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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: Francesco Marino
Titolo: Il viaggiatore dei mondi perduti
Genere Fantascienza
Lettori 888 6 9
Il viaggiatore dei mondi perduti
Il ronzio era un compagno costante, un basso ronzio che vibrava non solo attraverso il pavimento di cemento del laboratorio sotterraneo, ma in profondità nelle ossa del professor Giovanni Milani. Era il battito cardiaco della sua ossessione, la ninna nanna che placava i suoi nervi logorati, alimentando allo stesso tempo il fuoco implacabile nelle sue viscere.
Questo non era solo un laboratorio ma un santuario, una fortezza contro il dolore invadente che lo aveva spinto in questo esilio auto imposto.
L'aria, densa dal sapore metallico dell'ozono e del debole odore acre di condensatori sovraccarichi, era carica, viva di un'attesa quasi palpabile. Era il profumo della possibilità, di un futuro non scritto e di un passato che aveva disperatamente bisogno di essere scritto.
L' universo stesso era una testimonianza della sua singolare concentrazione, una caotica sinfonia di cavi elettrici a vista, cromature scintillanti e rame opaco e brunito. Schemi arcani, scarabocchiati su fragile pergamena e attaccati a ogni superficie disponibile, si dispiegavano come mappe criptiche di una dimensione inesplorata. Non erano semplici progetti ma preghiere, incantesimi sussurrati nel vuoto, ogni riga era una testimonianza di innumerevoli ore di calcoli angoscianti, ogni diagramma una disperata richiesta di comprensione. Gli scaffali traboccavano di libri di testo obsoleti, le pagine con le orecchie piegate e annotate con scarabocchi furiosi, intervallati da tomi esoterici che alludevano a teorie ben oltre i confini convenzionali della fisica. Qui giacevano le fondamenta della sua ambizione, costruite sul fatiscente edificio della sua vita personale.
Giovanni stesso era una sagoma contro il bagliore pulsante del condotto cronologico primario, la sua figura scarna, gli occhi ardenti con un'intensità che smentiva la sua stanchezza fisica. I suoi capelli, un tempo di un castano intenso, erano striati di un grigio precoce, una manifestazione fisica delle notti insonni e del peso del suo singolare scopo. Le rughe incise intorno ai suoi occhi, non erano solo il prodotto dell'età, ma di un dolore profondo, una ferita che il tempo stesso aveva inflitto e che ora cercava di rimarginare o almeno di comprendere. Si muoveva con una grazia silenziosa, quasi spettrale, attraverso il caos organizzato, le sue mani, macchiate di saldature e lubrificante, regolavano meticolosamente un quadrante, calibravano un regolatore di flusso, tutto il suo essere assorbito nell'intricata danza dei macchinari.
La sua vita personale non era una semplice nota a piè di pagina ma inchiostro stesso con cui era scritta la sua storia. Francesca.
Il nome era un arte fantasma, un dolore che non si placava mai del tutto. La sua risata, il calore della sua mano nella sua, i sogni condivisi di un futuro che non avrebbe mai costruito insieme. Erano questi gli spettri che infestavano la periferia della sua visione, la forza trainante di questa impresa monumentale. L'incidente, un'insensato scherzo del destino, non gli aveva solo rubato lei ma gli aveva rubato il futuro, lasciandolo alla deriva di un presente privo del suo colore più vitale. Si era ritirato, non per sconfitta, ma nel disperato tentativo di recuperare ciò che era andato perduto, di ricucire la linea temporale fratturata che l'aveva così brutalmente strappata dalla sua vita.
Il suo laboratorio, scavato nelle profondità della terra, rifletteva il suo tumulto interiore. La luce limitata, emanata principalmente dal ronzio dei macchinari e dal bagliore cupo degli schermi diagnostici, proiettava lunghe ombre danzanti che giocavano sulle superfici ingombre. Era uno spazio in cui il tempo stesso sembrava deformarsi, dove il mondo terreno sopra di lui sembrava un ricordo lontano e irrilevante. Ogni ingranaggio ronzante, ogni luce pulsante, era un passo avanti verso il suo obiettivo, una testimonianza della sua incrollabile dedizione. L'aria stessa sembrava crepitare di una tensione quasi elettrica, un preludio alla tempesta che stava per scatenare. Non era solo uno scienziato che armeggiava con concetti teorici ma era un uomo sul punto di sfidare le leggi stesse dell'esistenza, spinto da un amore che trascendeva il tempo e un dolore che esigeva una punizione contro il destino stesso.
Il fulcro della sua impresa, il cuore del motore temporale, era un colossale insieme di strutture cristalline, intrecciate con intricate e pulsanti vene di leghe esotiche e cavi conduttori. Era una cosa mostruosa e meravigliosa, una testimonianza di anni di instancabile lavoro teorico e di una considerevole fortuna spesa in materiali rari e componenti specializzati.
I cristalli, provenienti dalle regioni più profonde e geologicamente stabili del pianeta, non erano meramente decorativi. Erano condotti, i punti focali attraverso i quali l'energia temporale sarebbe stata incanalata, focalizzata e, infine, diretta. Giovanni credeva, con una convinzione al limite del fervore religioso, che quegli amplificatori temporali naturali, fossero la chiave per stabilizzare le immense forze necessarie per lo spostamento.
Controllò meticolosamente i condotti energetici, tracciando il flusso di energia con occhio esperto. Ogni connessione era un punto di potenziale fallimento, ogni giunzione una testimonianza della fisica quasi impossibile che stava cercando di sfruttare. Il ronzio si intensificò mentre effettuava un'ultima regolazione, una sottile ricalibrazione della frequenza di risonanza primaria. I cristalli iniziarono a emettere un bagliore morbido ed etereo, le loro sfaccettature interne catturavano e rifrangevano la luce ambientale, dipingendo motivi mutevoli sulle pareti del laboratorio. Era quello uno spettacolo ipnotico, un canto di sirena che prometteva l'impossibile.
Fece una pausa, prendendo un respiro profondo, l'odore dell'ozono era più forte ora, un odore acuto e rinvigorente che parlava di un potere grezzo e indomito. Poteva sentire l'energia crescere, un crescendo di forza silenziosa che si raccoglieva nel cuore della sua creazione. Anni di isolamento, di voci sussurrate e di scetticismo spezzante, di sacrificio di ogni parvenza di vita normale, avevano portato a quel singolo, cruciale momento. Le sue mani tremavano, non per la paura, ma per l'enorme portata di ciò che stava per accadere. Stava per diventare non solo un fisico, ma un pioniere, sulla soglia di una nuova frontiera della comprensione umana.
Il peso di quella consapevolezza si abbatté su di lui, come un pesante mantello di responsabilità, dove sotto di essa si accendeva una scintilla di euforia. Il viaggio pericoloso e inesplorato, stava per iniziare. Allungò la mano verso la sequenza di attivazione, con lo sguardo fisso sul cuore pulsante della macchina, mentre una preghiera silenziosa echeggiava nell'aria carica. Francesca.
Il ronzio sommesso del motore cronologico si fece più profondo, risuonando con un ruggito primordiale e gutturale che vibrava fino al midollo di Giovanni.
Strinse la consolle di controllo, le nocche bianche contro il metallo lucido, il respiro che gli si bloccava in gola. La matrice cristallina al centro dell'unità di spostamento temporale pulsava di una luce incandescente, passando attraverso uno spettro di tonalità sorprendentemente vibranti: ametista, smeraldo, zaffiro, poi un bianco accecante che sbiancava il mondo intorno a lui.
Era questo. Il culmine di anni di lavoro ossessivo, di relazioni sacrificate, di notti insonni alimentate dal dolore e dalla disperata speranza di riscrivere un singolo, catastrofico momento di vita.
Aveva calibrato le coordinate temporali con precisione scrupolosa. Non una nebulosa lontana, non l'alba di una nuova civiltà, ma un punto specifico del suo passato:
18 giugno 2016 ore 15:30. l'esatto momento in cui la vita di Francesca si era spesa ad un maledetto incrocio di città. Non cercava di osservare la storia ma di correggerla, di strapparla dalle fauci dell'oblio. I display della consolle tremolavano, mostrando una serie di calcoli complessi e metriche di flusso energetico che sarebbero stati del tutto incomprensibili a chiunque tranne che a lui. Ogni valore numerico rappresentava un'ancora di salvezza, una variabile cruciale in una danza con la causalità che avrebbe potuto svelare la realtà stessa.
Un ronzio profondo e risonante emanava dal generatore di vortici temporali, un suono che sembrava artigliare il tessuto stesso dell'esistenza. Non era solo un rumore, ma pressione fisica, una forza invisibile che lo spingeva, distorcendo l'aria, offuscando i bordi della sua vista. Poteva sentire il familiare odore metallico dell'ozono farsi più acuto, ora mescolato a qualcosa di alieno, qualcosa che parlava di energie al di là della comprensione umana. Il laboratorio, il suo santuario, la sua prigione, iniziò a deformarsi e distorcersi intorno a lui. Le pareti sembravano allungarsi e contarsi, le ombre addensarsi in un abisso impenetrabile. La luce dei cristalli divampò, poi si contrasse, riunendo ogni cosa in un punto unico e accecante.
La sensazione era diversa da qualsiasi cosa avesse mai sperimentato, una violenta lacerazione che sfidava ogni fisica terrena. Era come se tutto il suo essere simultaneamente compresso ed espanso, disteso su una tela infinita di istanti. Sentì un sussulto nauseabondo, simile a precipitare da un'altezza impossibile, ma anche la sensazione di essere fatto a pezzi, atomo per atomo. La sua vista si fratturò in un caleidoscopio di colori vorticosi e immagini frammentarie. Scorci della sua vita passata, fugaci e distorti, gli balenarono davanti agli occhi: il dolce sorriso di Francesca, il bianco sterile della stanza d'ospedale dove gli avevano comunicato della sua morte, il freddo vuoto del suo banco di laboratorio, i momenti gioiosi della loro vita condivisa ora resi crudelmente strazianti. Questi non erano ricordi ma echi, strappati dai loro ormeggi temporali e scagliati nel vortice.
Il suo corpo protestò contro l'assalto. Un'ondata di nausea lo travolse, minacciando di consumarlo. I suoi sensi vacillarono. Il rombo del motore divenne una cacofonia assordante, una sinfonia di dissonanza temporale. Sentì una strana sensazione di formicolio diffondersi attraverso gli arti, una dissociazione della sua forma fisica. Era come se la sua coscienza venisse strappata dal suo guscio fisico, alla deriva in un mare di flusso temporale. Il suo cuore martellava contro le costole, un ritmo frenetico e irregolare che sembrava lottare contro il battito costante della macchina. Ansimava in cerca d'aria, ma l'atmosfera stessa gli sembrò aliena, rarefatta e carica di un'energia non identificabile.
Provava un profondo senso di isolamento, come se fosse l'unica entità cosciente in un universo improvvisamente spogliato delle sue costanti familiari. Il concetto di “qui” e “ora” si dissolse, sostituito da un'opprimente senso di “allora” e “altrove”. Era un singolo punto di consapevolezza che sfrecciava attraverso un continuo infinito, un granello di polvere intrappolato in un uragano cosmico. La sua portata era terrificante, umiliante e esaltante. Stava spingendo i confini dell'impresa umana, entrando nell'abisso che aveva inghiottito così tanti fisici teorici, così tanti sognatori.
Il viaggio attraverso il vortice temporale non fu un passaggio fluido, ma un violento e caotico crollo. Sperimentò lampi di calore intenso, seguiti da un freddo gelido. I colori che gli balenarono davanti agli occhi si intensificarono, trasformandosi in forme e schemi impossibili, geometrie che si contorcevano e si ripiegavano su se stesse, sfidando lo spazio euclideo. Vide la nascita delle stelle, la lenta erosione delle montagne, l'ascesa e la caduta degli imperi, tutto compresso in attimi, semplici puntini nel grande arazzo del tempo. Non era un osservatore ma un partecipante, la sua stessa firma temporale intrecciata con il tessuto del continuo infinito.
La macchina gemette, un suono tormentato di metallo teso e campi energetici sovraccarichi. Clacson d'allarme, attutiti dalla forza dello spostamento temporale, tremolarono sulla consolle, un'ultima disperata supplica di interrompere l'operazione.
Ma interrompere? Non c'era alcuna interruzione. Non ora. Non ora che era così vicino. Poteva sentire il vortice stabilizzarsi, coagularsi intorno a lui, trascinandolo verso la destinazione prefissata. Il caotico caleidoscopio iniziò a farsi più nitido, le immagini frammentate si risolvevano in una sequenza più coerente, seppur ancora disorientate.
Sentì un netto cambiamento, un'improvvisa, brusca interruzione del movimento violento. Il rombo assordante si placò, sostituito da un ronzio più localizzato e familiare. La luce intensa si allontanò, permettendo ai suoi occhi di adattarsi. Sbatté le palpebre, la vista gli si schiarì lentamente, le immagini svanirono come nebbia al sole del mattino. Non stava più sfrecciando in un vuoto astratto. Era...da qualche parte, o meglio in un universo sconosciuto.
Respirò tremante, i polmoni che gli bruciavano per lo sforzo e l'atmosfera aliena. Il suo corpo si sentiva pesante, come se si fosse appena ancorato alla realtà. Il disorientamento persisteva, una confusione ai margini della sua percezione, ma la nausea si era attenuata, sostituita da una profonda stanchezza. Si sentiva cambiato. Non fisicamente, non ancora, ma ad un livello più profondo. Aveva varcato una soglia e l'uomo che era entrato nel vortice, non era lo stesso uomo che ne era appena emerso.
I suoi occhi scrutavano l'ambiente circostante, il cuore che gli batteva forte in un misto di terrore e trepidazione. Il laboratorio era ancora riconoscibile, ma leggermente diverso. L'illuminazione sembrava più soffusa, l'aria meno carica. Controllò il cronometro sulla consolle: 18 giugno 2016 ore 15:20. Era arrivato.
Dieci minuti preziosi prima dell'incidente. Ce l'aveva fatta. L'impossibile era stato raggiunto.
Si guardava le mani, callose e macchiate da anni di lavoro, ma ora sembravano tremare con una debolezza quasi infantile. Il peso del suo corpo gravava su di lui ancora una volta, più pesante che mai. Aveva il potere di cambiare le cose, di salvare la sua Francesca. Ma il semplice fatto di viaggiare indietro nel tempo gli aveva anche impresso l'immensa fragilità del continuo temporale. Ogni azione, ogni decisione, aveva conseguenze che se estendevano all'esterno, invisibili e imprevedibili.
Si allontanò dalla consolle, sentendosi stranamente debole nelle gambe. Il motore cronologico ronzava ancora, ma il suo rombo si era ridotto a un ronzio basso e costante. Poteva sentire l'energia residua scorrere attraverso le ossa stesse della struttura, testimonianza delle forze colossali che aveva appena domato. Si diresse verso la porta blindata che separava il suo laboratorio sotterraneo dal mondo in superficie. Poteva sentire il lontano rombo del traffico, i suoni attutiti di una città che svolgeva i suoi affari, ignara dell'evento monumentale che se era appena verificato sotto la sua superficie.
Aveva bisogno di muoversi, di agire. I dieci minuti stavano per scadere. Doveva raggiungerla, distoglierla, cambiando il corso di quel viaggio fatale. Il dolore che lo aveva spinto a tanto si acuì in una feroce determinazione. Non era più solo Giovanni Milani, lo scienziato addolorato. Era Giovanni Milani l'uomo che aveva osato sfidare il tempo stesso. Allungò la mano verso il meccanismo di apertura della porta, il cuore che batteva a un ritmo di speranza e terrore. L'eco del domani non era più una possibilità lontana ma una realtà tangibile che stava per affrontare.
La brusca cessazione dello spostamento temporale, fu più un'espulsione da una fucina cosmica che un atterraggio dolce. L'equilibrio di Giovanni, già fragile dopo il transito tumultuoso, si frantumò completamente.
Barcollò in avanti, i suoi stivali atterrarono non sul cemento levigato del suo laboratorio, ma su qualcosa di più morbido, cedevole, eppure inequivocabilmente solido. Granelli di polvere, illuminati da una luce diffusa e velata, danzavano nell'aria davanti a lui, portando con sé l'odore di terra umida e foglie in decomposizione. Era un odore così banale, così profondamente del passato, che lo colpì con la forza di un colpo fisico.
Si tirò su, con gli arti pesanti, protestando contro l'improvvisa riaffermazione della gravità. La sua vita vacillò, non per la fantasmagoria del vortice cronologico, ma per un disorientamento più sottile e insidioso. L'estetica spoglia e sterile del laboratorio era scomparsa, sostituita da un ambiente che era allo stesso tempo dolorosamente familiare e inquietante alieno. Si trovava su una macchia d'erba alta, delimitata da un muro di pietra fatiscente, parzialmente consumato dall'edera. Oltre il muro, riusciva a distinguere la sagoma di una modesta strada di periferia, fiancheggiata da alberi che sembravano indossare i loro colori autunnali con una tonalità leggermente più intensa e ricca di quanto ricordasse. L'aria stessa sembrava diversa, più pulita, in qualche modo e portava con sé, il debole e lontano mormorio del traffico, distinto dal basso, onnipresente ronzio del suo tempo.
Controllò il cronometro integrato nella sua tuta temporale, la debole luminescenza del suo display in netto contrasto con la luce grigia e soffusa che filtrava dal cielo.
18 giugno 2016. ore 15:28. Due minuti. Solo centoventi secondi lo separavano dal precipizio. Un'ondata di vertigine esistenziale lo travolse. Era lì, nella realtà tangibile del suo passato, un'epoca che aveva rivisitato solo attraverso la lente malinconica della memoria. Il mondo intorno a lui era un arazzo intessuto di fili di ricordi e osservazione oggettiva e la dissonanza era profondamente inquietante. Il suo sguardo si spostò, attratto da un'irresistibile attrazione gravitazionale, verso un punto di riferimento familiare. L'incrocio tra le due vie principali, un luogo impresso nella sua coscienza con la bruciate chiarezza del trauma. A pochi isolati di distanza, poteva vedere la facciata rosa e smorzata della sua vecchia casa, un luogo che ora esisteva solo nelle fotografie e nelle rovine fatiscenti della sua memoria. I lampioni, ancora dormienti nella luce pomeridiana, sembravano sentinelle attente a guardia di un passato dimenticato.
Si muoveva con cautela, la sua tuta temporale progettata per il viaggio e la minima traccia temporale, eppure ogni passo sembrava semplificato, ogni respiro una potenziale trasgressione. Era un fantasma nella sua stessa storia, un osservatore fantasma incaricato di una missione di gravità impossibile. Il prezzo emotivo di questa violazione temporale era immenso. Essere testimone di quel passato, così vicino al disfacimento del suo futuro, significava confrontarsi con un dolore che aveva cercato a lungo di seppellire. Eppure, sotto l'angoscia, un nascente senso di distacco cominciò a farsi strada. Non era più solo Giovanni, l'uomo consumato dal dolore. Era un agente temporale, uno stratega incaricato di navigare le insidiose correnti della casualità.
Francesco Marino
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