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Writer Officina
Autore: Francesco Marino
Titolo: La lama maledetta
Genere Storico
Lettori 192
La lama maledetta
Storia di un cavaliere perduto.

Il vento era un lamento funebre incessante e lugubre attraverso le desolate brughiere di Oakhaven. Ogni folata di vento lacerava il mantello liso di Kaelen, un crudo riflesso dello stato lacerato del suo spirito. Un tempo, il suo nome era stato cantato nelle sale dell'idromele, un clamoroso richiamo al coraggio e all'incrollabile lealtà. Ora, era un sussurro, pronunciato con un misto di pietà e disprezzo, un fantasma del cavaliere che era stato. La vergogna, un marchio scarlatto impresso a fuoco nella sua anima, lo aveva cacciato dalle corti assolate e dai campi di battaglia ordinati, in questa spietata landa desolata. Era un esilio, non per decreto, ma per il peso schiacciante del suo fallimento. Il paesaggio rispecchiava il vuoto dentro di lui. Alberi frastagliati e scheletrici artigliavano un cielo perennemente livido. Il terreno, un arazzo di radici nodose e ostinata erica, non offriva alcun conforto, solo la promessa di un inciampo, una caduta, un ulteriore promemoria della sua fragilità. Ogni respiro era un doloroso promemoria di ciò che aveva perso: il rispetto dei suoi pari, la fiducia del suo re, l'immacolata lucentezza del suo onore. Il peso di quelle azioni passate, una legione fantasma di "se" e "se solo", lo opprimeva, un fardello fisico pesante quanto la spada che portava. Maelstrom. Persino il nome aveva il sapore della cenere sulla sua lingua. La lama leggendaria, forgiata in un crogiolo di rabbie dimenticate e vincolata da giuramenti di un'epoca più oscura, riposava nel fodero contro il suo fianco.
Era più che semplice acciaio; era una presenza palpabile, una compagna silenziosa e malevola che sembrava assorbire il magro calore dell'aria intorno a lui. Poteva percepirne l'aura gelida, un sottile ronzio che vibrava attraverso il cuoio e la cotta di maglia, un costante, insidioso promemoria del potere che racchiudeva e del prezzo che esigeva. Era un parassita aggrappato alla sua stessa essenza, isolandolo dal mondo che un tempo aveva giurato di proteggere. Immaginò la sua impugnatura, fredda e stranamente liscia sotto le sue dita coperte da guanti, un serpente arrotolato in attesa. L'aria intorno a lui sembrava più rarefatta, più fredda, come se la lama stessa stesse succhiando la vita stessa da ciò che lo circondava. Poteva quasi udire la sua silenziosa, antica risata, una presa in giro della sua antica, gloria.
Ricordava il giorno in cui il suo mondo era andato in frantumi. La battaglia era stata feroce, il nemico implacabile, ma non era stato il nemico a decretargli la rovina. Era stata una scelta, un momento di debolezza nato dalla paura e dalla disperazione, una decisione che lo aveva gettato in quell'abisso di vergogna. Aveva barattato la sua virtù per la sopravvivenza, la sua integrità per una vittoria fugace e vana. Il ricordo era un incubo ricorrente, vivido e viscerale, che si ripeteva con dettagli strazianti ogni volta che il vento della brughiera gli scompigliava i capelli sugli occhi o le ombre si allungavano, inghiottendo la scarsa luce. Vide di nuovo i volti disperati dei suoi uomini, gli occhi spalancati dall'incredulità mentre faceva la sua scelta fatale. Sentì le accuse, le grida di tradimento, il verdetto finale e schiacciante pronunciato non dal martelletto di un giudice, ma dal silenzio vuoto che seguì la sua confessione. Era un cavaliere caduto, non da cavallo nel calore della battaglia, ma dall'apice stesso della cavalleria. La sua armatura, un tempo lucidata fino a raggiungere una lucentezza accecante, era ora consumata e macchiata, e portava i segni del suo cammino travagliato. Il suo scudo, decorato con lo stemma della sua nobile casata, era rivolto verso l'interno, simbolo della sua riluttanza a mostrare il suo volto al mondo. Era un paria, una testimonianza vera e vivente della fragilità di virtù. I giorni si confondevano in un ciclo monotono di fame, freddo e il dolore lancinante del rimpianto. Viveva di radici scavate nella terra spietata e di acqua proveniente da pozze gelide e stagnanti. Il sonno gli offriva ben poco respiro, spesso disturbato da sogni frammentati della sua vita passata, visioni distorte dell'adulazione che un tempo riceveva, ora trasformate in scene di condanna. Si svegliava con un sussulto, il cuore che gli martellava contro le costole, il tocco fantasma dell'elsa di Maelstrom un freddo conforto contro la coscia. Sapeva, con una certezza tale che lo raggelò fino alle ossa, che Maelstrom era più di una semplice arma. Ne percepiva la presenza, un sottile ronzio sotto la pelle, un'influenza quasi impercettibile che sussurrava nei momenti di silenzio. Era un'entità senziente, un canale per antiche forze malevole rimaste dormienti per secoli, ora risvegliate dal suo tocco, dalla sua stessa vicinanza. Si nutriva della sua disperazione, della sua solitudine, della brace ardente della sua vergogna, diventando sempre più forte ogni giorno che passava. L'isolamento era il tormento più crudele. La brughiera non offriva compagnia, solo la vasta, indifferente distesa della natura.
Era completamente solo, tagliato fuori da ogni contatto umano, un esilio auto imposto. Non poteva affrontare un'altra anima, perché sapeva cosa avrebbero visto nei suoi occhi: il riflesso della sua stessa condanna. La vergogna era un sudario, spesso e soffocante, che gli impediva di cercare conforto o assoluzione. Eppure, persino in questo stato desolato, un barlume del vecchio cavaliere persisteva. Un ostinato rifiuto di arrendersi completamente, un profondo istinto di sopravvivenza, di resistenza.
Era questa volontà primordiale che lo teneva in movimento, gli faceva respirare, anche quando l'oscurità minacciava di consumarlo completamente. Era un cavaliere spezzato, che percorreva un cammino da lui stesso creato, prigioniero del suo passato e riluttante custode di un potere che prometteva salvezza e dannazione in egual misura. L'ombra della lama non era solo la spada stessa, ma l'oscurità che rappresentava, un'oscurità che era calata sulla sua vita, minacciando di spegnere le ultime vestigia della sua luce. Era la caduta in disgrazia di un cavaliere, un monito.
Si fermò, lo sguardo vagante verso l'orizzonte, dove il cielo grigio incontrava la terra desolata. Il silenzio era profondo, rotto solo dall'incessante ululato del vento. Era un silenzio che sembrava trattenere il respiro, in attesa. In attesa di cosa, non poteva esserne certo. Forse aspettava che finalmente soccombesse, che diventasse tutt'uno con la desolazione che lo circondava. O forse, solo forse, aspettava che lui sfoderasse Maelstrom, che abbracciasse il potere che lo stava lentamente, inesorabilmente, consumando. Strinse la presa sulle redini, il cuoio ruvido una sensazione familiare, seppur agghiacciante. Il cavallo, un robusto destriero dal mantello scuro che aveva acquisito dal tesoro di un bandito dimenticato, sbuffò nervosamente, percependo il disagio che irradiava dal suo cavaliere.
Il peso di Maelstrom era una presenza costante e palpabile, una realtà fredda e dura contro il suo fianco. L'aveva tenuta nel fodero da quel giorno fatale, il solo pensiero di estrarla di nuovo era un atto di terrore quasi insopportabile.
Eppure, sapeva che era una tentazione che prima o poi avrebbe dovuto affrontare. La lama sembrava sussurrargli persino nel fodero, un ronzio basso e risonante che vibrava non solo attraverso il suo corpo, ma attraverso la sua stessa anima. Era il richiamo di una sirena, una promessa di potere, la promessa della fine di quel vuoto che lo tormentava, ma Kaelen ne temeva il prezzo. Aveva già pagato troppo. Il suo onore, il suo nome, la sua stessa autostima: tutto era stato sacrificato sull'altare del suo errore passato. Ora, quella lama maledetta offriva un nuovo tipo di tentazione, un sentiero lastricato di promesse più oscure. Era un cavaliere caduto, alla deriva in un mare da lui stesso creato, con solo un compagno malevolo a fargli compagnia. L'ombra della lama era lunga, e stava solo iniziando a estendersi sul suo mondo in rovina. Strinse la presa sulle redini, il familiare dolore alla spalla un duro promemoria del peso costante che portava. Il suo cavallo si mosse sotto di lui, un tremito nervoso che riecheggiava quello nelle viscere di Kaelen. Il vento, una forza implacabile attraverso la brughiera arida, sembrava trasportare i sussurri del suo passato, ogni folata un'eco fantasma della sua vergogna. Era Sir Kaelen, un tempo un leone della Guardia Reale, ora un lupo solitario, spinto negli angoli desolati del regno da un singolo, catastrofico errore di giudizio. La macchia sul suo onore era un marchio che portava apertamente, un marchio di Caino che teneva a bada tutti tranne i più disperati o i più temerari.
Cavalcava, la sua postura era un esempio di stanca rassegnazione. La sua armatura, un tempo scintillante, era ora opaca e graffiata, con i segni del suo arduo viaggio e dell'incuria nata dalla disperazione. Il suo mantello, un tempo di lana pregiata, era ora liso e sfilacciato, a testimonianza delle dure condizioni atmosferiche che aveva sopportato e della mancanza di un vero riparo. Il suo volto, un tempo rasato e impostato con la sicurezza di un guerriero esperto, era ora oscurato da una barba che rifletteva la tristezza dei suoi occhi. Avevano uno sguardo tormentato, un perenne barlume di rimpianto e una profonda stanchezza che gli si insinuava nelle ossa.
Anche il paesaggio sembrava piangere con lui. Le brughiere si estendevano in una distesa infinita di toni tenui di marrone e grigio, una tela spoglia, priva di vita o di comfort. Alberi scheletrici, con i rami contorti e neri come dita artritiche, artigliavano un cielo perennemente coperto, le loro sagome si stagliavano contro le nuvole opprimenti e plumbee.
Il vento era un compagno costante, un grido lugubre e lamentoso che sembrava scavargli nell'anima, amplificando gli echi dei suoi fallimenti passati. Gli sferzava il mantello, gli tirava i capelli e portava con sé il freddo pungente delle terre del nord, un freddo che non aveva nulla a che fare con la temperatura ambiente e tutto a che fare con il ghiaccio che si era formato intorno al suo cuore. La leggendaria lama, Maelstrom, era pesante nel fodero, un peso freddo e inflessibile contro il suo fianco. Era una costante manifestazione fisica della sua disgrazia, un promemoria della scelta fatale che aveva irrevocabilmente cambiato il corso della sua vita. Aveva cercato di gettarla via, di lasciarla sepolta nella terra da cui era stata dissotterrata, ma aveva trovato il modo di tornare da lui, un legame silenzioso e malevolo che lo legava alla sua esistenza maledetta. Era più che acciaio e incantesimo; era un'entità senziente, una forza corruttrice che pulsava di un'energia antica e malevola. Poteva percepirne la presenza persino in quel momento, una sottile vibrazione che sembrava risuonare nelle sue ossa, un sussurro costante e insidioso che prometteva potere e oblio in egual misura. Era una compagna silenziosa e sgradita, un promemoria costante del precipizio su cui barcollava. La sua disgrazia era palpabile, un velo che lo avvolgeva, isolandolo dal mondo di cui un tempo aveva fatto parte. La vedeva riflessa negli sguardi spaventati dei pochi viaggiatori che incontrava, nella cauta distanza che mantenevano, nei sussurri sommessi che cessavano bruscamente al suo avvicinarsi. Era un paria, un reietto, un cavaliere caduto in disgrazia in modo così spettacolare che il ricordo stesso della sua antica gloria era ora fonte di dolore e vergogna. Il peso delle sue azioni passate, una battaglia dimenticata, un momento di disperata codardia, un tradimento della fiducia, gravava su di lui, un fardello invisibile più pesante di qualsiasi armatura. Era un cavaliere privato del suo scopo, dei suoi titoli, della sua reputazione, lasciato solo con la fredda e dura realtà del suo fallimento e la lama maledetta che era diventata sia il suo fardello che la sua unica compagna. Anelava ai giorni in cui il suo cammino fosse stato chiaro, il suo scopo definito, il suo onore indiscusso. Ma quei giorni erano finiti, persi nell'ombra della lama, e lui era rimasto a vagare in questo paesaggio desolato, un fantasma di se stesso, tormentato dagli echi di ciò che avrebbe potuto essere. La vastità della brughiera non offriva via di fuga, solo un'infinita distesa di desolazione che rispecchiava il vuoto dentro di lui. Era un uomo alla deriva, la sua vita.. relitto recuperato dalla tempesta da lui stesso provocata, con Maelstrom come unico, terribile artefatto del suo mondo perduto.
Il vento, pur essendo ancora una presenza lugubre, sembrava portare un timbro nuovo, una corrente sottile che si avvolgeva attorno ai pensieri di Kaelen come un serpente velenoso. Era in quei momenti di quiete, quando il vento pungente si riduceva a un semplice sospiro, che lo percepiva più acutamente: la presenza di Maelstrom. Non era il peso freddo e metallico del fodero contro il suo fianco, ma qualcosa di molto più insidioso, una risonanza che vibrava non nella sua carne, ma nel midollo delle sue ossa, un ronzio silenzioso che prometteva un'intimità profonda e terribile. Aveva cercato di ignorarlo, di seppellirlo sotto strati di auto recriminazione e il vuoto lancinante della sua fame. Ma Maelstrom non poteva essere ignorato. Era un predatore, e lui, la sua preda riluttante. Sedeva accanto a un piccolo fuoco, le fiamme che lambivano avidamente la legna umida, proiettando ombre distorte che danzavano con l'oscurità più profonda. Le rovine di una torre di guardia dimenticata dal tempo, offrivano un riparo insufficiente, le sue pietre sgretolate erano una testimonianza del passare del tempo e dell'inevitabile decadenza che reclamava ogni cosa. Fu lì, in mezzo a quel silenzioso decadimento, che i sussurri iniziarono, non come suoni udibili, ma come pensieri che fiorirono spontaneamente nel terreno fertile della sua disperazione.
Francesco Marino
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