusa, aveva gli occhi sbarrati e il rapporto sessuale improprio appena consumato avrebbe dato adito ai sospetti più morbosi. Peraltro avvalorati da un secondo decesso, accaduto cinque giorni dopo nella rinomata località balneare di Santa Pagaia Marina con modalità tanto scabrose da far galoppare a briglie sciolte la fantasia perversa di chi si domandava se le due morti fossero correlate. E per quale ragione.
Speranza indugiava nel letto, avvolta nella calda pigrizia del sabato mattina. Suo marito, l'ingegner Massimo Rivolta, invece, era già in piedi da un pezzo. La sua azienda di frigoriferi per gelati stava affrontando la stagione degli ordini e lui doveva moltiplicare gli sforzi, consapevole di combattere sul mercato internazionale con armi spuntate. Ciò gli toglieva il sonno. «Ma perché chi si ostina a limitare la libertà di impresa non comprende la diretta proporzionalità tra la sua prosperità e quella dell'intera comunità?» si domandava. La risposta purtroppo la conosceva e non gli piaceva affatto.
Consumata una frugale colazione, stava per abbandonare la confortevole dimora ancora fragrante di caffè quando una busta bianca sul pavimento catturò la sua attenzione. Era stata fatta scivolare di notte sotto la porta di ingresso. Incuriosito la raccolse, la aprì e lesse il foglio al suo interno. Una sola frase, scritta da un delinquente qualsiasi con ritagli di un giornale qualsiasi: “Attenzione a ciò che fai o presto morirai!” Con poca fiducia di sorprenderne il latore si precipitò sul pianerottolo, sconsolatamente deserto.
Già in passato aveva ricevuto messaggi intimidatori, per fortuna privi di conseguenze, e ormai non ci faceva più caso. Ma questa volta la minaccia ebbe sul suo umore un effetto devastante, complici le deprimenti previsioni di vendita riassunte nel prospetto consegnatogli dal direttore commerciale Gianpiazzista Sconti la sera precedente. «Con costi operativi più bassi, una ridotta pressione fiscale e meno vincoli burocratici, ovvero se si lasciassero le aziende libere di realizzare ciò per cui vengono create, forse avrebbe ancora un senso fare l'imprenditore in Italia. Ma così no!» rimuginava salendo in auto per recarsi in ufficio. «Se le imprese devono ridursi a 'postifici' ostaggio di organizzazioni anacronistiche e di politici nemici del libero mercato, un senso non ce l'ha più!» Amareggiato, avviò il motore ed emerse dal box sotterraneo.
Percorrendo strade ancora deserte considerava come pochissime persone fossero ancora disposte a sacrificarsi per migliorare la propria condizione. Poi quasi le giustificò «Che senso ha continuare a impegnarsi in un Paese dove, per miopia politica o interessata subalternità a esigenze straniere, si possono importare manufatti esotici pagando dazi ridicoli in totale assenza di reciprocità? È una vergogna! Perché si permette a quei prodotti, non sempre sicuri, di fare concorrenza sleale ai nostri?»
Quindi tornò a pensare all'avvertimento ricevuto poco prima, “Attenzione a ciò che fai o presto morirai!” Discesa la collina svoltò a destra, costeggiando il fiume. «Perché qualcuno mi odia così?» si arrovellava. «Cosa avrò mai fatto di male per meritare una simile punizione? Mi si vuole eliminare perché sto valutando di delocalizzare l'azienda per farla sopravvivere? Il progetto è ancora segreto, chiuso a chiave in un cassetto della mia scrivania di casa. Ma se ne avessi inavvertitamente parlato con qualcuno?» dubitò grattandosi la testa.
Attraversò piazza Francesco Castelli dove alcuni scalmanati stavano organizzando una manifestazione. Sbraitavano slogan demenziali sventolando bandiere con simboli diversi ma di un solo e unico colore: il rosso. Ormai ogni sabato era flagellato da violente dimostrazioni che terrorizzavano i cittadini impedendo loro di fare acquisti e ai negozianti di giovarsi del giorno di maggior profitto. «Di lavorare nel fine settimana non se ne parla ma per dar fastidio alla gente quei provocatori non esitano ad alzarsi all'alba» osservò sconsolato.
E poiché temeva che scioperi selvaggi venissero indetti nel momento per lui meno opportuno si interrogava «Chissà perché quegli scriteriati, anziché combattere i veri responsabili del proprio impoverimento, se la prendono con chi compie ogni giorno veri e propri miracoli per assicurare loro uno stipendio?» Riflettendo poi sul motivo per il quale non si ribellino alla politica e al sindacato che li soffoca, impedendo loro di crescere, dedusse «Ma certo! È più comodo prendersela con noi imprenditori, magari trascinandoci al fallimento pur di garantirsi quel reddito che spesso nemmeno meritano. Pensano forse che dovremmo vergognarci di produrre ricchezza e spogliarci di ogni avere per curare le loro frustrazioni? Che pessima terapia! Buona soltanto a lenire la coscienza di chi ha tutto l'interesse a diffondere il contagio».
Raggiunta la fabbrica, aprì il cancello col telecomando e parcheggiò nello spazio riservato al presidente. Non c'era nessuno, nemmeno i suoi collaboratori più stretti, malgrado il momento delicato richiedesse il massimo impegno da parte di tutti. Ma la loro assenza quel giorno non lo ferì: aveva ben altro per la testa. Se in circostanze normali ne sarebbe stato irritato, quel sabato mattina era contento di essere lì da solo perché la frase minatoria servitagli dopo colazione impediva alla sua mente di concentrarsi su qualsiasi altra cosa.
Alle 13.00, senza aver combinato nulla, decise di tornare a casa.

L'Associazione
Pranzò di malavoglia, trascurando la povera Speranza e le sue sacrosante esigenze di attenzione: aveva troppa paura di tradirsi e di spaventarla.
Trascorse l'intero pomeriggio lavorando al progetto di delocalizzazione ma la mente tornava sempre a quella maledetta frase, “Attenzione a ciò che fai o presto morirai!”
Incapace di produrre alcunché, verso le 17.00 ricordò alla moglie l'importante appuntamento di quella sera e iniziò a prepararsi. Sotto al doppiopetto antracite in tasmania indossò una camicia bianca di cotone egiziano, abbinata a una cravatta di seta blu con disegni di accessori equestri. Fermò i polsini, doppi, con raffinati gemelli in oro bianco, sostenne i pantaloni con una cintura in coccodrillo lucido dalla fibbia a forma di ‘acca', calzò delle William nere e selezionò dal guardaroba un soprabito color fumo di Londra, del peso adatto a quel ventoso inizio di autunno. Ma soprattutto fece attenzione a non dimenticare il cartoncino di invito, riponendolo nella tasca interna della giacca accanto alla prestigiosa penna stilografica dalla marca evocatrice di innevate vette alpine.
Verso le 18.00 era pronto per uscire. Lo era anche la consorte, che per l'occasione sfoggiava un mantello color panna, molto chic, sopra un tailleur nero in leggera lana bouclé. Una spilla art dèco di pregevole fattura si abbinava perfettamente al prezioso fermaglio della collana a tre giri di perle Akoya. Decolletées nere dalla suola rossa e borsetta di uguale marchio e colore completavano l'abbigliamento. Erano proprio una bella coppia! Lui alto, bruno e longilineo, dallo sguardo volitivo, si completava a meraviglia con lei, bionda, triste e malinconica, affascinante e dal raffinato gusto estetico certificato da una laurea in architettura ottenuta con la lode.
Insieme si avviarono all'automobile che rapida aggredì la rampa del garage balzando sulla strada. Uno sbiadito tramonto rifletteva il malinconico decadimento della città. Lunghe code di veicoli, in fila come disciplinate formichine, riportavano a casa i sopravvissuti all'ennesima giornata di battaglia senza vinti né vincitori.
Giunti a destinazione, Massimo consegnò le chiavi al posteggiatore e precedette Speranza attraverso le porte girevoli del rinomato hotel, sede dell'evento al quale per nulla al mondo sarebbero mancati: l'assemblea elettiva dell'Alleanza Regionale degli Imprenditori, sezione di Buino. Il prestigioso consesso si tiene ogni cinque anni con lo scopo di votare il presidente che governerà l'associazione per il lustro a venire.
Tradizionalmente ci si riunisce il primo sabato di ottobre e l'ingegner Rivolta quella volta si era candidato alla presidenza: la sua presenza era necessaria per orientare quanti più consensi possibile a suo favore. Al fine di stimolare una partecipazione numerosa si era scelto un indirizzo alla moda e a conclusione dei lavori sarebbe stato offerto un ricco buffet. L'ordine del giorno prevedeva un breve riassunto del presidente uscente sull'attività del sodalizio e un suo dettagliato commento sui risultati conseguiti nell'ultimo quinquennio, arricchito dalle sue valutazioni sulla congiuntura economica prevista nel medio-termine. Poi si sarebbe lasciato spazio agli interventi, seguiti da ampio dibattito. Così, almeno, recitava il programma riportato sull'invito spedito ai soci dalla segreteria.
A questo punto occorre fare un passo indietro per capire i meccanismi che regolavano la vita dell'Alleanza Regionale degli Imprenditori. Mai come quell'anno la rielezione del presidente uscente era a rischio: un numero sempre maggiore di iscritti non condivideva più la sua maniera clientelare di gestire l'associazione. né tantomeno sopportava la sua interpretazione politica dell'industria, basata sull'ottenimento di favori e di contributi pubblici. Il suo concorrente più accreditato, Massimo Rivolta, rivendicava invece la necessità di riscoprire l'autentico spirito imprenditoriale e la sua proposta sembrava riscuotere numerosi consensi. Per favorire il cambiamento e presentare con più efficacia il suo programma aveva costituito un gruppo di araldi che lui amava definire il Club del Riscatto.
Bisognava però eleggere un nuovo presidente e lui non si era tirato indietro, dapprima candidandosi e poi prodigandosi affinché il maggior numero possibile di consoci scrivesse il suo nome sulla scheda elettorale.

Le prime ipotesi
Che tra l'ingegner Rivolta e il presidente in carica non corresse buon sangue lo sapevano tutti.
Se però Massimo non voleva credere che quella vecchia canaglia fosse arrivata al punto di minacciarlo di morte, non poteva nemmeno ignorare di aver ricevuto l'intimidazione proprio la mattina delle elezioni. Che coincidenza! E poi l'avvertimento era stato consegnato a mano, dunque l'autore doveva per forza avere familiarità con l'area sorvegliata dove sorge la sua palazzina, per saper evitare le telecamere di sorveglianza. E pure doveva essere al corrente degli orari di pattugliamento della ronda interna, per scongiurare il rischio di essere intercettato. La minaccia proveniva quindi da una persona che lo conosceva bene, che lo odiava a morte e che aveva tutto l'interesse a spaventarlo. Il perfetto identikit del vecchio presidente, timoroso di essere sconfitto da un progetto rivoluzionario tanto entusiasmante sotto l'aspetto imprenditoriale quanto inviso agli amanti dei privilegi.
Il custode, interrogato in proposito, confessò candidamente che le telecamere erano da tempo fuori uso e che l'amministratore ne era al corrente. Quella notte non si era accorto di nulla ma di certo lui non era il guardiano notturno, né avrebbe potuto esserlo e restare poi vigile tutto il giorno seguente. Non era nemmeno un investigatore né un agente della sicurezza per cui alla fine tagliò corto gelido «Se desidera approfondire la questione, non chieda a me ma si rivolga alla polizia» mettendo così a repentaglio la pazienza di Massimo e le sue laute mance natalizie.
Il presidente uscente non era però l'unico sospettato. Massimo passò mentalmente in rassegna tutte le persone a lui vicine, compresi i suoi più stretti collaboratori che sanno bene dove abita. In azienda le cose non andavano poi così bene: lui si sforzava in ogni modo di ottimizzare il risultato economico ma c'era sempre qualcuno che lo incolpava dei propri insuccessi professionali o delle proprie disgrazie esistenziali. «I perdenti sono bravissimi ad addurre buone scuse mentre i vincenti trovano sempre ottime soluzioni» amava ripetere. E tra i suoi dirigenti i vincenti purtroppo latitavano. Prendiamo Gianpiazzista Sconti, il direttore commerciale. Era convinto di non poter raggiungere gli obiettivi di vendita perché i prezzi imposti dal titolare erano troppo alti, scaricando su di lui le inefficienze sue e dei suoi venditori. E Giovanenrico Muletti, il direttore di stabilimento? Costui imputava gli scarsi livelli produttivi alla rinuncia di ricorrere agli straordinari, per risparmiare, quando i ritmi nelle normali ore di lavoro viaggiavano stabilmente al di sotto dei peggiori standard. Anche Archimede Trovato, detto Éureka, il direttore tecnico, a dispetto del suo nome non era un genio. Accusava Massimo di non allocare al suo ente risorse sufficienti a sviluppare nuovi prodotti, che probabilmente avrebbero sbaragliato la concorrenza, per destinarle invece all'industrializzazione dei modelli esistenti, che li avrebbe resi sicuramente più competitivi, frustrando però la sua creatività. Nemmeno Anacleto Bustapaga, il più saggio e onesto di tutti, era sereno. Il direttore delle risorse umane, accecato dall'amore paterno, rimproverava a Massimo la mancata assunzione del figlio, un lavativo arrogante incapace persino di volantinare per una qualsiasi causa persa. Per non parlare di Marco Franco Sghei, il direttore finanziario di origini venete, che incolpava il titolare, e non la bassa stagione, per la scarsa liquidità provocata a suo dire dalla mancata approvazione di una certa linea di credito da lui concordata con la Strozzafin a beneficio esclusivo dell'azienda. In realtà, quest'ultima avrebbe pagato salatissimi interessi mentre lui avrebbe incassato cospicue commissioni. Ma questo era un dettaglio trascurabile. Il rifiuto di Massimo gli aveva però fatto perdere la faccia col collega e complice Leandro Falacresta, il direttore degli acquisti più noto col simpatico nomignolo attribuitogli dai suoi molti detrattori. Ladro, infatti, senza quei soldi non poté mantenere le promesse fatte ai suoi fornitori privilegiati, perdendo così i loro generosi ringraziamenti: per questo odiava a morte sia Sghei che il titolare. Insomma, ognuno di loro aveva motivi di rancore nei confronti del capo: un tale astio avrebbe potuto guidare la mano che aveva incollato le lettere su quel foglio di carta?
Poi Massimo pensò agli inquilini che da tempo occupavano appartamenti di sua proprietà senza pagare l'affitto. Alcune situazioni erano degenerate al punto da dover procedere con decreti ingiuntivi e sfratti. I morosi incalliti avevano inveito ferocemente contro di lui, minacciandolo persino di morte senza subire alcuna conseguenza giudiziaria. Campioni di questi parassiti erano la famiglia Abusivi e i coniugi Scrocco, sapientemente consigliati da associazioni compiacenti pronte a informarli puntualmente di tutti i possibili appigli legali cui aggrapparsi per ritardare, se non addirittura evitare, il pagamento della pigione. «Come sanno approfittare bene dei buchi presenti nelle maglie di una legge ideologica, colpevolmente favorevole a chi vive beffandosi degli altri!» lamentava disgustato.
È vero, tutti erano potenziali colpevoli, ma guarda caso quella sera si tenevano le votazioni e, seppur concentrato sulla propria elezione, Massimo aveva deciso di cogliere l'occasione per indagare su chi comunque considerava essere il sospettato principale: il Comm. Grand Uff. Dr. Ribaldo Scaltri Maneggioni, aiutato probabilmente da qualche suo fedelissimo prezzolato. «Smascheriamo il braccio e individueremo la mente» confidava, accomodandosi in prima fila accanto a Speranza. Aveva pregato la consorte di accompagnarlo per scambiare con lei quelle considerazioni che grazie alla sua perspicacia lo avrebbero aiutato a individuare chi fosse disposto a tutto pur di neutralizzarlo.
Lei, ignara delle minacce ricevute dal marito ed estranea alle dinamiche dell'associazione, già si era rassegnata a subire una serata mortalmente noiosa, ignorando che tale proprio non sarebbe stata.

L'Assemblea
Alle 19.00 in punto i lavori stavano per cominciare.
Il tavolo delle autorità era al gran completo: il presidente uscente, ribattezzato il Puparo per l'abilità con cui muoveva i fili dei burattini che controllava a suo piacimento, era sul punto di prendere la parola mentre i soci abbandonavano a malincuore profonde considerazioni filosofiche sulla fluidità del back-swing o sull'arredamento zen del loro nuovo yacht per prendere posto in sala. I più speravano soltanto che la riunione finisse presto.
Guardandoli, Massimo trattenne un sorriso amaro ricordando una canzone di molti anni prima. Come si intitolava? Ah si, ‘Compagno di scuola', di Antonello Venditti. Ed ecco che le migliaia di gambe e di occhiali di corsa sulle scale ai suoi occhi erano diventati i pantaloni alla moda e gli auricolari di ultima generazione che, con i loro proprietari, si apprestavano a occupare i posti assegnati. E Scaltri Maneggioni, in carica da tempo immemore, quando estrasse dalla tasca i fogli del discorso che si era preparato, gli ricordava tanto quel professore che leggeva sempre la stessa storia, dallo stesso libro, nello stesso modo e con le stesse parole, da quarant'anni di onesta professione. Ecco cosa lo frustrava profondamente: la trasformazione dell'Alleanza in un ente burocratico asservito alla politica, che privilegiava il clientelismo e anteponeva l'intrallazzo a ogni vera iniziativa imprenditoriale. L'importante era godere dei favori elargiti in abbondanza dagli ‘amici' agli ‘amici degli amici' spartendosi i profitti, quando c'erano. A coprire le perdite ci avrebbero pensato le casse pubbliche: poco importava se ciò conduceva alla rovina dell'industria italiana e all'impoverimento del Paese. Quell'andazzo si era ormai consolidato perché faceva comodo a troppi!
Del resto, quei benpensanti interessati soltanto al proprio miope tornaconto erano gli stessi che assistevano imbelli al progressivo degrado della città, chiusi nei loro malli, timorosi di opporsi alle orde di vagabondi, criminali e squatters cui avevano regalato ogni spazio urbano, politico e sociale in conseguenza della loro ignava abdicazione. Come avrebbero potuto, quei pavidi, promuovere un mutamento radicale del modo di fare impresa se, intimoriti da qualche accattone più aggressivo degli altri, non esitavano a elargire monetine pur di rabbonirlo? Per fortuna molti autentici imprenditori erano invece scontenti e pronti a contestare: l'attivismo di Massimo e del Club del Riscatto non aveva fatto altro che coagulare le proteste, offrendo una concreta prospettiva di cambiamento. Fra poco ci sarebbe stata la conta e si sarebbe scoperto chi avrebbe prevalso!
«Ingegner Rivolta, amico mio, lei si diverte ad andare sempre controcorrente. Ma adesso sta davvero scherzando col fuoco» lo avvertì con sarcasmo Scaltri Maneggioni appena lo vide. «Guardi che prima o poi dovrà pagarne lo scotto» lo ammonì con un ghigno sardonico. Se le conseguenze fossero state quelle indotte dall'auspicata inversione di tendenza nell'Alleanza, Massimo non avrebbe visto l'ora di pagarle, perché persistere nell'agonia che tutto avvolgeva in una frustrante mediocrità per lui era peggio di qualsiasi sconfitta. Ma se invece fossero state altre? Rabbrividì al pensiero osservando Fedele Servente, il fido assistente del Puparo, consegnare al suo capo un foglietto con malcelata soddisfazione negli occhi.
«E se quel lampo di gioia fosse stata la conferma che la missione di spaventarmi era stata compiuta? Nei prossimi giorni dovrò indagare a fondo anche su di lui» si ripromise.
Intanto fingeva di ascoltare il discorso del presidente che ripeteva proprio con le stesse parole dei lustri precedenti i soliti vuoti discorsi sulla necessità di non meglio identificate riforme, sul vantaggio di una continuità politica a prescindere dal suo colore e via discorrendo. Certo, un Governo stabile non obbliga ad addomesticare gente sempre nuova per ottenere quei favori diventati la principale fonte di finanziamento dei seguaci del Puparo. Ma così facendo il motore della crescita batterà sempre in testa, favorendo l'affermazione di uno Stato assistenzialista che si appropria delle risorse altrui per comprarsi la riconferma. Un Moloch che trascinerà il Paese alla rovina dando un colpo al cerchio del sindacato aggressivo e l'altro alla botte dell'industria compiacente.
Massimo, ovviamente, si era iscritto a parlare. Aveva preparato un intervento duro e provocatorio che avrebbe potuto esporre soltanto alla fine dei lavori, quando l'attenzione dei presenti sarebbe stata ormai concentrata, peraltro molto imprenditorialmente, sul buffet. Così voleva l'ostruzionismo dei maggiorenti. Ma questa volta la situazione era diversa. In sala c'erano molti indecisi insieme a tanti industriali ambiziosi che volevano rivendicare con orgoglio l'importanza del loro ruolo sulla scheda elettorale. Fin da subito si capì che l'esito della votazione sarebbe stato incerto e che la suspence sarebbe stata protagonista indiscussa fino a notte fonda.
Come da programma l'ingegner Rivolta, introdotto polemicamente dal Puparo come «L'autore dell'intervento epocale che ridisegnerà il profilo dell'industria italiana» prese dunque la parola per ultimo, ben dopo le 21.00, sollecitando un compito nuovo per le imprese. Aveva l'obiettivo di far arrivare il suo messaggio forte e chiaro non soltanto a chi lo stava ascoltando in quella sala ma anche al Consiglio Direttivo Nazionale degli Imprenditori, al quale il presidente di ogni sezione regionale partecipa con diritto di voto. Anzi, sperava di portarcelo lui stesso qualora fosse stato eletto. Il contributo fu profondo, puntuale e articolato.
Dapprima rimarcò la necessità per le imprese di ritornare alla loro missione originale, quella di produrre ricchezza, anziché confermarsi meri centri burocratici e assistenziali; poi denunciò l'ingerenza nefasta della politica, desiderosa di comprare il consenso soltanto per garantirsi la sopravvivenza, e il suo effetto pernicioso sull'economia alla quale dovrebbe rimanere totalmente estranea; lamentò la colpevole negazione sistematica del libero mercato, unico vero ed efficace ammortizzatore sociale che consente alla comunità di prosperare e ai lavoratori meritevoli di trovare occupazioni sempre più gratificanti, e concluse convenendo sulla sciagura dell'affermazione di quello che lui definiva ‘Homo Sovieticus', incapace di procurarsi da vivere senza l'aiuto dello Stato-mamma, auspicandone la rapida trasformazione in ‘Homo Faber Fortunae Suae', intelligente, intraprendente, autonomo e non influenzabile. Dunque pericolosissimo, per il Regime! Una standing ovation salutò la chiusura del suo intervento.
A quel punto Scaltri Maneggioni, pallido come un lenzuolo, per soffocare il manifesto consenso della platea alle proposte del suo avversario, con la scusa dell'ora tarda negò inopinatamente il dibattito, dichiarò frettolosamente conclusi i lavori e aprì proditoriamente il buffet. Voleva guadagnare tempo sperando che molti simpatizzanti dell'ingegner Rivolta si stancassero di aspettare e rinunciassero a votare. Inoltre, il vecchio Ribaldo confidava nel sostegno determinante di tre fedelissimi che – ne era sicuro – avrebbero votato ancora per lui, convinti dai favori ottenuti in passato e da quanto aveva in serbo per loro quella sera. Ma non si trovavano. Dov'erano finiti? Bisognava cercarli!
Nel frattempo gli amici del Club del Riscatto si congratulavano con Massimo, anticipando una prima conta che già lo ipotizzava vincitore. Di contro, maledicevano chi insisteva a giocare al gatto col topo, certi che ogni tentativo di contrastare l'avvento del ‘nuovo' alla fine sarebbe stato frustrato.
A furor di assemblea, le votazioni vennero solennemente annunciate per le 23.00 in punto.
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