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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Il lecchino italiano
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Satira del potere e del servilismo.
In ogni famiglia italiana che si rispetti, c'è almeno uno zio Carmine. Non si chiama sempre Carmine, ovviamente: a volte è un Gino, un Tonino o un Pasquale. Ma la sostanza non cambia. E' quello che ha trovato il "posto buono", quello che da trent'anni timbra il cartellino alle otto e un quarto e alle otto e venti è già al bar con la brioche in mano e la Gazzetta aperta. Zio Carmine lavora, si fa per dire, in un ufficio comunale. Nessuno ha mai capito esattamente quale. Ogni volta che un nipote curioso gli chiede cosa faccia, lui risponde con la stessa frase, scolpita nel marmo della mediocrità: "Eh, nipote mio...io mi occupo di pratiche!". Quali pratiche, nessuno l'ha mai scoperto. Forse non esistono. Ma zio Carmine è un sopravvissuto, un veterano dell'arte più antica del Bel Paese: l'arte dell'arrangiarsi. Quando nel concorso per il suo posto c'erano cento candidati, lui era il numero cento e uno: non si era nemmeno presentato, ma un cognato in Comune e un cugino nel partito giusto, avevano pensato a tutto. Il merito? Un dettaglio burocratico, dissero!. La parentela, invece, quella si che è un titolo ufficiale. Nel suo armadietto, accanto alla moka e alle tazzine sbeccate, tiene incorniciata la foto di un giovane politico degli anni '90, il suo fedelissimo "padrino lavorativo". Sotto, una targhetta fatta a mano con la dicitura..."A Carmine, per la dedizione al nulla". In Italia, il posto fisso non è semplicemente un contratto di lavoro: è uno status esistenziale. È la linea d'arrivo di una maratona familiare durata generazioni, la promessa implicita che "se studi o meglio, se conosci qualcuno, non finirai mai male". Nella memoria collettiva, il posto fisso ha assunto i contorni di una piccola salvezza domestica: non importa quanto si guadagni, l'importante è "stare dentro". Dentro l'ufficio pubblico, dentro la struttura, dentro il sistema che protegge, assolve e dimentica. Zio carmine è il simbolo di questa Italia. Non è un individuo, ma una categoria antropologica. È l'impiegato che non ha mai vinto un concorso ma lo ha "meritato" per diritto di parentela. È il funzionario che conosce più le genealogie politiche che i regolamenti, è il servo fedele di un potere locale che lo tollera, lo premia e lo perpetua. Il suo talento principale non è la competenza, ma la devozione. Devozione al capo, al partito, al cugino consigliere, al sindaco che l'ha "messo dentro". In cambio, zio Carmine non crea problemi, non fa domande, non pretende riconoscimenti. La sua presenza è silenziosa, inoffensiva, ma costante. E' l'incarnazione perfetta dell'uomo di fiducia: mediocre quanto basta per non minacciare nessuno, grato quanto basta per essere utile a tutti. Nel suo mondo, il merito è un elemento decorativo, come la pianta di plastica sulla scrivania; dà un'impressione di vitalità, ma non cresce mai. E quando un giovane brillante tenta di farsi strada, zio Carmine lo osserva con una benevolenza paternalistica: "Non correre troppo, ragazzo...qui si va avanti piano, ma si va avanti". Non dice mai come né dove, ma sa che la sua lentezza è una forma di potere assoluto. L'Italia del posto fisso di zio Carmine non è solo un residuo del passato ma una struttura viva, che se riproduce di generazione in generazione. Ogni volta che un concorso pubblico diventa una farsa annunciata, ogni volta che un curriculum viene ignorato in nome di una conoscenza "fidata", un nuovo zio Carmine nasce e si sistema. Il sistema non lo teme ma lo coltiva. Perché è più facile governare un esercito di riconoscenti che una folla di competenti. Zio Carmine, oggi, ha cambiato abito ma non sostanza. Un tempo indossava la giacca grigia da impiegato comunale, oggi porta la felpa con il logo dell'ente o la camicia stirata a metà, perché "tanto in smart working non si vede". Ma la mentalità è rimasta la stessa: lavorare non significa produrre, bensì restare nel giro giusto. Nel mondo contemporaneo, dove la retorica del merito è diventata slogan da campagna elettorale, lo zio Carmine sopravvive con abilità mimetica. Ha imparato a usare le parole nuove, "team", "project" e "performance", ma continua a praticare i riti antichi: la riverenza verso il capo, l'omaggio silenzioso al potere, l'arte della visibilità senza rischio. Non è più soltanto un impiegato pubblico; oggi lo trovi anche nelle aziende partecipate, nei consorzi, nelle cooperative "amiche", nei consigli d'amministrazione di società che vivono di bandi e conoscenze. Il suo motto non è mai cambiato: "Conta chi conosci, non cosa sai". In questa logica, la competenza è utile solo se rende più efficiente l'adulazione. Non serve sapere fare, basta saper piacere. Il nuovo zio Carmine è un maestro di sopravvivenza. Ha capito che nel Paese delle raccomandazioni, la virtù più premiata è la docilità. Non eccellere, non disturbare, non emergere troppo: basta essere presenti, fedeli e reperibili. Così si diventa indispensabili per i superiori che vogliono dipendenti gestibili e invulnerabili agli eventuali cambi di vento politico o aziendale. C'è però, una abilità sottile nel suo comportamento: quella di apparire collaborativo mentre difende il proprio orticello. Lo vedi annuire in riunione, sempre d'accordo con l'ultima parola del capo, qualunque essa sia. Se cambia direttore, cambia anche la sua opinione, ma non il sorriso. Nel suo vocabolario, la parola "convinzione" è un lusso che non si può permettere. Eppure zio Carmine non è cattivo. È il prodotto di un sistema che lo ha sollevato fin dall'infanzia all'idea che la sicurezza vale più della dignità stessa. Ha visto il precario bruciarsi dietro un contratto a termine, il meritevole espulso per eccesso di autonomia, il brillante schiacciato da chi aveva l'amico giusto. Ha imparato la lezione più italiana di tutte: in un paese senza meritocrazia, l'obbedienza è l'unica forma di carriera stabile e possibile. E così, mentre l'Europa discute di innovazione e mobilità, zio Carmine difende il suo fortino. Sa che ogni riforma passa, ogni governo cambia, ma la rete di favori resta intatta. È il vero motore immobile del sistema: non lo vedi mai correre, ma nulla su muove senza di lui. Zio Carmine non è un'eccezione: egli è una regola non scritta, un modello riprodotto per decenni in mille varianti regionali, burocratiche e professionali. È l'archetipo del lecchino italiano, la figura che meglio di ogni altra, incarna la fusione tra paura e opportunismo, tra conformismo e astuzia di sopravvivenza. Il suo atteggiamento non nasce dal vuoto morale, ma da una cultura del potere verticale che ha insegnato agli italiani a piegarsi invece che a pretendere, a cercare protezione invece che responsabilità. La storia del Paese è disseminata di Carmine: nel dopoguerra erano gli uomini del partito, negli anni ottanta i fedeli del direttore. Oggi sono i professionisti della connessione, quelli che sanno a chi scrivere su Facebook o WhatsApp. Ogni epoca ha avuto il suo modo di premiare la fedeltà cieca. E in ogni epoca, chi si è distinto per merito o autonomia è stato guardato con sospetto, come se l'indipendenza fosse una forma di slealtà. Zio Carmine lo sa istintivamente: chi pensa troppo, disturba; chi esegue, resta al suo posto. Ecco perché il leccare non è solo un vizio individuale: è un meccanismo collettivo di autoconservazione. Finché il potere sarà distribuito come un favore e non come una responsabilità, ci saranno sempre Carmine pronti a inchinarsi, e capi pronti a circondarsene. Il dramma e insieme la comicità, del caso italiano, sta proprio qui: il sistema sopravvive grazie ai suoi stessi difetti. Ogni volta che un concorso truccato viene accettato con rassegnazione, ogni volta che un incapace viene promosso, perché si sa comportare, zio Carmine applaude in silenzio. Sa che la ruota gira e che, prima o poi, anche lui avrà un nipote da sistemare. Il posto fisso, così, non è più un diritto conquistato, ma un premio alla complicità. E nel Paese dove il merito è un optional e la parentela una garanzia, la figura di zio Carmine resta immortale: non perché sia invincibile, ma perché è utile a tutti. Ogni zio Carmine, prima di diventare maestro, è stato un discepolo. Leccare non si improvvisa; si apprende, si coltiva, si affina con la pratica quotidiana della subordinazione intelligente. In Italia, più che un comportamento, è una scuola di sopravvivenza. Il giovane apprendista entra in ufficio con buone intenzioni: entusiasmo, idee, voglia di contribuire. Ma presto capisce che la sua energia è pericolosa. Nel sistema Carmine, chi lavora troppo mette in imbarazzo chi non lavora affatto. Il talento, se non è incanalato nel modo giusto, diventa una minaccia dell'equilibrio di gruppo. E allora, per non essere isolato, il giovane impara la prima lezione: mai superare il capo, mai farlo sembrare inutile. Il discepolo osserva, ascolta e inizia a modellarsi. Capisce che la chiave del successo non è la competenza ma la sintonizzazione emotiva con chi comanda. Ogni pausa caffè diventa un piccolo rito d'iniziazione; una battuta ben piazzata, un complimento calibrato, un silenzio strategico nei momenti giusti. Non serve dire molto; basta dire ciò che l'altro vuole sentire. Con il tempo, il giovane discepolo sviluppa le abilità essenziali del perfetto lecchino. I tre punti da rispettare sono:
L'arte dell'eco: ripetere con convinzione le parole del capo, come se fossero un'illuminazione personale. La mimetica del pensiero: cambiare opinione con naturalezza, senza mai dare l'impressione di contraddirsi. Il sorriso istituzionale: l'espressione neutra ma approvante, adatta a qualsiasi decisione, anche la più assurda.
In questa palestra di mediocrità, il talento diventa un difetto da nascondere, la critica un rischio da evitare, l'autonomia un lusso da non concedersi. Chi resiste viene escluso: chi si adatta, promosso o premiato. E così il sistema si rigenera: ogni nuovo assunto, se vuole restare, deve imparare a diventare utile al potere prima ancora che al lavoro. Il discepolo che ha imparato bene la lezione, riceve presto la sua ricompensa: la fiducia incondizionata del capo. Non è una fiducia professionale, ma affettiva. Il capo gli affida piccole deleghe, poi piccoli privilegi, poi piccoli segreti. Il giovane apprendista lecchino capisce di essere entrato nella cerchia ristretta. E quando un giorno, verrà promosso, saprà a chi deve dire grazie e soprattutto saprà come farsi ringraziare a sua volta. Con il tempo, il discepolo diventa esperto. Ha imparato che ogni ufficio, ogni azienda, ogni istituzione italiana è una piramide emotiva; in cima c'è il capo, al centro gli intermediari del consenso, in basso i lavoratori veri. E lui, ormai, sa dove collocarsi: nel mezzo, dove il potere si sente senza mai esporsi, dove la responsabilità è minima e il riconoscimento massimo. Il suo linguaggio cambia. Non parla più di lavoro ma di equilibri, rapporti, sensibilità. Non elogia la competenza, ma la disponibilità. Per lui, l'efficienza non è un obiettivo ma una minaccia, perché ogni innovazione rischia di spostare i centri di influenza. E in questo momento che il discepolo si trasforma: smette di essere un semplice lecchino e diventa un custode del sistema. Difende da qualunque attacco il capo non per convinzione, ma per istinto di autoconservazione. Quando il capo cade, non cade mai da solo: c'è sempre un discepolo pronto a parare il colpo, a riscrivere la storia, a spiegare che "lui aveva solo eseguito ordini". Il passaggio da servitore a signore è sottile ma decisivo. Il neo Carmine, non si accorge nemmeno di averlo compiuto: un giorno di ritrova con una stanza tutta sua, una scrivania più grande e soprattutto un gruppo di nuovi arrivati che lo guardano con la stessa devozione con cui lui guardava il suo capo anni prima. E allora, quasi per inerzia, inizia a ripetere gli stessi gesti, le stesse frasi, le stesse finte cortesie. È così che il ciclo del lecchino si rinnova, per imitazione e convenienza. Ogni sistema clientelare si basa su una promessa non detta: chi è fedele oggi, sarà servito domani. Il neo Carmine diventa garante di questa promessa. Si assicura che i nuovi discepoli, imparino presto la lezione: "Qui non conta chi lavora, ma chi sta zitto al momento giusto". Il suo ufficio diventa un piccolo feudo dove l'autorità si misura in riverenze, non in risultati. Nel frattempo, fuori da quelle mura, il mondo cambia: l'automazione avanza, le start-up esplodono, il merito torna di moda. Ma dentro il microcosmo del neo Carmine, tutto resta immobile. Lui sa che il vero potere non è innovare, ma resistere al cambiamento. E se qualcuno prova a introdurre una novità, risponde con l'arma più efficace della burocrazia italiana: la lentezza. Un ritardo, una firma mancante, una riunione rinviata e l'idea muore da sola. Così il discepolo, ormai maturo, diventa un maestro del nulla produttivo ma stabile. È rispettato, temuto, ma mai ammirato. È la prova vivente che, in Italia, il successo non è una questione di risultati, ma di longevità nella subordinazione. E mentre fuori si parla di meritocrazia, lui continua la sua routine, con la calma del burocrate che ha visto passare mille riforme e sa che nessuna lo toccherà davvero. Ogni volta che un giovane pieno di idee entra nel suo ufficio, lo accoglie con un sorriso paterno e un consiglio immutabile:
"Non ti agitare troppo, ragazzo. Qui chi si muove troppo, cade".
In quella frase, pronunciata con affetto e veleno, che si chiude il cerchio. Il discepolo del capo è diventato, finalmente, zio Carmine 2.0: la versione aggiornata del lecchino italiano, perfettamente adattata al presente. Non crea, non distrugge, conserva. E nella conservazione del piccolo privilegio, garantisce la sopravvivenza di un intero sistema di mediocrità del fenomeno. Ogni sistema di potere genera i suoi fedeli, ma il lecchino italiano non è solo il prodotto dell'opportunismo, ma è il risultato di una educazione emotiva deformata, di una lunga tradizione di timore verso l'autorità e di un bisogno ancestrale di protezione. Per capire il lecchino, bisogna entrare nel suo labirinto psicologico, dove la rassegnazione convive con l'ambizione e l'adulazione diventa una forma di sopravvivenza morale. La prima forza che plasma il lecchino è la paura. Non paura fisica, ma quella più sottile: la paura di non contare nulla. L'Italia, con la sua storia di poteri paternalistici, la Chiesa, lo Stato, il Partito, la Famiglia, ha insegnato per secoli che la sicurezza nasce dall'appartenenza, non dall'autonomia. Il lecchino non vuole eccellere, ma vuole essere protetto. Il suo gesto d'obbedienza non è solo calcolo, è una supplica: non lasciarmi fuori. Dietro ogni inchino, ogni sorriso compiacente, ogni frase del tipo: "ha perfettamente ragione, dottore", si nasconde la stessa angoscia, quella di perdere il favore del capo e tornare nel limbo dell'anonimato. Il lecchino teme più il disinteresse del potente che la sua rabbia. L'indifferenza lo annienta, perché la sua identità esiste solo nel riflesso dell'altro. Ma il lecchino non è solo un codardo. È anche un ambizioso. Solo che la sua ambizione è rovesciata: non sogna di primeggiare, ma di stare vicino a chi primeggia. Non vuole il trono, ma la sedi accanto. Il suo desiderio di successo, è filtrato dal desiderio di compiacere: vuole essere scelto, non per ciò che sa, ma per quanto è disposto a scarificare di sé. Nel suo mondo, l'umiltà è una maschera strategica. Si dichiara "servitore fedele" per non apparire minaccioso, ma dietro la modestia costruisce il suo piccolo impero di favori e alleanze. Il lecchino vive in equilibrio instabile tra due pulsioni opposte: la voglia di emergere e la paura di apparire troppo. E' l'ambizioso che si nasconde dietro la timidezza, il mediocre che sogna la grandezza ma non osa reclamarla apertamente. C'è poi un tratto più profondo, quasi infantile: il bisogno di essere amato dal potere. Il lecchino non si limita a cercare vantaggi materiali, ma cerca riconoscimento affettivo. Vuole sentirsi il preferito, l'intimo, quello che il capo chiama per nome o saluta per primo. Ogni piccolo gesto di attenzione, diventa per lui una conferma di valore, u surrogato d'identità. Questa dipendenza psicologica, crea una forma di schiavitù volontaria: più riceve attenzioni, più ne ha bisogno; più si sente scelto, più teme di essere sostituito. Il suo rapporto con il potere è un legame affettivo tossico, fondato su gratitudine e terrore. Non lavora per il sistema ma lo serve per sentirsi vivo. Eppure, il lecchino non si percepisce come tale. Si racconta una versione più nobile della sua sottomissione: "Io sono solo una persona rispettosa", "Mi adatto", "Non mi piace fare conflitti". Nel suo mondo mentale, l'adulazione diventa diplomazia, la codardia prudenza, la passività equilibrio. Ma ha sempre bisogno di credersi buono, perché ammettere la propria complicità, significherebbe distruggere la fragile autostima su cui si regge. Questa auto giustificazione lo rende impermeabile alla vergogna. Può cambiare partito, fede, padrone, senza mai sentirsi incoerente: per lui, la coerenza è un lusso da idealisti, mentre la sopravvivenza è un dovere pratico. |
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