|
Writer Officina Blog
|

Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
|
|
|
|
Conc. Letterario
|
|
Magazine
|
|
Blog Autori
|
|
Biblioteca New
|
|
Biblioteca Gen.
|
|
Biblioteca Top
|
|
Autori
|
|
Recensioni
|
|
Inser. Estratti
|
|
@ contatti
|
|
Policy Privacy
|
|
L'Essere Puro - Il Risveglio
|
Nel principio non c'era che il Silenzio. Un vuoto sacro, colmo di potenziale, gravido di possibilità. Da quel vuoto nacquero il Caos e, poi, l'Ordine. Con una sola parola, Dio creò la Luce e con essa, non solo il mondo naturale, ma anche quello soprannaturale.
Un regno nascosto, fatto di origini tanto benigne quanto oscure.
Miti, leggende, religioni: non solo frutti dell'immaginazione, ma riflessi di verità dimenticate.
Ogni generazione vede nascere un Prescelto. Una sola anima. L'Essere Puro.
Un empatico, discendente degli angeli, dotato del dono raro della mimica empatica: la capacità di assorbire e replicare i poteri di altri esseri soprannaturali. Il suo compito è uno solo: mantenere l'equilibrio tra il mondo visibile e quello invisibile.
Ma, secondo un'antica Profezia, un giorno nascerà l'Ultimo. Figlio del Destino e dell'Equilibrio. Con sangue angelico e demoniaco, sarà in grado di salvare... o distruggere tutto.
Questa storia ci porta a Napoli, città di luce e ombra, di fede e superstizione.
Qui comincia il cammino di Antonio Sorrentino, giovane studente ignaro del proprio destino. Tra scienza e magia, tra razionalità e istinto, tra solitudine e miracolo. Ma ogni dono ha un prezzo. E Antonio lo scoprirà lungo il cammino. Capitolo I Napoli, Settembre 2018 «Napoli è un casino. Un bellissimo casino. E io ci sono dentro fino al collo.»
Mi chiamo Antonio Sorrentino. Ho ventidue anni e una laurea triennale in Biologia. Dovrei essere entusiasta all'inizio di un nuovo percorso, la magistrale in Diagnostica Molecolare alla Federico II di Napoli, ma “entusiasmo” è una parola che ho smesso di usare da un po'. Sono alto circa un metro e settantaquattro, con capelli castano scuro e occhi tendenti al verde nocciola. Carnagione chiara, ma non pallida. Magro, non fragile. Non particolarmente muscoloso. Indosso sempre abiti casual, comodi e mai troppo vistosi. Porto gli occhiali, sono miope, ma almeno mi aiutano a vedere il mondo un po' meglio. Mi descrivono, ancora oggi, come “intellettuale”, ma in realtà sono solo gentile, molto introverso, e con un forte senso morale. Convivo con un'ansia che mi accompagna ovunque: mi preoccupo per tutto, fisso i dettagli, e a volte ho la sensazione che il mondo intero pesi sulle mie spalle.
La mia vita sociale? Quasi inesistente. Pochi amici, nessuna relazione sentimentale. Certo, scambio qualche parola con colleghi dell'università e del lavoro, ma nulla di più. E, per completare il quadro, sono ancora vergine. Non che mi importi più di tanto. L'amore mi interessa, ma... riguardo il sesso, ecco, sono piuttosto indifferente. Forse sono asessuale. O forse solo un po' incasinato. In ogni caso, mi va bene così.
Le mie vere passioni? La scienza, la mitologia... e le serie TV. Sono cresciuto guardando di tutto: teen drama, medical, fantasy. Ancora oggi mi piacciono. Forse troppo. Mi tengono compagnia, mi fanno sentire meno solo. Ogni tanto, mi chiedo: ci sarà mai, nella mia vita, un momento epico? Uno da colonna sonora drammatica e occhi che brillano? Porto sempre con me un rosario d'argento. Non per moda, ma per una fede che non si è mai spenta, anche se non sono praticante. Non vado in chiesa, ma a volte prego. Lo faccio la sera, per chiedere protezione... per le persone a cui mi affeziono. Per tenere viva una parte di me che non voglio perdere. Quella che spera, che ama, che crede ancora. A prima vista posso sembrare freddo, ma in realtà sono estremamente sensibile. Cerco sempre di dare il meglio di me agli altri. Tuttavia, la maggior parte del mio tempo lo passo da solo.
La vita mi ha tolto molto presto i miei genitori: un incidente, tre anni fa. Figlio unico. Rimasto solo. Ho imparato a cavarmela. Forse troppo bene. Per sopravvivere ho tre lavori part-time. Ogni tanto mi maledico per questo, ma quei soldi mi servono: affitto, tasse, cibo. Tutto grava su di me. Conciliare lavoro e studio non è mai stato facile. Ma, nonostante tutto, ho ottenuto la laurea e sto per iniziare un nuovo capitolo. Vivo nel centro storico di Napoli, tra via dei Tribunali e via Mezzocannone. L'appartamento è al terzo piano di un vecchio palazzo con balconcini in ferro battuto e muri spessi che profumano di storia. Scale in pietra, cortile interno pieno delle voci dei vicini. La casa è semplice, ordinata, come piace a me. Riflette la mia personalità introspettiva, la mia attenzione ai dettagli e il mio bisogno di equilibrio. Ogni cosa ha il suo posto. Una scrivania vicino alla finestra, con il mio laptop, penne, appunti e pile di libri: biologia, filosofia, religione, mitologia... e qualche romanzo. Un divano grigio scuro, una TV a schermo piatto. Una cucina piccola ma funzionale, anche se cucinare non è il mio forte. Un bagno semplice, un letto matrimoniale sobrio. Accanto, una libreria e qualche candela profumata. Il balcone affaccia sulla strada: motorini che sfrecciano, voci che si sovrappongono, luci tremolanti. Dall'altro lato, il balconcino guarda il cortile interno. Lì vive un ragazzo della mia età. I nostri balconi sono allineati. A volte lo vedo fissarmi. Non fa nulla per nasconderlo. Non ci siamo mai parlati. Ma qualcosa in lui mi colpisce. Sembra anche lui intrappolato in qualcosa. Non ci penso troppo. Mantengo il mio equilibrio e vado avanti.
La mia routine quotidiana è monotona, e la mia vita ruota attorno ai tre lavori: assistente di laboratorio la mattina all'università, barista al “Soul Silver” la sera, e commesso il sabato alla “Lumen Arcana”. In più, studio e lezioni. Ma il mio motto è sempre stato: Forza e Coraggio. Finora, mi ha sempre aiutato a superare ogni difficoltà. Napoli vibra in ogni angolo. È viva, pulsante. Motorini ovunque, urla nei vicoli, campane, e il mare che respira lento. Non dorme mai davvero. Profuma di caffè, di sale, di vita. Eppure, io mi sento un estraneo. Cammino tra la folla come se fossi invisibile. Come se guardassi il mondo da dietro un vetro che non si rompe mai. Da sei mesi faccio sogni strani. Mi sveglio con il cuore in gola. Nei sogni non corro: resto fermo, circondato da creature sconosciute. Occhi antichi, maligni. A volte angeli. A volte demoni. Come se dentro di me ci fosse una battaglia. Una frase continua a risuonarmi nella testa. Mi suona familiare, ma non ricordo da dove: “L'Ultimo, Figlio del Destino e dell'Equilibrio. L'Essere Puro di cuore.”
Mi alzai ansimando. Le lenzuola bagnate di sudore. Guardai l'orologio: 6:13. Andai in bagno. L'acqua fredda mi svegliò. Ma la sensazione di essere osservato non se ne andava. Era come se qualcosa fosse uscito dal sogno con me.
Mi guardai allo specchio.
“Ancora sogni strani, Antonio”, mormorai.
“Forse ho solo visto troppe puntate di Supernatural.”
Mentre camminavo per Napoli, ascoltavo la colonna sonora di Glee con gli auricolari. Conosco quasi tutte le 600 canzoni a memoria. A volte sfoglio vecchi libri di mitologia. Quella mattina, un passo su Prometeo mi colpì: il titano che rubò il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini. Non per potere. Per compassione. E per questo fu condannato.
“Essere puro...”, mormorai, chiudendo il libro.
C'era qualcosa di familiare in quella storia. Il fuoco come conoscenza. Come potere. Come maledizione. E mi chiesi: Anch'io, come Prometeo, sono destinato a portare nel mondo qualcosa che non mi appartiene? Un peso che, come una fiamma, potrebbe consumarmi? Mi sono sempre sentito diverso. Non speciale. Solo... fuori posto.
Un ragazzo qualunque. Ma con qualcosa che non si spegne mai del tutto.
Una luce. Un sorriso che spesso è solo una maschera.
La mia routine è fatta di microscopi, cocktail, e sabati tra scaffali polverosi.
Vivo, ma a metà. Sempre a corto d'aria.
E quel giorno... sentivo che qualcosa stava per cambiare. Una sensazione che cresceva come un presagio. Non sapevo cosa sarebbe successo, ma una parte di me era sicura che non sarebbe stato nulla di normale.
La mia vita stava per essere stravolta.
Spoiler: quel momento stava arrivando. E avrebbe cambiato tutto.
Capitolo II In genere, la sveglia suonava ogni giorno alle 6:30. Doccia rapida, colazione, poi via verso il laboratorio di Biologia Molecolare, dove lavoravo come assistente del professor Alberto Di Stefano. Camminavo a passo lento tra i vicoli del Corso Umberto I, ancora immersi nel chiaroscuro del mattino. I palazzi antichi, le botteghe ancora chiuse, i motorini parcheggiati in ogni angolo. Napoli sembrava osservare, silenziosa. Una città che conosceva il mistero, lo proteggeva, lo cullava nei suoi sotterranei.
L'università sembrava un castello grigio affacciato sul Vesuvio. Dentro le sue mura, io ero solo uno dei tanti topi da biblioteca, perso tra pile di appunti e il tanfo persistente di formaldeide. Eppure, quel luogo, così freddo e sterile, stava diventando la soglia verso qualcosa che non riuscivo ancora a spiegare. I miei studi, i miei sogni: tutto sembrava intrecciarsi. Il laboratorio era impregnato dell'odore di carta bagnata e reagenti chimici. Da due anni, le stesse azioni: provette, pipette, le mani si muovevano da sole, misurando liquidi e annotando dati. Guardavo spesso fuori dalla vetrata che dava sulla terrazza. Il panorama di Napoli, di giorno, aveva qualcosa di irreale. Un mondo che voleva ricordarmi che, là fuori, esisteva ancora qualcosa. Il professor Di Stefano era un uomo severo ma rispettato, Occhi verdi, sguardo tagliente. Non parlava molto, ma quando lo faceva, ogni parola aveva peso. Quella mattina, mentre ero immerso nel lavoro, la sua voce ruppe il silenzio.
«Antonio, come va?»
«Tutto nella norma. Le analisi sono regolari.»
Annuì, scrisse qualcosa su un foglio, poi aggiunse: «Hai sentito degli strani avvenimenti in città?»
«Cosa intende?»
«Ragazzi spariti nel nulla. Voci strane. Dicono che ci siano stati degli incidenti nel quartiere Sanità. Non sono cose da scienziato, ma... non è normale.»
Rimasi in silenzio. La mia mente razionale cercò di ignorare l'argomento, relegandolo in un angolo, mentre mi concentravo sul microscopio. Un mondo controllabile e comprensibile. Ma qualcosa dentro si agitava.
Più tardi, andai al Dipartimento di Biologia per seguire la lezione di genetica molecolare. Lì incontrai Roberta e Gabriele, i miei amici più stretti. Gli unici, forse.
Roberta Moretti: capelli castani lunghi, spesso raccolti; occhi chiari, pelle diafana. Corporatura minuta ma agile. Ironica, razionale, brillante. Era quella capace di spezzare le mie spirali di pensiero con una frase. Gabriele Perrone: atletico, capelli neri, barba incolta, occhi marrone scuro e pelle chiara. Sorriso pronto, spirito libero. Dietro l'ironia, però, nascondeva una fragilità che pochi vedevano. Io ero uno dei pochi con cui si apriva davvero.
«Ciao, ragazzi.»
«Hey, eccoti finalmente» disse Gabriele.
«Sei giusto in tempo per la lezione» aggiunse Roberta, lanciandomi un sorriso sarcastico.
Mentre mi sedevo, in fondo all'aula notai Miriam Castaldo. Solitaria, enigmatica. Pelle diafana, capelli ricci ramati, occhi castani profondi. Indossava abiti scuri, spesso decorati con simboli antichi: rune, pendenti, anelli. Mi dava l'impressione di essere una strega. Non avevamo mai parlato davvero. Ogni tanto qualche scambio di sguardi. Eppure... qualcosa in lei mi sembrava familiare. Durante la lezione, mi persi. Slide, parole sul genoma, cromosomi, geni. Poi, un'immagine lampeggiò nella mia mente: un cerchio, una stella a otto punte, due lupi intrecciati. Mi alzai di scatto, pallido.
«Tutto bene?» chiese Roberta.
«Ho solo bisogno di prendere aria.»
Mi rifugiai in bagno. Aprii il rubinetto, l'acqua scorreva fredda. Le mani tremavano. Il cuore correva senza motivo. Mi sentivo come un pupazzo con i fili spezzati. Sto impazzendo? Forse sì. O forse qualcosa, dentro di me, si stava svegliando. Qualcosa che non avevo mai voluto vedere.
Poi, di nuovo quel simbolo. L'avevo visto nei sogni. E inciso su un'antica lastra di pietra nei sotterranei di San Lorenzo, giorni fa. Ora lo vedevo... sul mio petto. Apparve e scomparve in un battito, lasciandomi il respiro mozzato. Che significa?
Tornai a casa, ancora scosso. E la sera andai al lavoro. Ogni volta che uscivo dall'università per andare al locale, avevo la sensazione di cambiare pelle. Dal mondo della logica a quello dell'istinto. Dai microscopi ai bicchieri appannati. Dal silenzio alle urla. Era come vivere due vite, ma senza appartenere davvero a nessuna delle due. Il Soul Silver si trovava a Vico della Pace, nei pressi di Piazza Bellini. Un locale notturno, un buco pieno di neon e ombre. Il proprietario, Vittorio Capuano, era un uomo arrogante e volgare, ossessionato dal profitto e dal controllo. Spesso faceva allusioni disgustose, cercando di spingermi verso “attività extra”, sostenendo che ero una risorsa “sprecata”. Ma non reagivo più. Restavo in ombra. “Dottore”, mi chiamava, con una punta di sarcasmo. Nessuno lo conosceva davvero. Mi misi il grembiule nero e, come ogni sera, prima di iniziare il mio turno, dissi il mio motto:
«Forza e Coraggio, si va in scena!»
Il locale pulsava. Musica, odori di alcol, sudore, luci intermittenti, corpi che danzavano. Lavoravo al bancone, cercando di nascondere la stanchezza dietro sorrisi accennati e gesti precisi. Tra le 23 e le 2, a volte fino alle 4, scivolavo in quel mondo artificiale.
Quella sera tutto cambiò.
Due nuovi clienti entrarono nel locale. Un uomo e una donna. Eleganti, magnetici. Occhi chiari, penetranti, pelle pallida. Si muovevano con una grazia irreale. Si sedettero a un tavolo. Li notai subito. Preparai i drink, mi tagliai con un bicchiere rotto. Una goccia di sangue cadde sul bancone. L'uomo mi fissò. I suoi occhi, per un istante, si accesero di rosso. Stava per alzarsi, come attirato da un istinto predatorio, ma la donna lo bloccò con una mano. Gli rivolse uno sguardo severo. Disse qualcosa, ma ero troppo lontano per sentire. Rimasi immobile, il cuore in gola. Non capivo. Lo sentii nelle ossa, nel sangue. La mia vita stava per cambiare. Capitolo III La notte al Soul Silver scorreva come sempre: luci stroboscopiche, risate, bicchieri e musica che martellava il petto. L'odore di alcol, sudore e fumo mi avvolgeva. Il locale, di venerdì, era pieno. Tutto proseguiva come al solito. Fuori, Napoli dormiva. Dentro, la notte vibrava. Ma io ero altrove.
Dietro il bancone, le mani si muovevano da sole: asciugavo i bicchieri, riempivo shaker. Vittorio, come ogni sera, sedeva nel suo angolo, circondato da luci soffuse e ragazze troppo giovani per lui. E poi loro. L'uomo e la donna. Sempre lì. Immobili. Occhi fissi su di me. Mi studiavano, come se volessero leggermi dentro, scrutarmi l'anima. Forse mi sbagliavo. Saranno state le luci al neon a far sembrare i suoi occhi rossi. Stavano lì da un'ora, ma non avevano ordinato nulla. Non parlavano. Osservavano. Lui: occhi verdi, capelli castano chiaro. Lei: capelli lunghi, nero come l'inchiostro, occhi azzurri. Entrambi pallidi. Bellissimi. E inquietanti. Abiti scuri, eleganti. Ma c'era altro. Qualcosa in loro che mi sembrava familiare. Li conoscevo. Ne ero certo. Solo... non ricordavo da dove.
Provai a ignorarli. Ma ogni volta che alzavo lo sguardo, trovavo i loro occhi ancora puntati su di me. Cercai di non pensare alla goccia di sangue caduta sul bancone poco prima, quando mi ero tagliato. L'uomo si alzò due volte, ma la donna lo fermava con un gesto. Bastava uno sguardo, e lui si sedeva di nuovo, in silenzio. Forse voleva solo ordinare un drink. Ma non si avvicinarono mai. Continuai a lavorare, ma il cuore batteva forte. Come se il mio corpo sapesse qualcosa che la mia mente non riusciva a spiegare.
Verso l'una e mezza, al picco della serata, sentii una voce alle mie spalle.
«Un gin tonic, grazie.» Mi voltai. Miriam. I suoi occhi sembravano ancora più profondi nella penombra. Indossava un abito nero e un lungo cappotto. I capelli ramati, raccolti in una pettinatura imperfetta, ricadevano sulle spalle. Un ciondolo a forma di chiave antica e un bracciale con una runa dorata.
Annuii. «Subito.» Cercai di mascherare lo stupore: non l'avevo mai vista lì prima.
Si avvicinò al bancone, si sedette, incrociò le gambe e mi guardò.
«Tu studi Biologia, giusto?» disse, con voce bassa ma decisa.
«Sì, esatto. Piacere.»
Le mani mi tremavano mentre preparavo il drink. Lei non distolse lo sguardo.
«Non pensavo frequentassi questo posto», dissi, versando il gin. «Di solito no. Ma stanotte... non riuscivo a dormire.» La sua voce era calma, ipnotica. «Non sembri proprio nel tuo elemento, qui dentro» osservò.
«Eppure è qui che passo metà delle mie notti.»
«E l'altra metà?»
«Cerco di non impazzire.» Miriam rise, un suono lieve. Quando le passai il bicchiere, le sue dita sfiorarono le mie. Un contatto breve, ma bastò. Una scossa, non fisica: emotiva, profonda. Percepii un'ondata di emozioni: malinconia, rabbia, paura, desiderio, colpa. Poi visioni: fiamme, un cerchio di sale, un lupo bianco che ululava alla luna. Una ferita mai chiusa. Poi il suo volto. Più giovane. Spaventata. Un urlo. Era come toccare un ricordo non mio.
Poi, il nulla.
Il bancone, le luci, il rumore: tutto si ovattò.
Ritornai in me. Il respiro mancava. Ritrassi la mano. Lei mi guardava ancora.
Poi una fila di neon esplose. Il bicchiere che avevo in mano si frantumò. Nessun sangue, stavolta. «Tutto bene? Hai un'aria strana» chiese.
«Sì...Ti rifaccio il drink. A volte mi perdo nei pensieri.»
«Tranquillo. L'importante è che non ti sei tagliato.»
Poi, più seria: «Strano posto, per un'anima inquieta come la tua.»
«Eppure anche tu sei qui.»
«Forse per lo stesso motivo. O per ragioni più antiche. Sarà l'effetto della luna piena. Attento: potresti incontrare un lupo mannaro.»
«Dei lupi a Napoli? Davvero?» Feci un sorriso.
«Sei proprio una strana persona.»
«Strana è una parola gentile.»
Mi guardò a lungo, poi abbassò lo sguardo e mi toccò la mano. Subito la ritrasse.
«Scusami. Devo andare. Devo svegliarmi presto. Grazie per la compagnia.»
«Di niente» dissi, servendo un altro cliente. Il cuore mi batteva ancora.
Prima di andarsene, Miriam si voltò verso i due sconosciuti. Li fissò a lungo. Occhi negli occhi. Nessun gesto. Solo uno scambio muto, carico di significato. Poi sparì tra la folla, dissolta tra le luci blu e il fumo.
Alle tre e mezza il locale si svuotò. Rimasi io a sistemare, fino alle quattro. Ultimo a uscire, come sempre. Grembiule sul bancone, luci spente, cappotto addosso.
Fuori, la strada era deserta. L'aria umida, fredda. La luna piena splendeva ancora.
Camminai per i vicoli del centro storico. Ombre lunghe, lampioni giallastri. Ululati in lontananza... Pensai a Miriam.
Affrettai il passo. Sentivo passi, sussurri, soffi dietro di me. Mi voltai. Niente. Ma qualcosa premeva alle mie spalle. Un peso invisibile.
Poi, due figure mi tagliarono la strada, emergendo dalle ombre sotto un lampione tremolante. Erano loro. L'uomo davanti, la donna dietro.
«Antonio, giusto?» disse lui, voce bassa ma decisa.
Non risposi. Feci un passo indietro. Lei lo raggiunse. Troppo vicini. Troppo silenziosi.
«Ci hai incuriositi», sussurrò lei. «Sai di essere diverso. Sai cosa siamo.»
Il cuore accelerò. Feci un altro passo indietro. Ma furono più veloci, come fulmini. Lui mi afferrò con forza innaturale, mi spinse contro il muro, mi sollevò e mi bloccò contro il muro. I loro volti si deformarono. Non più umani. Fronte marcata, sopracciglia sporgenti, occhi rossi, denti affilati. Demoniaci. Proprio come... come nella serie che guardavo da ragazzino: Buffy l'ammazzavampiri. Solo che questa volta non c'era nessuna Cacciatrice a salvarmi. E capì cosa fossero: Vampiri! «Voi empatici siete rari, soprattutto l'Essere Puro» disse lui. Ancora quella parola. «Abbiamo l'ordine di ucciderti. Il tuo sangue... è diverso» disse lei, sfiorandomi la guancia.
Un'ondata di emozioni mi travolse: fame, solitudine, rabbia, tristezza. Un eco di un'umanità perduta.
«Non so di cosa state parlando! Lasciatemi stare!» dissi, cercando di liberarmi.
L'uomo sorrise. Non era un sorriso umano.
Poi, affondò i canini nel mio collo. Un urlo mi esplose in gola, soffocato.
E allora vidi tutto. Un vortice di emozioni oscure: fame, rabbia, vuoto. E una voce. La sua. Dentro di lui qualcosa si accendeva. Un desiderio struggente di tornare vivo. Mi mancò il respiro. E mentre il sangue veniva succhiato, qualcosa cambiò dentro di lui. Lo percepii. Ribrezzo.
Il vampiro si irrigidì, emise un gemito. Si staccò di scatto, tossì. Urlò.
Li fissai. Avevo ancora addosso l'eco delle loro emozioni.
«Che diavolo?! Che cazzo sei?!» gridò. Si guardò la mano e cadde a terra in ginocchio.
«Porta un rosario, ecco perché ti senti male» disse la vampira.
«No... mi sento bruciare dall'interno» replicò.
«Allora avrà ingerito la verbena» aggiunse lei.
«No... è qualcosa di diverso. Mi brucia dentro, sento una purezza interiore. Luce. Ricordi... Sto cambiando» sibilò tremando. Gli occhi si fecero umani per un istante. Lacrime. Dolore vero.
Il mio sangue lo bruciava da dentro. Non era solo il rosario, che gli ustionò la mano, ma un dolore più profondo. Esistenziale. Una parte di lui, morta da un secolo, si stesse risvegliando a forza. Il suo volto tornava lentamente umano. «Sta risvegliando qualcosa! L'umanità... la sento! No! Cosa... cosa sei tu? Non puoi essere lui, è solo una leggenda» continuò a lamentarsi e tremò solo al pensiero di quello che disse. «No, non può essere. È impossibile» sibilò lei. «C'è potere, nel suo sangue. Non è umano. È qualcosa di più» con occhi dilatati e confusi.
«È il prescelto...» mormorò lui.
Lei lo raggiunse e lo afferrò con forza inumana. «Non è il momento. Non ora. Andiamo via. Torneremo.»
Mi guardò per un istante con un misto di rispetto e inquietudine.
Lo trascinò via nell'oscurità, veloci come ombre dissolte in una nebbia dispersa.
Caddi a terra. Chiusi gli occhi. Il respiro corto. Il cuore impazzito. Il sangue colava lento, ma non era solo debolezza quella che sentivo. Il mio corpo voleva spegnersi, ma la mente correva. Qualcosa in me si era risvegliato. Una consapevolezza primitiva, ancestrale. Come se ogni battito del cuore raccontasse una verità dimenticata. Vedevo volti che non conoscevo, simboli, parole in lingue antiche. Un nome sussurrato da mille voci. Il mio. Antonio. L'ultimo puro. Mi mancava il fiato. Le immagini si sbiadirono. Ma non il peso di quello che avevo appena vissuto.
Chi sono io? Cosa hanno risvegliato?
Ora sapevo, con certezza, che il mondo che credevo di conoscere era solo un velo sottile sopra qualcosa di molto più grande e pericoloso. Rimasi lì, tremante, con uno sguardo perso, la camicia sporca di sangue e il cuore che batteva impazzito. La ferita al collo pulsava. Il rosario annerito dondolava sul petto, ancora intatto. Poi nulla. Solo il suono del mio respiro e il sangue che stillava piano sul marciapiede. E sapevo, senza alcun dubbio, che il mondo non sarebbe mai più stato lo stesso.
Capitolo IV Il buio sembrava più denso, più solido. Barcollavo tra le vie vuote, il collo bruciava ancora, il sangue mi pulsava alle tempie. Ma non era solo il dolore fisico a tormentarmi. Dentro di me qualcosa si stava aprendo. Non era paura, non del tutto. Era come se un velo si fosse strappato e, dietro, qualcosa stesse guardando.
Scorrevano davanti agli occhi ricordi che non erano miei. Emozioni che non erano mie. Una sete antica, violenta. Un istinto che non mi apparteneva. Ma soprattutto, sentivo lui. Il vampiro. Le emozioni confuse che mi erano esplose dentro dopo il morso: rimpianto, vergogna, rabbia. E l'immagine di una madre che piangeva un figlio perduto. Non mia madre. Non il mio dolore. Mi accasciai contro un muro, il rosario d'argento ancora caldo al collo. Chiusi gli occhi. Tremavo.
«Cosa mi sta succedendo?» sussurrai.
Nessuna risposta. Solo il silenzio. E Napoli che sembrava osservare. Ancora una volta.
Il sole stava per sorgere quando spinsi la porta di casa con la spalla. Ogni passo era un'eco dolorosa. La testa pulsava. Il buio dell'appartamento mi accolse come un rifugio, ma non bastava a rassicurarmi. Mi trascinai fino al bagno.
Lo specchio rifletteva un'immagine che faticavo a riconoscere. Occhiaie marcate. Pelle innaturalmente pallida. Ma non era quello a sconvolgermi. Il morso... non c'era più. Pelle liscia. Intatta. Come se tutto fosse stato solo un'allucinazione.
Ma io ricordavo. Il fuoco. La sete. Quella cosa dentro.
Mi sciacquai il viso con acqua gelida, sperando di svegliarmi da quell'incubo. L'odore del sapone mi arrivò troppo forte. Nauseante. Tossii, aggrappandomi al lavandino.
Poi sentii qualcosa. Non un suono. Un pensiero? “Non dire così a tua madre!”
Una voce nella mia testa. Ma non era mia. Come un pensiero rubato. Qualcuno stava parlando... altrove.
Mi guardai intorno, tremando. Era come se la pelle non fosse più una barriera. Come se il mondo mi attraversasse.
Mi lasciai cadere sul divano, ancora vestito con i resti stropicciati della notte. Il collo bruciava. Ma più in profondità. Provai a dormire. Almeno un po'.
Lo feci. Ma non fu riposo. Solo incubi.
Sogni confusi, fatti di vetro e sangue, volti sconosciuti, occhi rossi che scrutavano nel buio, dentro di me. Mi svegliai tre o quattro volte, sempre con il fiato corto. Alle nove squillò il telefono. La suoneria mi trapassò il cranio.
«Pronto?» risposi con voce impastata.
«Antonio?» Era Roberta.
«Sì, sono sveglio... più o meno.»
«Hai la voce di uno risorto da poco.»
In sottofondo una risata bassa, quasi trattenuta. Gabriele.
«Volevamo sapere se oggi pomeriggio ti andava un aperitivo in piazza Dante. Pensavamo anche di parlare un po' del piano di studi, organizzarci per gli esami.»
«Ah... ok. Sì, posso.»
«Perfetto. Tipo alle cinque?»
«Ci vediamo lì.»
Riattaccai senza aggiungere altro. Mi alzai. Avevo ancora addosso la puzza della strada, dei vicoli, del sangue. Mi tolsi la camicia, i jeans. Macchie secche di non-so-cosa.
Andai verso la camera. Passando davanti al balcone, alzai lo sguardo. E lui era lì. Il ragazzo del balcone. Seduto come sempre. Una sigaretta tra le dita. Occhi scuri fissi su di me. Non si scompose. Non fece cenno. Io nemmeno. Troppo stanco per reagire. Troppo stanco per capire.
Mi vestii in fretta. Era sabato, il che significava una cosa sola: turno alla Lumen Arcana. La libreria si trovava nei pressi di San Domenico Maggiore. Era gestita dalla coppia anziana Elda Ravelli e Samuele De Martino. Mi trattavano quasi un nipote: non avevano avuto figli e da oltre quarant'anni custodivano quel luogo come un tempio. Lei era un'ex docente di lettere classiche, appassionata di filosofia ermetica ed esoterismo. Appariva austera, ma era gentile e autorevole. Lui, invece, era un amante dei libri di ogni genere, perfino manga e tarocchi. Ironico, un po' cinico, ma di buon cuore. Tra gli scaffali, una sezione era dedicata al soprannaturale, al folklore, alla magia... e perfino alla Bibbia.
Un lavoro che mi piaceva. Se non ci fosse stato molto da fare, avrei potuto approfittarne per studiare. La libreria profumava di carta antica, incenso e legno consumato. Un luogo fuori dal tempo.
Elda mi scrutò sopra gli occhiali, con il suo mezzo sorriso da inquisitrice gentile.
«Hai l'aspetto di uno che ha combattuto un demone stanotte, Antonio.» «Quasi...» Mi lanciò un'occhiata ironica, poi tornò a ordinare un mucchio di volumi sulla letteratura ermetica.
Samuele, invece, mi lanciò una caramella mou.
«Tieni. Ti serve zucchero nel sangue.»
«Ne ho fin troppo.»
«Eh?» fece lui, accennando un sorriso.
«Niente.» Sorrisi, incassando il dolcetto.
Tra uno scaffale e l'altro, mentre cercavo un libro prenotato, lo vidi.
Nascosto tra due volumi di Cabala e alchimia, sporgeva un libro nero che sembrava assorbire la luce. Rilegato a mano. Nessun titolo, nessun autore. Lo tirai fuori. Pesava molto più del previsto. Lo aprii lentamente.
Le pagine erano scritte in una lingua antica, forse latino, ma distorta. Tra i simboli, un nome in italiano si ripeteva più volte:
“L'Essere Puro”
E subito sotto, un'altra frase inquietante: “Profezia del Sangue” La pelle del braccio si accapponò. Le lettere sembravano ondeggiare, non per stanchezza mia. Era come se il libro stesse respirando. Sentii un brivido lungo la schiena, lo chiusi di scatto.
In quel momento la porta della libreria si aprì.
Era Miriam. Jeans neri, maglia verde, capelli sciolti.
«Antonio.»
«Miriam?»
«Lavori anche qui? Ormai sei dappertutto.»
«Multitasking. E tu?»
«Passo qui spesso per comprare dei libri. Ma... stai bene? Sei pallidissimo.»
«Dormito troppo poco.»
Notò il libro nero tra le mie mani. E cambiò espressione. Seria, quasi solenne.
«Che libro è quello?» disse.
«Non lo so, è un volume strano. Nessun codice, mai visto prima.»
Lei sorrise. Ma nei suoi occhi c'era qualcosa di teso. «Alcuni libri compaiono quando vogliono essere trovati», disse. Poi aggiunse: «Attento. Certi saperi scelgono il lettore. E non è sempre un bene.»
E si voltò, andandosene senza aggiungere altro.
Rimasi a fissare la porta della libreria, il libro ancora tra le mie mani. Sembrava pulsare. Decisi di portarlo a casa per leggerlo con calma. Lo infilai nello zaino.
Sentii un rumore dalla finestra. Non c'era nessuno. Ma sentivo quella presenza. Come se occhi invisibili, immobili dietro il vetro, aspettassero solo che li notassi. Capitolo V Alle cinque mi recai a piazza Dante per l'aperitivo con i miei amici.
Roberta era già lì, sorridente. Gabriele sorseggiava un Negroni e raccontava una storia improbabile successa a via Chiaia mentre lei rideva. Poi parlavano di esami, dei crediti che mancavano, di un nuovo professore, feroce come un esaminatore dell'Inquisizione. Io annuivo. Ma intanto... Sentivo i loro battiti accelerare. E, soprattutto, le loro emozioni: ansia, gioia, disagio. Involontariamente, stavo violando la loro privacy emotiva. Ma al tempo stesso, stavo comprendendo le loro sensazioni e i lati più nascosti del loro essere. Sotto la sua allegria, Gabriele covava un'insicurezza silenziosa, come se non fosse mai davvero all'altezza, nemmeno ai propri occhi. Roberta sembrava più distante del solito. Ma dentro di lei c'era qualcosa di doloroso. Come un vuoto. Poi, alle nostre spalle, una voce.
«Ehi, ragazzi.»
Luca Vetrano. Aveva 25 anni. Capelli corti neri e ordinati, pelle chiara, mascella scolpita. Fisico atletico, tatuaggi vistosi, volto da bravo ragazzo. Indossava una camicia nera, maniche rimboccate, e jeans costosi. Il sorriso era perfetto. Ma freddo come il marmo. Era da un anno e mezzo che stava con Roberta. Ma non mi è mai piaciuto, ho sempre avuto una brutta sensazione nei suoi confronti. Quando mi guardò, sentii qualcosa di sbagliato. Non solo rabbia. Controllo. Possesso. Il suo braccio avvolse Roberta con apparente naturalezza, ma sotto quel gesto c'era una tensione palpabile, una stretta più simile a una catena che a un abbraccio. Come un serpente che si attorciglia alla sua preda fingendo una carezza. Roberta non lo mostrava, ma sentivo che era a disagio, non era felice del suo arrivo. «Ciao ragazzi, come va?» domandò.
Io e Gabriele gli stringemmo la mano, una stretta potente.
«Wow Antonio stai iniziando a fare palestra? Questa sì che è una bella stretta di mano» disse.
«Ah sì, non mi sono reso conto di avere tutta questa forza» replicai.
Dopo l'attacco di ieri sera, in effetti, mi sentivo più forte e sensi più sviluppati rispetto a stamattina.
Poi lui si rivolse a Gabriele.
«Gabriele, e tu? Con le ragazze come procede? Stai rimorchiando?» disse con un sorriso beffardo.
«Beh ci provo» rispose imbarazzato.
«Questo dipende da te, anzi da voi» disse, rivolgendosi a entrambi con un sorriso.
Quel sorriso... ma sotto, il gelo. I suoi pensieri erano un vortice d'acqua scura. In seguito, Luca e Roberta si allontanarono e poco dopo anch'io e Gabriele tornammo nei nostri appartamenti.
La sera, a casa, mi feci una doccia calda e accesi una candela. Non so perché. Ma in quel momento sembrava giusto. Mi misi una tuta comoda e presi in mano il libro nero. Provai a leggerlo, ma era scritto in una lingua antica e, quella sera, non avevo le forze per affrontare un simile enigma. Così decisi di accendere la tv e iniziare a guardare una puntata di The Big Bang Theory, giusto per rilassarmi e distrarmi dagli ultimi avvenimenti. Ma mentre mi dirigevo in stanza a mettermi un pigiama, percepii delle emozioni che stavano arrivando. Bussarono alla porta. Tre volte. Chi poteva essere a quell'ora?
Aprii con cautela e me lo trovai davanti. Lui. Il vampiro che mi ha aggredito la scorsa notte. Dietro, c'era anche la vampira.
«Hey, ragazzino... Come va? Ci fai entrare per favore?»
Avvertii una strana consapevolezza. Quella visita era solo il preludio. Lo sentivo nella carne, come un brivido antico. E non ero pronto.
Capitolo VI Rimasero fermi sulla soglia, come statue in attesa di un segnale. Il vampiro mi fissava con occhi che sembravano capaci di leggere attraverso la pelle, ma che contenevano un'ombra diversa dalla notte precedente. Più umana. Più dolente.
Accanto a lui, la vampira, alta, occhi chiari come vetro, capelli raccolti in una treccia nera, era silenziosa. Eppure, la sua presenza era altrettanto intensa. Era come se contenesse un tumulto che si sforzava di tenere nascosto.
«Non possiamo entrare se non ci inviti», disse lui, con un tono neutro ma carico di significato.
Mi resi conto che la scelta era mia. Potevo chiudere quella porta e fingere che il mondo restasse normale. Ma non lo era più, e io lo sapevo. E poi... qualcosa nel suo sguardo mi parlava. Come se una parte di lui fosse ancora umana. Forse la stessa parte che si era risvegliata in me. Sentivo... sincerità e senso di colpa. Annuii lentamente.
«Entrate.»
Fu come rompere un sigillo. L'aria nella stanza cambiò. L'energia si fece più densa. Passarono accanto a me con un passo felpato, rispettoso. Non c'erano minacce, solo tensione. Una strana, sottile attesa. Ancora una volta, sentivo le loro emozioni. Lui appariva carismatico ma tormentato, quasi paterno o guida incerta. Lei, invece, più istintiva ma fragile, con un dolore irrisolto che si avvertiva tra le righe.
Si sedettero. Io rimasi in piedi, come se avessi bisogno di dominare almeno una parte della situazione.
«Mi chiamo Aidan Ethan Peirce», iniziò lui. «E lei è Irenina Velkova. Ma tutti la chiamano Nina.»
Nina mi rivolse un sorriso appena accennato, ma nei suoi occhi c'era una malinconia glaciale.
«So chi sei, Antonio», continuò Aidan. «O almeno, so quello che stai diventando. Mi... ci dispiace per averti attaccato la notte scorsa.»
«Non capisco. Perché io? Cosa mi avete fatto?»
«Quello che ti è successo non è colpa tua», disse Nina, con voce morbida ma ferma. «E nemmeno nostra.»
Aidan prese la parola. «Tu sei... qualcosa di raro e unico. Qualcosa che fino a poco tempo era solo una leggenda o perfino un mito. Le cronache lo chiamano l'Essere Puro. Ma noi non sappiamo tutto. Nessuno lo sa. Le profezie sono state spezzate, smembrate e nascoste. Ogni fazione del mondo soprannaturale, e altre ancora, ne custodisce solo frammenti.» Fece una pausa, poi aggiunse, con voce più bassa: «Si dice che un tempo formassero un'unica verità, ma ora sono come vetri rotti. Nessuno vede il tutto. Solo tu potresti unirli.»
Sospirai, cercando di tenere il controllo. «E quindi cosa volete da me?»
«Capire», disse Aidan. «Capire se sei davvero ciò che crediamo. E soprattutto... aiutarti, se sei disposto a fidarti.»
«Perché dovrei? Dopo quello che mi avete fatto?»
«Perché anche lui è cambiato», disse Nina. E poi aggiunse, abbassando lo sguardo: «Da quando ha assaggiato il tuo sangue, ha... ricominciato a sentire. Rabbia, dolore. Ma anche empatia. Rimorso. Sentimenti umani.»
«Per un attimo ho ricordato com'era piangere. Non lo facevo da un secolo» disse Aidan.
Restai in silenzio. Poi Nina continuò il discorso.
«Siamo stati mandati dal nostro Sire, che comanda il nostro clan, per ucciderti. Ma le cose sono cambiate. Ti chiedo se... potrei bere anch'io il tuo sangue, per riavere la mia umanità» disse lei con aria malinconica, quasi come se mi stesse pregando di aiutarla.
Il cuore mi batteva forte, ma non solo per paura. Era tutto troppo, troppo veloce, troppo intenso. Eppure, non mi sentivo sopraffatto. Da quella notte, i colori erano più intensi, i suoni più taglienti. E ora, in loro presenza, i battiti degli altri mi attraversavano come se fossero i miei. «So che sei spaventato, lo sento. Si vede che sei troppo buono e gentile per vivere in questo mondo» disse lui alzandosi e cercando di toccarmi una guancia. Ma feci un passo indietro, non volevo che mi toccasse.
«Sei anche troppo giovane e ingenuo. Vedi il bene delle persone dappertutto, quasi non conosci il male» aggiunse lei.
«E questo che rende l'Essere Puro diverso. Sei ancora integro, non contaminato. Il cuore prima dell'anima» rispose lui.
Non riuscivo a capire. Mi sembrava ancora tutto troppo strano. Non credevo che potesse essere vero. Finora l'avevo solo immaginato e visto nella mia lunga lista di serie tv. Era troppo surreale. Poi Aidan continuò ancora:
«Sai che non ti stiamo mentendo. Lo percepisci.»
In effetti, aveva ragione. Sentivo le loro emozioni: erano dispiaciuti e sinceri. Non potevano mentirmi.
Per un attimo i nostri occhi si incrociarono, i miei e quelli di Nina. E sentii come se mi vedesse davvero. Non come un Essere Puro. Come persona. E qualcosa in me rispose. Non era attrazione. Era riconoscimento. Quindi feci una decisione che avrebbe portato a creare un legame. Un'alleanza. O qualcosa di più profondo.
«Va bene. Non so perché... ma mi fido. Nina, ti concedo il mio sangue» dissi, con tono calmo e rassicurante. Nina spalancò gli occhi. Per un istante sembrò sul punto di piangere, ma si trattenne.
Le porsi il braccio, incerto. Lei si avvicinò piano, come se avesse paura di spezzarmi. Non era paura. Era qualcosa di più antico. Di più profondo. E di assolutamente vivo. Capitolo VII Nina si avvicinò con passo esitante. I suoi occhi tremavano più delle mani. Non c'era fame, non più. C'era qualcosa di più simile a una supplica, un bisogno fragile e disperato. Annuii appena, e lei prese il mio braccio con delicatezza, come se avesse paura di rompermi. Sfiorò con le labbra la mia pelle. Un brivido attraversò entrambi. Poi morse. Non sentii dolore. Solo un fremito strano. Come se una parte di me fluisse via senza opporsi. Era un gesto intimo, silenzioso, eppure sacro.
Poi, iniziò a tremare, non per la sete, ma per il peso di un cuore che tornava a battere dopo decenni di silenzio. Il suo respiro si spezzò. Si scostò di colpo, barcollando all'indietro come se avesse toccato il fuoco. Cadde in ginocchio. Anche lei, come Aidan prima, si sentiva bruciare dall'interno. Le tornarono i ricordi e le immagini della sua vita umana. «Mio Dio...» mormorò. Le lacrime le scorrevano copiose, silenziose. Si portò le mani al viso. «Non ricordavo... quanto facesse male provare di nuovo. Non sentivo il mio cuore da mezzo secolo.»
Aidan le si avvicinò per sorreggerla. Non disse nulla. La guardava come si guarda qualcosa di sacro che torna alla vita.
Io invece, mi toccai il braccio. La ferita non c'era più. La pelle era liscia, intatta. Perfetta.
«Ma...» sussurrai. «È... sparita.»
Mi toccai la zona e dissi: «Non fa male. Per niente.» «Hai guarito in pochi secondi», disse Aidan, fissandomi con uno sguardo a metà tra l'ammirazione e la paura. «Hai acquisito la nostra abilità di guarigione istantanea.»
Mi sentii strano. Il cuore batteva ancora, sì, ma era come se ogni battito risuonasse più forte. Ogni cosa vibrava, viva, nitida. Sentii... un rumore. No, un sussurro. Proveniva dal piano di sopra. Una voce. Una donna, anziana, che parlava nel sonno. La vicina. Potevo sentirla. «Antonio?» mormorò Nina, sollevando lo sguardo. I suoi occhi erano diversi. Umidi, vivi, colmi di gratitudine.
Poi tutto accadde in un attimo. Sfiorai il bordo della sedia per tenermi in equilibrio. La sedia si spezzò come se fosse fatta di cartone. Indietreggiai, spaventato. Il mondo attorno a me sembrava assordante. Il ticchettio dell'orologio mi rimbombava in testa, il profumo del legno bagnato fuori dalla finestra mi graffiava il naso. Ogni cosa era... troppo. «I tuoi sensi si stanno affinando», disse Aidan, a bassa voce. «Oltre ai tuoi poteri empatici, stai ottenendo anche le nostre abilità vampiriche.»
Stavo per chiedere cosa significasse, quando qualcuno bussò. Tre colpi, secchi. Poi altri due, veloci. Ci fu un silenzio. Nina si voltò di scatto. Aidan si irrigidì e fece un solo passo verso la porta.
«Aspetta», dissi. Il mio cuore sembrava riconoscere chi era, ancora prima della mente. Corsi ad aprire. Davanti a me c'era lei. Miriam. Vestita di nero, stivali alti, i suoi lunghi capelli ricci ramati raccolti in una coda disordinata. Gli occhi scuri sembravano brillare nel buio dell'ingresso. Mi scrutò. Non sorrideva, ma nei suoi occhi brillava un lampo di sollievo. Era calma, ma notai una scintilla di qualcosa che non avevo ancora visto. «Stai bene.» Una constatazione, non una domanda.
Poi, con tono tagliente, indicando i due vampiri: «Che ci fanno loro qui?»
«Non è come pensi, Miriam.»
«Ah no? Hai idea di cosa sono quei due?» Era sulla soglia del mio appartamento ma entrò senza chiedere il permesso, come se conoscesse ogni angolo della casa. Lo sguardo passò rapido su Nina e Aidan. «Due vampiri nel tuo salotto. Sei in pericolo, stai indietro.» Aidan fece un passo avanti. Nina era ancora scossa per l'ondata di emozione che stava subendo. Miriam si voltò verso di lui, lo guardò con uno sguardo carico di avvertimenti. La tensione si fece quasi insostenibile.
«Strega», disse Aidan, con voce gelida.
«Sanguinario», ribatté Miriam, senza battere ciglio.
«Basta!» gridai. «Non ho idea di cosa stia succedendo, ma se avete tutti un pezzo di questa storia, allora smettetela di guardarvi come nemici. O andatevene tutti.» Silenzio. Si interruppe, come se stessi percependo qualcosa.
Qualcosa si spezzò nell'aria. Non in me. Fuori. La mia energia emotiva spostò anche i mobili della casa. Un lampadario oscillò. Le sedie si mossero. Li avevo toccati... con la mia rabbia. Avevo scoperto anche di possedere la telecinesi. Poi mi rivolsi a Miriam.
«Sei una strega», dissi, senza pensarci. Non me lo aveva detto. Ma la sua aura... era come scritta nell'aria stessa.
Lei annuì. «Non sono i soli ad aver notato il tuo risveglio. Non sono qui per minacciarti. Ma proteggerti e non ti devi fidare di loro.»
Guardai Aidan e Nina e poi mi voltai per parlare con Miriam.
«Cerchiamo di ragionare e discutere come persone civili. Ora tu mi spieghi che ci fai qui e mi racconti tutto ciò che sai su questa dannata profezia che mi perseguita» dissi, quasi esasperato ma deciso a sapere una parte di verità.
Miriam sospirò. «Parliamone», e con un incantesimo riparò la sedia che avevo distrutto prima.
Aidan fece un passo indietro. Nina si riprese e si alzò e guardò fissa Miriam, come per dire: “Va bene. Solo per ora.”
Ci sedemmo tutti. E fu in quel momento che sentii qualcosa. Non dentro di me. Non nelle mie vene. Ma nell'aria stessa. Come se il tempo avesse trattenuto il respiro. E stesse aspettando che qualcuno pronunciasse la prossima verità.
Capitolo VIII Ci fu un lungo silenzio prima che qualcuno parlasse. Miriam fissò Aidan e Nina, seduta diritta, il busto immobile come una statua scolpita nel buio. Il tavolo tra di noi sembrava diventato un confine sottile tra mondi antichi e segreti. Per alleviare la tensione, preparai qualcosa da mangiare e dell'acqua, dato che erano quasi le undici di sera e io non avevo ancora cenato. Rimasi sorpreso nel vedere quanto Aidan e Nina fossero meravigliati dal piatto che avevo preparato. Scoprii che i vampiri non mangiavano né bevevano, se non sangue. Ma, avendo risvegliato la loro umanità, potevano cibarsi e bere a proprio piacimento. La sensazione di bere sangue si era affievolita, anche se restava necessaria per rimanere in forze. Poi, finalmente, Miriam decise di parlare. Aveva con sé un piccolo quaderno e una sacca di stoffa. Ci sedemmo in soggiorno. Lei mise un libro antico sul tavolo e iniziò a raccontare, parlando anche di sé: chi fosse e, soprattutto, cosa fosse, mostrandoci disegni antichi.
«Ti dirò la verità... Io sono una strega. O, meglio, una Wiccan.»
La guardai incredulo. Non me l'aspettavo. L'avevo sempre immaginata una strega per lo stile e i modi che aveva, ma mai che lo fosse davvero. Lei proseguì il suo discorso, mostrando diversi disegni antichi sul suo libro.
«Discendi dagli Empatici», disse Miriam, sfogliando lentamente il libro. «Sono esseri sensitivi. Possono percepire le emozioni degli altri, viverle sulla propria pelle.»
Fece una pausa. Io la guardavo, immobile.
«Si dice che questo dono fu donato dagli angeli. Non per guerra, ma per compassione.»
Deglutii. «In ogni generazione nasce un Empatico più potente degli altri. L'Essere Puro.» |
Votazione per
|
|
WriterGoldOfficina
|
|
Biblioteca

|
Acquista

|
Preferenze
|
Recensione
|
Contatto
|
|
|
|
|