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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP, ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo già formattato che per la copertina.
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Helena Karsen
Titolo: Il Tempo degli Altri
Genere Fantascienza
Lettori 326
Il Tempo degli Altri
Dall'enorme vetrata del mio attico, una New York scintillante e innaturale mi ipnotizza.
Le sue luci, fredde e grandiose, sembrano milioni di occhi che osservano in silenzio, indifferenti.
Sotto questo frammento di cielo sintetico, la città pulsa senza tregua, spinta dal ritmo disumano dei suoi abitanti, che continuano a vivere, o forse a sopravvivere, senza mai fermarsi.
Eppure, io, qui in alto, mi sento perso, angosciato, mi sento un'ombra che ha smarrito il senso del proprio riflesso.
Questa solitudine l'ho voluta, cercata, ma anche subita.
Sono sdraiato sulla mia poltrona preferita, un capolavoro tecnologico del terzo millennio che avvolge, culla, abbraccia... ma non riesce a placare il vuoto che porto dentro.
Le palpebre pesano come piombo, ma non desidero dormire ancora.
Attorno a me, l'appartamento è un santuario del progresso inarrestabile: una TV sospesa da un cavo trasparente, un sistema audio olografico che diffonde musica in ogni stanza.
Oggetti che non possiedono più alcun significato, reliquie di un futuro che non ha mantenuto le sue promesse.
Sorrido amaramente.
In questa giungla hi-tech, l'unica nota stonata è il mio letto: un semplice letto alla francese degli anni '70, con lenzuola di seta bianca ancora intatte.
Un cimelio che mi trascina indietro nel tempo, quando tutto era diverso.
Spesso non ci dormo.
Preferisco vegliare sulla mia poltrona, contemplando il mistero dello spazio e dell'universo... il mio universo.
Ma le mie notti sono popolate da un sogno ricorrente.
Un incubo che mi svuota, lasciandomi spossato e tremante: voci sconosciute mi gridano contro dal buio, sempre più vicine, sempre più forti, fino a sommergermi in un vortice senza fine.
Cerco di svegliarmi, ma le palpebre restano serrate come sigilli.
E poi, improvviso, arriva il silenzio.
Il cuore impazzisce, rimbomba nelle tempie, respiro l'aria come fosse solida, mi tocco, madido di sudore, consapevole di essere ancora vivo... per ora.
So che prima o poi non mi sveglierò più.
Questo incubo dura da così tanti anni che ho smesso di contarli.
Forse sono pazzo, o forse sto vivendo la vita di un altro, eppure il mio corpo mi manda segnali inequivocabili: ematomi, ecchimosi, formicolii che svaniscono misteriosamente dopo poche ore.
Si dice che i sogni ricorrenti siano il grido del cervello che stimola il corpo a reagire, ma quelle voci erano così reali che la mia mente ha vacillato più di una volta.
Forse ho urlato nel sonno. Forse no.
Sospiro.
Tra le mani stringo un volume enciclopedico, un tomo mastodontico firmato da un premio Nobel della Ricerca, ma nonostante le mie ricerche non ho avuto nessuna risposta.
Allungo il braccio verso il dispositivo olografico: il piccolo LED verde è ancora acceso, un invito silenzioso ad attivarlo.
Meglio distrarsi.
L'ologramma prende vita con un sibilo, come una lama che taglia l'aria.
Tre figure emergono dalla luce: volti perfetti, senza pori, senza difetti, sembrano statue animate.
“Trasmissione mondiale – canale 7. Argomento: Nanotecnologie e condizione umana, 2050–2060.
Accesso consentito. Livello utente: Residenziale Premium.”
Appare Ester White, con occhi di ghiaccio e un sorriso calibrato, accanto a lei, il dottor Chuang Ging, tecnico-economista, parla con una voce metallica, e infine Adam Sandler, filosofo, impeccabile come un manichino di lusso, con uno sguardo stanco che trapela dall'immagine perfetta.
ADAM SANDLER (olografico)
“Quello che vedete non sono io. È il modulo estetico preimpostato. La mia vera versione... non è presentabile.”
(Sogghigna. Lo sfondo cambia colore per enfatizzare la battuta.)
Una risata forzata riempie la stanza, prodotta dal sistema, non dai partecipanti. Un suono artificiale, troppo regolare.
ESTER WHITE
“Incredibile. L'umanità ha superato la fame, il clima, la morte... ma non l'ossessione per l'aspetto esteriore.”
DR. CHUANG GING
“La nanotecnologia replicante ha elevato la condizione umana...e minaccia di annientare il Sistema Globale di Sorveglianza. Nuove barriere di sicurezza saranno obbligatorie.”
Immagini scorrono dietro di loro: bambini che mangiano razioni sintetiche, corpi immersi in capsule criogeniche etichettate “Deanimati – in attesa di contratto”.
ESTER WHITE
“Psico-farmacologia cosmetica: estensione della vita garantita. Cento anni aggiuntivi per chi può permetterselo. Per gli altri... sospensione. Sospensione criogenica.”
ADAM SANDLER
“La vera domanda è: a cosa serve tutto questo? Non viviamo più, esistiamo in attesa del prossimo aggiornamento.”
La trasmissione accelera, i volti diventano scie di luce, le parole frammenti:
“Progresso – Sicurezza – Evoluzione – Contratto – Identità – Eternità – Sospensione – Sorveglianza.”
Sento il cuore rallentare, non è più un talk-show: è un mantra, una litania.
Un futuro che ripete sé stesso, vuoto, ipnotico.
Con un gesto spengo l'ologramma, sento le gambe pesanti, ho bisogno di muovermi.
In cucina bevo un bicchiere d'acqua e penso al passato.
C'è stata un'unica invenzione che abbia veramente amato, ormai obsoleta: il Catalogo Memonico, un archivio digitale dei ricordi che permette di rivivere l'esistenza in 3D inserendo semplici parole chiave.
Per me è vitale.
Ogni giorno, ogni notte, sento il bisogno di ricordarmi chi sono, di alimentare il desiderio di trascorrere ancora un altro giorno, perché il rischio di perdere me stesso è sempre in agguato.
Il tempo non ha più alcun senso, il presente è una farsa che si ripete, e il futuro, un fardello insopportabile.
Perché non la faccio finita?
Forse perché, in fondo, ho ancora nostalgia dei momenti felici, di quando è iniziato il mio calvario.
Mi chiamo Lucian Draemont, nato in Ohio da Emma e Orson Draemont.
Unico figlio.
Ho avuto un'infanzia serena, fatta di piccoli riti quotidiani e di un'educazione improntata alla curiosità: ricordo ancora l'odore della polvere nei musei che mio padre mi portava a visitare, le ore trascorse a osservare statue e dipinti come fossero enigmi da decifrare. La mia giovinezza fu altrettanto tranquilla, scandita dallo studio, dai libri sottolineati a margine e dal desiderio ostinato di comprendere la bellezza oltre la superficie delle cose.
La carriera lavorativa scorse lineare: avevo ottenuto una cattedra di Storia dell'Arte all'Università di Cleveland, e insegnare era sempre stato, per me, un atto di devozione, un modo per tramandare frammenti di eternità racchiusi in affreschi, tele e architetture. Vivevo come chi credeva di avere davanti a sé un futuro normale, fatto di scadenze, invecchiamento, memoria.
Poi, qualcosa si è spezzato.
Il mio corpo ha smesso di invecchiare inspiegabilmente.
Le rughe non si sono mai formate, i capelli non hanno mai perso il loro colore, e da più di un secolo rimango intrappolato nell'immagine di un eterno trentenne. Non so perché, né quale legge naturale o innaturale io abbia infranto.
Ho chiamato quell'istante “il Black-out”: un vuoto improvviso, un collasso interiore in cui la mia mente si è spenta, come se avessero premuto un interruttore invisibile. Ricordo soltanto il buio, il gelo che mi attraversava le ossa, e il ritorno improvviso della coscienza, diverso, distorto.
Mi hanno trovato riverso sul marciapiede, svenuto, come un uomo qualunque colpito da un malore. Nessuno avrebbe potuto immaginare che, da quell'attimo in avanti, la mia esistenza sarebbe diventata un incubo senza risveglio.
Da allora vivo sospeso: spettatore di un tempo che scorre senza lasciarmi addosso il suo peso, prigioniero di un corpo immobile e di una mente che invece accumula, si logora, e ogni anno aggiunge ricordi, dolori e rimpianti, che non sono visibili sul mio volto che resta immutabile, come fosse un inganno crudele.
La rabbia mi monta dentro, letale, e il mio istinto mi guida.
Ogni passo verso la vetrata è un respiro che trema, una vibrazione che percorre i nervi come un presagio.
Il vetro mi restituisce il riflesso del mio volto immobile, lo stesso da più di un secolo: un'ombra giovane con occhi stanchi, sovrapposta alle luci della città che pulsano, si frantumano, si ricompongono come spettri intrappolati in una superficie troppo fragile per contenerli.
Al di là, New York si dispiega come un labirinto liquido di neon e acciaio, un organismo vivo che respira attraverso i suoi grattacieli, con arterie di luce che scorrono senza tregua. È una città che non dorme mai, eppure sembra sonnecchiare sotto una coltre artificiale, un mare di lampi che nasconde più di quanto riveli.
Apro la vetrata, il vento irrompe con violenza, elettrico e sferzante, come se la notte stessa avesse deciso di reclamarmi.
Mi investe, mi avvolge, mi strattona con la ferocia di un abbraccio disperato; l'odore dell'ozono, del ferro e della pioggia che non arriva mai mi riempie i polmoni, lasciando un sapore metallico sulla lingua.
Sessanta piani più in basso, il traffico si muove lento, ordinato e distante, un mosaico di luci pulsanti che scivolano come vene incandescenti.
Da quassù, la città è un cuore che batte lontano, enorme, indifferente, e io non sono che un frammento dimenticato al margine della sua arteria più oscura.
Il sibilo del vento si insinua nelle giunture del palazzo, ulula come una lama invisibile che scava tra le ossa.
Mi sporgo.
Il vuoto mi chiama con voce carezzevole e crudele, e il cuore accelera, rimbomba nel petto come un tamburo tribale, che rammenta il ritmo di un sacrificio antico che mi invita a compiere il gesto definitivo.
Un salto, solo questo.
Un istante di coraggio e ogni domanda cesserebbe.
Eppure, ogni volta, qualcosa mi trattiene.
A volte è una memoria, un'immagine sfocata, un frammento di vita passata che si accende nella mente e mi costringe a indietreggiare.
Così come ogni volta, faccio un passo indietro, richiudo la vetrata con un colpo secco. Il rumore taglia l'aria come una lama, e il mondo intorno a me si placa, come se nulla fosse accaduto.
Ma io so.
So che quel gesto mancato non è una vittoria.
È solo una tregua.
Non sono pronto.
Non ancora.
Rimango lì, le mani ancora appoggiate sul vetro, a fissare il riflesso di un uomo che non cambia, prigioniero di un corpo eterno e di un'anima consumata.
E mi aggrappo al passato come a una rovina che frana, incapace di lasciarmi precipitare, incapace di smettere di sperare che, da qualche parte, esista ancora un senso.
Inserisco la parola chiave nel Catalogo Memonico: JANE.
Jane... quanto tempo è trascorso.
Solo con te ho sperato, solo con te ho vissuto davvero.
Anni indimenticabili, pieni di luce, prima che il futuro diventasse questo deserto.
Helena Karsen
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