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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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La terra di nessuno
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Echi dal bosco delle anime.
Il grosso squarcio si apre sulla sua testa come un quadro dai colori spenti. Guardando bene, tra un listello e l'altro, Malena riesce a scorgere un pezzo di cielo, lattiginoso e immobile e nuvole candide e trasparenti, un fronte unito che avanza e non promette niente di buono. Se ha ragione fra qualche ora i fiocchi inizieranno a scendere, faranno qualche giro in aria prima di posarsi a terra e coprire il paese con un mantello bianco. Filia assomiglierà a un piccolo presepe, disteso sulla collina tonda ai piedi della grande montagna. E dal tetto della sua casa entrerà la neve. È diventata brava a leggere il cielo ma non può dire di essere infallibile dato che non ha previsto la bufera di vento che, qualche giorno prima, le ha scoperchiato il tetto. Ormai sente di perdere colpi. Avrebbe potuto metterci un telo, far rinforzare le travi? Se lo è chiesta ed è arrivata alla conclusione che la verità è una sola: deve smetterla di caricarsi pesi sulle spalle. Si è svegliata un giorno con la faccia di una vecchia e dovrà conviverci per quel poco che le resta. Accettare i propri limiti e farsene una ragione. Ormai sono giorni che fa su e giù dalla scala a pioli per controllare il soffitto, come se ci fosse ancora qualcosa da salvare, dice fra sé mentre osserva la catasta di coppi impolverati con i quali dovrà far riparare il tetto. Non sarà facile trovare qualcuno della famiglia disposto ad aiutarla dato che ha fatto il vuoto intorno a sé. Mettere da parte l'orgoglio, non è certa di riuscirci anche se, da quando è rimasta vedova, ha imparato a mandare giù bocconi amari e farseli piacere. Prova a spostare qualche coppo ma ben presto si deve fermare, la schiena non è più quella di una volta. Dritta davanti a uno scatolone di robivecchi osserva gli oggetti contenuti al suo interno come se avessero un'anima. Ha seppellito una parte di sé dentro quella scatola ma talvolta, tra i fischi e lo stridere di assi di legno, sente ancora una voce che chiede di uscire. Ultimamente sempre più spesso. Malena tentenna mentre ripulisce lo scatolone dalle ragnatele e cerca di sollevare il coperchio, sarà per i topi o per il timore che la donna imprigionata all'interno possa improvvisamente aggrapparsi alla sua mano. L'oggetto che sta cercando è ancora lucido come se la patina del tempo fosse scivolata via nel preciso momento in cui ha aperto la scatola. Non pensava di doverlo rivedere per casa ma, da quando sua figlia Clotilde ne ha parlato al bambino, lui non fa che ripetere: «Nonna ti prego, valla a cercare». La felicità di Leone nel ricevere quel regalo la compenserà della fatica di disseppellire il passato. Non è abituato a ricevere doni, nemmeno per Natale. «Il regalo più grande è essere ancora sani e salvi», gli ha detto la sera della vigilia e lui se l'è fatto bastare. Anche i bambini hanno paura della guerra, ha pensato Malena prima di prendere sonno. Evita di chiedersi come sarebbe andata se il bambino non fosse rimasto a vivere con lei, in realtà è un'ipotesi che non ha neppure considerato. Infila l'oggetto in una tasca del grembiule e va verso lo scrittoio. Ha portato un telo con sé ma stavolta non ha intenzione di coprire il passato, fingere che non siamai esistito per evitare di soffrire. Lo vuole proteggere perché con la neve il legno potrebbe gonfiare e lei sa che, dentro il cassetto, c'è una delle cose più preziose e più dolorose che abbia mai ricevuto.
Se la si paragonasse a uno dei tanti alberi che ha messo a dimora con le sue stesse mani, Malena assomiglierebbe a una quercia, nonostante il suo fisico esile faccia pensare a un salice, capace di flettersi battuto dal vento senza mai spezzarsi. Da quelle parti ci sono querce centenarie, si dice che le loro radici possano diventare più ampie della chioma fino a quattro volte. Quelle di Malena sono ben piantate per terra, si allargano oltre il suo metro e cinquanta di altezza e non ha permesso a nessuno di sradicarle. Vive nella stessa cascina in cui vivevano i nonni dei suoi bisnonni, la chiamano casa bianca anche se, a forza di rifacimenti, di bianco è rimasto solo il muro originario, l'unico collegato alle fondamenta. La sua dimora è isolata dalle altre, una rarità in un paese in cui le case si abbracciano, cantoni1 li chiamano, segmenti raffazzonati di calce e mattone, membra di un corpo dilaniato e ricucito. Come il corpo dei soldati caduti al fronte. Non sempre scorre buon sangue tra chi ci vive ma, sarà per la guerra, sarà perché a ben scavare salta sempre fuori un antenato comune, quando davvero serve sono in tanti ad accorrere: due facce di una stessa medaglia. Ne ha avuto prova qualche giorno prima, quando i coppi sono volati via col vento, l'hanno trovata in un angolo a sputare rabbia la Malalena, come la chiamano in paese, imprecava contro un Dio nel quale non crede da tempo. Forse non ci ha mai creduto. In due l'hanno rimessa in piedi quando ormai sembrava più avvizzita di un fico secco ma, prima che quel maledetto giorno finisse, aveva già un'idea precisa in testa di come sarebbe stato il nuovo tetto. Non molla mai perché Malena ha la testa dura, – lo diceva suo padre – dura come la roccia della Quinseina. Quando da piccola le chiedevano il suo nome, lei rispondeva: «Mi chiamo Malena e il mio paese si chiama Filia senza g», come se ci fosse un legame implicito tra quei due nomi. Non sapeva ancora che, per quel paese senza g, avrebbe dovuto sacrificare così tanto. E pensare che non è che uno sputo, un agglomerato di stamberghe sul punto di sprofondare da un momento all'altro, in un equilibrio precario tra il bric, la collina a semicerchio dove i faggi, silenziosi e immobili, di un grigio cenere impastato di celeste, tendono una mano al cielo e hanno piedi ben piantati per terra e la capitale, come definiscono il centro più antico dove sgorga la sorgente. Di lì in poi si snoda una lunga catena di case poggiate le une alle altre per rimanere dritte. Sembrano castelli di carta pronti a cadere al primo soffio di vento ma sono in piedi almeno da duecento anni. Un plotone di alberi d'alto fusto, bosco delle anime lo chiamano, si estende alle pendici del villaggio come se fosse una fitta muraglia innalzata per proteggere un corpo dalle membra stanche. La leggenda vuole che tra le fronde, inerte giornate ventose, si possano udire le voci dei morti. Malena non ci ha mai creduto ma per precauzione evita di passarci quando il vento d'oltre monti si accanisce sul villaggio sferzando raffiche algide e violente. L'arteria del paese è la Crosa, una scorciatoia ripida, sconquassata e polverosa che permette di scendere e salire a monte nella metà del tempo che occorrerebbe passando per la strada comunale, sempre che si disponga di gambe ben allenate e di una riserva appropriata di fiato. Il cuore pulsante è la piazza su cui troneggia la chiesa, semplice ma austera con la canonica rivolta a Nord e una lunga siepe di ortensie le cui sfumature, a giugno, si confondono con quelle del cielo e un portone di legno malconcio, scolorito dal tempo ma spalancato di domenica, il giorno del Signore, quando il sagrato si riempie: c'è chi ci va per pregare, chi per abitudine, chi per disperazione. Dopo la funzione e la benedizione con l'aspersorio, don Pertini si affretta a richiudere le porte, così le lingue lunghe sono costrette a spostarsi sulla piazza, davanti alla fontana. È lì che danno il meglio di sé, leggono la vita alla gente insinua Malena con disprezzo. A lei l'hanno letta e riletta, potrebbero recitarla a menadito. La piazza ha occhi sgranati e lunghi orecchi. Se Malena sapesse l'appellativo che gli abitanti del posto le hanno affibbiato – la Malalena – andrebbe su tutte le furie. Pensare che è stata proprio lei per prima a trovar loro l'epiteto lingue lunghe. All'inizio aveva optato per giacche lunghe. «Sarà che da quando è scoppiata la guerra ci si arrangia come si può, ma le cose sono due: o le maniche delle vostre giacche si sono allungate oppure siete voi a esservi ristretti», li ha scherniti passando loro a fianco. Così hanno reagito rendendole pan per focaccia. Ma Malena si arrabbierebbe ancora di più se sapesse il motivo per cui le hanno trovato quel soprannome: la sua tendenza a seminare il male pensando di raccogliere il bene. Lo ha fatto anche con sua figlia Clotilde e quella volta ha rischiato di rovinarle la vita. Clotilde non lo ha mai saputo ma le lingue lunghe potrebbero presto spiattellare tutto e per Malena sarebbe la fine.
La neve, leggera ma ostinata, è caduta per tutta la notte. Un sonno senza sogni l'ha traghettata verso un domani di inutili pentimenti: i gesti incompiuti, le parole non dette, zavorre che la ancorano al letto come se fosse già in una bara. Deve uscire da quella stanza altrimenti potrebbe impazzire. Si alza di scatto facendo attenzione a non svegliare il bambino. Presto dovrà imparare a dormire da solo, riflette tra sé senza troppa convinzione. La trottola poggiata sul comodino scatena in lei un sentimento dolceamaro: la gioia di Leone nel riceverla, – «Nonna finalmente l'hai trovata!» – il suo dolore nel dover rivangare il passato – «Sì, era in soffitta con le cose vecchie». Questa stanza è peggio di una ghiacciaia, pensa mentre nella penombra cerca con i piedi i sabot, indossa il tricot, prende la coperta di crochet dal fondo del letto, la piega in due e copre Leone. Soltanto la nuca rimane scoperta. Malena lo osserva per controllare se respira attraverso i fori della coperta e solo quando è sicura che il suo petto si sollevi e si abbassi regolarmente, si allontana. Un bagliore bianco penetra dalla finestra del primo piano e disegna un cono di granelli di polvere sospesi che s'infrange al suo passaggio, sale la scala a pioli facendo attenzione a dove mette i piedi. Il freddo lassù è uno schiaffo in piena faccia, lo scrittoio scampato alla bufera di neve un balsamo per i suoi occhi torbidi come vino guasto. È l'alba, il villaggio a cui hanno dato nome Filia senza g, sta per aprire le palpebre, se non ci saranno notizie dal fronte stasera potrà dire «Un giorno uguale all'altro», e tirerà un sospiro di sollievo. Anche la Malalena, sotto gli strati di stoffa che ricoprono il suo corpo, ha un cuore che batte. Un pasto da mettere sotto i denti e un fascio di legna con la quale scaldarsi sono cose per le quali può rallegrarsi quando intorno a lei c'è chi lotta per salvarsi la pelle. Non credeva che la bocca spalancata nel mezzo del tetto potesse vomitare così tanta neve da formare una montagnola proprio al centro della stanza, alta fino a lambire il soffitto. Malena ha sgranato gli occhi quando se l'è trovata davanti, lo scrittoio è salvo, si è detta ma il suo sguardo ha indugiato, non è certa di voler andare fino in fondo. Guarda le sue mani, mani di bambina avvizzite come le mele vecchie che conserva in cantina fino a primavera inoltrata. La buccia diventa troppo dura per affondarci i denti ma, cotte sulla stufa e accompagnate da un tozzo di pane, di questi tempi se le fa piacere. |
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