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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Laura Laurenti
Titolo: Le Ombre di Maplewood
Genere Giallo psicologico
Lettori 838 2 2
Le Ombre di Maplewood
Un'ombra vaga.

Lunedì 6 marzo 2023 Ore 14:00.

Il gracchiare dei corvi squarcia il silenzio.
Con le mani mi copro le orecchie, ma la sua eco si insinua nella mia mente. Mi alzo con fatica dalla poltrona sulla quale ormai trascorro la maggior parte delle mie giornate.
D'altra parte, le mie ossa sempre più fragili non mi permettono di fare molto altro.
Mi dirigo zoppicante verso il piano di sopra, non riesco più a camminare come un tempo, non mi sono ancora del tutto ripresa dalla brutta frattura al femore di un paio di anni fa.
Salgo le scale con amara lentezza aggrappandomi alla ringhiera. In fondo al corridoio c'è quella porta sempre chiusa.
Quella dell'altra stanza.
L'ho svuotata di tutto quello che conteneva per non dovervi entrare più, ma il grido dei corvi viene proprio da quella parte, è sempre più forte e sembra chiamarmi.

Quando entro, l'oscurità mi avvolge; così come l'odore di chiuso che quasi mi soffoca.
Scosto le tende.
Sono pesanti e piene di polvere. Tossisco.
A poche centinaia di metri da casa mia, all'inizio del viale, c'è qualcuno.
Prendo gli occhiali che mi pendono dal collo e li inforco con mani tremanti. Devo vedere meglio.
Devo capire.
Ma quando cerco di mettere a fuoco, non ci riesco: la mia vista negli ultimi tempi si è indebolita molto, così la figura resta un'ombra vaga nella luce grigia del pomeriggio.
Rimane ferma, senza fare un passo.
Da qui non riesco neanche a capire cosa stia facendo. Respira, forse.
Forse, solo questo.
Come se volesse assorbire l'odore dell'erba incolta che cresce ai lati della strada.
Finalmente si muove, verso la fine del viale, verso quella casa, verso di me. Cammina con la testa china, i passi lenti e cauti sull'asfalto screpolato.
Si avvicina al cancello arrugginito e pericolante, al muretto di cinta che circonda quel luogo e vi posa sopra una mano.
Ora riesco a vedere i suoi capelli castani, tagliati corti e le forme armoniose di una donna nel fiore degli anni.
Il giardino dall'altra parte del muro è ancora spoglio; la primavera tarda ad arrivare quest'anno, ma immagino che là dentro gli alberi siano proprio come quelli che ho io: pieni di gemme piccole e rotonde come pastelli a cera, dal colore ancora sconosciuto.
Adesso vedo che la donna abbassa la testa e si passa una mano sui pantaloni scuri, cercando di togliere la sabbia granulosa che i mattoni rilasciano ovunque quando si sgretolano.
Quel muretto ormai è così fragile che basta guardarlo per vederlo cadere a pezzi.
Nessuno in questi trent' anni ha mai pensato di ristrutturare quell' edificio, né di raderlo al suolo una volta per tutte.
L'hanno lasciato lì, ad agonizzare.

Alza lo sguardo.
Verso quelle finestre, ormai anneriti occhi vuoti. Pronti a giudicare, a inghiottire tutto e tutti.
Guardano lei, guardano me. Ogni giorno, ogni notte.
Per questo, la finestra è sempre coperta e in questa stanza non entro mai. Non voglio vedere, non voglio ricordare.
Un corvo gracchia di nuovo.
Il suono questa volta sembra venire dal mio tetto.
Non posso vederlo, ma lo immagino lassù, nero e immobile.
Mi accorgo che sto stringendo il bordo della tenda con troppa forza, come se cercassi un supporto, un appiglio per non crollare sotto il peso del tempo trascorso.
Gli occhi della donna, adesso, si alzano lenti fino alla mia finestra e io, tremante, la riconosco.
Il mio cuore accelera, un battito rapido e violento che mi toglie il respiro.
Le gambe diventano pesanti, quasi paralizzate dalla paura, incapaci di sostenermi.
Il suo viso è lo stesso di un tempo. Lo riconosco.
Come allora, lei piange. E io piango, come allora.

Gioco di luci e ombre

Mercoledì 8 marzo 2023 Ore 17:30

La brusca frenata mi fa sbattere la testa contro il finestrino. Apro gli occhi al buio della sera.
Il gioco di luci e ombre riflette l'immagine del mio viso gonfio di stanchezza: le labbra disidratate dalle lunghe ore passate in viaggio, la pelle spenta e lo sguardo vuoto e appesantito da borse e occhiaie.
Il dolore sordo delle dita nella carne... è l'unica sensazione che riesco a percepire.
Sposto lo sguardo sul mio grembo: le mani sono serrate a pugno. Come se avessi paura di lasciare andare qualcosa.
O qualcuno.
Le apro di scatto. Sono vuote.
«Sono arrivata.» Espiro.
La mia voce ha il tono misto di sollievo e tristezza che l'accompagna ogni volta che raggiungo un punto di arrivo, anche se il viaggio è stato tedioso come questo.
Non c'è nessuno intorno a me a raccogliere le mie parole; sono sola sulla carrozza.
Quando mi alzo in piedi non ho più l'impressione di essere sopra a uno strato di gelatina, una sensazione che mi ha accompagnata per buona parte della giornata.

Mi piego per raccogliere la mia cartella da lavoro, poi tiro giù il piumino dalla cappelliera con un piccolo e, con ogni probabilità poco aggraziato, salto.
Le porte del treno sono ancora chiuse, non vedo alcun pulsante di apertura.
Solo una leva di metallo, simile a quella del freno di emergenza, spunta sul lato. Mi guardo intorno, ansiosa di trovare un altro modo per scendere, ma non c'è nulla.
Con un sospiro, tiro la leva.
La porta si apre con una lentezza estenuante e, appena sento l'aria fresca, sguscio fuori grata di lasciarmi alle spalle il caldo soffocante del treno.
Solo io esco e nessun altro sale; il marciapiede che costeggia il binario è deserto.
Sono le 17:30.
Non mi aspettavo di trovare un tabellone elettronico e infatti non c'è.
L'orologio sotto la pensilina incorniciato da un'elaborata struttura in ferro battuto, tuttavia, segna lo stesso orario che vedo sul mio smartphone.
Come da programma.
Sono stata in viaggio per dodici ore precise. Partita nel buio, arrivata nel buio.
Durante il tragitto non ha fatto che piovere.
Ho attraversato quasi tutto il paese, eppure la nebbia fuori e la condensa sul vetro mi hanno tenuta lontana dal paesaggio.
Non avrei avuto tempo di osservarlo bene, comunque, il lavoro mi ha tenuto parecchio impegnata.
Anche ai passeggeri che mi circondavano, non ho dato che un'occhiata distratta: c'era una coppia di anziani seduti uno accanto all'altro immobili, con gli occhi persi nel vuoto; un uomo d'affari, anche lui piegato sui suoi documenti; una ragazza con gli auricolari, persa nella musica che canticchiava piano e teneva la testa appoggiata al finestrino, del tutto ignara di tutto ciò che la circondava.
Mi avvio verso l'uscita.
Nessuno mi chiede il biglietto e non ne ho bisogno nemmeno per lasciare il binario.
L'ufficio del capostazione è chiuso e non c'è traccia di una caffetteria.
Non mi stupisce: non credo che il movimento viaggiatori di questo posto sia così elevato da giustificarne l'esistenza.

Il silenzio che mi circonda è quasi palpabile; niente schiamazzi, nessuno degli annunci che si sentono in città, solo il fruscio dei miei passi sul pavimento lucido.
Scorgo uno stand di giornali gratuiti, mi avvicino e ne prendo uno senza pensarci troppo.
Un piccolo sollievo, una traccia familiare della mia vita di sempre. Poi, come al solito, lo getterò senza nemmeno sfogliarlo.
Fuori il paesaggio è immobile e deserto. Un pensiero improvviso mi fa voltare.
L'insegna della stazione mi toglie ogni dubbio: Maplewood. Sì, sono nel posto giusto.
Al capolinea.
Eppure, un brivido di inquietudine mi attraversa le vene.
Scuoto la testa e mi metto in cammino affrettando il passo.

Ombre fugaci e silenziose

Mercoledì 8 marzo 2023
Ore 18:00

«Il bosco degli aceri. Chi ha scelto questo nome senza dubbio doveva avere poca fantasia.»
Mormoro con un sorriso ironico, quando vedo che una fila di alberi spogli fiancheggia quello che immagino sia il viale principale.
Sempre che queste piante siano davvero aceri; non sono un'esperta in materia e in questa stagione gli alberi senza foglie si assomigliano tutti.
L'oscurità di questo pomeriggio d'inverno si fa sempre più intensa, sembra quasi che la luce dei lampioni non riesca a dissiparla.
All'orizzonte, alcune luci fioche punteggiano il paese, ma non ho voglia di avventurarmi verso di esse.
Non stasera.
Non ho fame.
All'ultima stazione di cambio ho comprato un panino, patatine e una bibita che sapeva di plastica.
Il pastone di spezie sconosciute e formaggio liofilizzato mi è rimasto incastrato tra i denti.
La limonata, gassata all'inverosimile, non aveva nemmeno un sapore.
Ho bisogno di una doccia: immagino di avere addosso una miscela di odori di treno, di stanchezza, di fatica.
E poi andrò dritta a dormire.
Svolto a sinistra, così come indicato sulla mappa che mi è stata fornita dalla piattaforma di prenotazione.

L'ho salvata in modalità offline, perché mi è stato detto che qui in paese la connessione internet è molto instabile; infatti, il mio smartphone non rileva alcun segnale.
Il vialetto pedonale su cui mi trovo adesso è costeggiato da case in pietra arenaria tutte diverse l'una dall'altra.
Le tende non sono ancora abbassate e attraverso i vetri riesco a intravedere ombre.
Fugaci e silenziose, sembrano galleggiare.
Qui, tutto appare così fermo, immobile, così diverso dalla mia città, dove le luci dei negozi e il rumore delle macchine non smettono mai di riempire l'aria. Alla mia destra scorre rapido un ruscello.
La luce dei lampioni si infrange sull'acqua, come un'immagine distorta, tagliata in mille pezzi.
Faccio un respiro profondo e proseguo, mentre il vento gelido mi colpisce la pelle.
Ho la sensazione che tutto mi stia osservando, che ogni angolo, ogni ombra mi stia scrutando.
Forse è solo la stanchezza che gioca brutti scherzi.
Poco più avanti, c'è un ponticello di pietra con il parapetto ricoperto di muschio e edera, lo supero e mi trovo sull'altra riva.
Qua non ci sono lampioni e il riverbero di quelli che costeggiano l'altro lato della passeggiata non raggiunge questa zona.
Il mio cuore accelera mentre accendo la torcia del telefono. Mi tremano le mani.
Di freddo, credo...e la sua luce è tremolante quando illumina il civico. È quello giusto.
Un sospiro di sollievo, poi con un sussulto penso al fatto che qui la quiete faccia davvero paura.
Mi avvicino al cancello di ferro.
Non ha alcuna funzione di sicurezza, è un semplice elemento decorativo: troppo basso per tenere lontano malintenzionati, non ha spuntoni né catene.
Sento un fruscio sopra di me, alzo gli occhi, ma ciò che riesco a vedere è solo il cielo che si fa sempre più scuro, privo di stelle.
Spingo il cancellino.
Un clic improvviso: il sensore di movimento si attiva, facendo scattare la luce del portico.
Un bagliore bianco ghiaccio illumina il cortile di ghiaia come un iceberg di luce nell'oceano di buio profondo che mi circonda.
Laura Laurenti
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