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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Renato Delfiol
Titolo: Un grido nella notte
Genere Giallo Storico
Lettori 56
Un grido nella notte
Lamberto da Castano a Montebuoni.

Stavamo conversando nella sala grande del palazzetto Buondelmonti di Montebuoni una sera di fine estate dell'anno di grazia 1190. Con me erano mia moglie Gemma, il mio giovane aiutante Cencio e messer Blumi, medico di Selvapudia e suocero di mio fratello Rinieri, che aveva acconsentito a venire a trovarmi e a trascorrere con me almeno la buona stagione.
Nonostante l'estate ormai alla fine faceva molto caldo e le finestre erano spalancate. Era scesa la notte e da fuori cominciava ad aleggiare una piacevole frescura.
Sedevamo al lungo tavolo della sala, dopo che i servitori avevano portato via le ultime vivande. Davanti a noi solo dei calici di vino.
La stanza era in penombra, una lanterna appoggiata su una mensola diffondeva una parca luce. Avevo raccomandato così ai servitori perché il buio sembrava offrire una sensazione di freschezza.
Io, con l'appoggio di Uguccio Buondelmonti, fratello di Gemma, che mi aveva chiamato a Fiorenza perché risolvessi dei casi di omicidio che erano rimasti senza colpevole, ero divenuto una specie di incaricato di quel Comune. La città mi pagava un emolumento per esercitare la funzione di investigatore e di giudice locale nel territorio di pertinenza del villaggio dove abitavo, i cui residenti assommavano a tre-quattrocento anime.
Attraverso di me il Comune faceva l'esperimento di avere un funzionario nel territorio che affiancasse il console, eletto dai cittadini, il quale amministrava il villaggio per le funzioni economiche e per il buon andamento della vita degli abitanti. Naturalmente il console era una persona comune, senza conoscenze giuridiche particolari; veniva scelto solo per onestà e buon nome. Avevo già risolto un caso di omicidio il cui responsabile era stato condannato a morte, e la sentenza era stata approvata dai consoli di giustizia della città di Fiorenza.
Se all'epoca di quei delitti ero da solo, anche se coadiuvato da mio fratello Anselmo, su consiglio di Uguccio avevo mandato a Cornuda, nel marchesato di Treviso, dove prima esercitavo le funzioni di podestà e giudice, una lettera per richiedere la presenza di Cencio, un giovane che già mi aveva aiutato in più di un caso difficile. Era venuto con la giovanissima donna che gli era stata promessa e l'aveva sposata proprio a Montebuoni. Assieme a loro era venuto messer Blumi.
I coniugi abitavano nel palazzetto che mi era stato concesso da Uguccio sia per abitazione che per ufficio. La moglie svolgeva dei servizi presso la nostra casa, dove già avevamo due servitori, Amato di Lapo e Puccia, sua nipote. Tutti erano pagati da mio cognato, il quale mi passava anche il mantenimento. La nostra vita era ben più comoda di quella della sede precedente, dove avevamo una sola domestica, pagata da me, che ricevevo un emolumento abbastanza contenuto.
L'argomento della discussione di quella sera era la recente dipartita dell'imperatore Federico, avvenuta mentre guidava la spedizione in Terrasanta. Una morte ingloriosa per un uomo di quella tempra: era scivolato da cavallo durante un guado ed era morto annegato, forse appesantito dall'armatura.
Anche se lo avevamo combattuto quando si era mosso con-tro i comuni lombardi, ed ero stato presente anch'io, benché molto giovane, alla battaglia di Lignan, ci sentivamo tutti più soli per la sua scomparsa. Aveva guidato l'impero per più di trent'anni e anche per me era usuale datare i documenti col numero dei suoi anni di regno.
Eravamo curiosi di sapere a quale dei suoi figli aveva lasciato il comando, probabilmente ad Enrico, sempreché i principi dell'Impero avessero accettato la sua nomina, che già in varie occasioni il padre aveva annunciato.
Fuori era ormai tutto buio e non si sentiva alcun rumore: i paesani si erano certo già ritirati e nessuno passava per la via. Mi aspettavo da un momento all'altro di sentire la voce di Vigoroso, la guardia, che mi assicurava che tutto era tranquillo e mi augurava la buona notte. Solo le nostre voci rompevano il silenzio.
All'improvviso risuonò un grido e ci guardammo allarmati. Cosa era avvenuto? Sentimmo il tramestio del frequente diserrarsi delle finestre delle case che fronteggiavano il nostro palazzo, certo gli abitanti si sporgevano per vedere quello che succedeva.
A quel grido ne seguì un altro e poi un susseguirsi di parole rotte e intervallate da urla e lamentazioni. Poi la voce, divenendo più distinta, gridava: «A me! Accorruomo, aiuto!»
Naturalmente ci eravamo precipitati ad una delle finestre. Vedevo alle case persone affacciate. Dovevo muovermi. Così chiamai con me Cencio e scesi rapidamente in strada. Il Blumi voleva seguirmi, ma gli dissi di non precipitarsi e di venire a suo comodo.
In strada ci volgemmo nella direzione da cui sembrava che provenisse la voce. Dopo poco ci raggiunse Vigoroso; anch'egli stava dirigendosi da quella parte, provenendo dal lato opposto del villaggio dove aveva completato il suo giro. Percorsi un centinaio di passi, ad uno svoltare della via, mi trovai davanti Grifone, il figlio del fornaio, che aveva il viso stravolto e ancora gridava:
«Aiuto, aiuto, un omicidio, seguitelo!»
«Inseguire chi?» gli chiesi.
«L'assassino.»
Alla luce della lanterna tenuta da Cencio vidi il volto di Grifone pervaso dal terrore. Notai che gocciolava sangue da una mano, forse era stato ferito al braccio.
«Assassino di chi? Siete ferito.»
«È cosa da nulla la mia, mia moglie, hanno ucciso mia moglie!»
Cercai di calmarlo ma continuava a dire, ora a voce più bassa: «L'hanno uccisa così, nel letto, non ho potuto impedirlo, mi hanno ferito, ma lei è morta, morta!»
«Venite che vediamo» dissi, e mi mossi. «Vieni, Cencio.»
«Oh no, signore». disse Grifone, «non posso vederla così, andate voi.»
«Ma l'assassino chi è? L'avete visto?»
«È scappato di corsa, non son riuscito a fermarlo, inseguitelo!»
«In che direzione?» interloquì Vigoroso che era dietro di noi.
«Laggiù.» e indicò la direzione.
«Vai, svelto, Vigoroso, vedi se qualcuno sta fuggendo. Noi andiamo su.»
Dopo un rapido sguardo alla sala dabbasso, nella quale non notai niente di particolare, salii la scala, mentre Grifone, nonostante le parole di prima, mi seguiva, e Cencio mi precedeva con la lanterna; subito davanti al colmo della scala si apriva la porta di una stanza, che doveva essere la camera nuziale, infatti il letto era sovrastato da un bel baldacchino.
Le cortine erano aperte. Sul letto, quasi coperta dalle coltri, giaceva una donna giovane, le braccia abbandonate, una fuoriusciva dal letto e pendeva inerte. Sangue dappertutto. Scostai il lenzuolo e vidi che era stata colpita varie volte: diverse ferite sembravano averle squarciato il ventre. La tunica era imbrattata da grandi macchie di sangue che indicavano i punti dove l'arma era penetrata. Mi chinai per sentire se respirava, ma niente. A parte il lenzuolo in disordine non c'erano altre cose spostate dalla lotta che doveva essere avvenuta. Su un tavolino c'era stata una candela: era spenta e tutto intorno si era solidificata la cera. A terra vidi il pugnale di Grifone, che conoscevo perché era solito tenerlo alla cintura, soprattutto per darsi un contegno. Era intatto, nessun segno di essere stato usato.
«Andiamo, Cencio, qua non c'è altro da vedere.» Cencio era molto impressionato e pensai che fosse una reminiscenza della sua storia: anch'egli aveva ucciso una persona.
Rimpiansi di essere arrivato a piedi, col cavallo avrei potuto tentare un inseguimento, ma così che potevo fare? Cercai comunque di informarmi dai vicini, ancora affacciati alle finestre, se avessero visto qualcuno scappare; ne ebbi risposte vaghe, ma uno mi disse che gli era sembrato di vedere un'ombra a cavallo che si dirigeva verso la porta a Fiorenza. Tornò Vigoroso affannato.
«Niente, messere, non ho visto nessuno, né a piedi né a cavallo. Ho corso un po', ma niente.»
«Vigoroso, è scappato in direzione di Fiorenza, questo l'abbiamo saputo.»
Gli chiesi poi se la porta fosse chiusa e mi rispose di no, perché il fornaio era andato a Fiorenza a fare una consegna di pane verso il tramonto e gli aveva raccomandato di tenerla aperta fino al suo ritorno. Ah, se la porta fosse stata chiusa, il fuggitivo avrebbe dovuto cercare di aprirla o di scavalcare il muro e avrebbe perso tempo, rimanendo alla nostra mercé, anche perché il cavallo non avrebbe potuto portarlo con sé; né avrebbe potuto aprire la porta se questa fosse stata chiusa a mandata. Le chiavi delle porte erano custodite dalla guardia.
Mi volsi allora verso Grifone, che aveva intorno diversi vicini e uno lo abbracciava.
«So che vi è penoso, Grifone, ma dovete raccontarmi come è andata. Voi eravate a letto con vostra moglie?»
«Messere, sì, eravamo a letto, dormivamo, non c'era nessuno in casa. Il portone non era chiuso a paletto perché qua attorno tutti ci conosciamo e non è mai successo niente. Ho sentito del tramestio al piano di sotto, allora ho preso il pugnale perché pensavo a un ladruncolo da mettere in fuga e ho cominciato a scendere con una candela in mano. Ma mentre ero sulla scala uno mi è venuto contro, mi ha dato una gran spinta e sono ruzzolato per alcuni gradini, mentre lui continuava a salire. Ma mi sono subito rialzato e l'ho seguito precipitosamente con l'idea di fermarlo. L'uomo mi ha menato un secondo fendente a mano nuda e di nuovo mi ha fatto cadere. Mentre cadevo, alla luce della candela, ho potuto vedere un luccicare. Doveva avere in mano una lama e con quella si indirizzava al letto. Era praticamente buio perché la candela che avevo preso nella caduta si era quasi spenta e ormai stava giù. Sì c'era nella camera un altro piccolo lume, ma faceva poca luce. Appena tornato in piedi ho visto l'uomo scagliarsi come una furia sul letto. In quell'attimo lo vedevo colpire mia moglie che si era svegliata al trambusto e si era rizzata a sedere. Io ho cercato di fermarlo, buttandomi d'un balzo sul letto, per afferrare il coltello che stringeva, ma la mia mano mi è scivolata dalla sua sulla lama e mi sono tagliato. Mi ha ancora colpito con un gran pugno che mi ha stordito. Dopo poco l'ho sentito scendere le scale e fuggire.»
«Parrebbe quindi che ce l'aveva con lei e non con voi, se no vi avrebbe ammazzato.»
«Già, pare anche a me... oh, babbo!»
Si era avvicinato il fornaio, nel frattempo arrivato col carro delle consegne, aveva sentito qualcosa dalle persone che aveva scontrato arrivando.
«Grifone, sei ferito, sanguini! Che è successo? Sento di un ammazzamento.»
«Non è niente la mia ferita, padre, è Minetta che è morta, è stata ammazzata da uno entrato in casa nostra e, purtroppo fuggito.»
«Morta Minetta! Ma come, come è stato? Non hai cercato...»
«Sì, padre, ho cercato di difenderla e mi sono ferito ma lui sembrava che non ce l'avesse con me, a me mi ha solo dato dei colpi per farmi ruzzolare dalle scale; io mi sono rialzato più volte, ma sempre venivo colpito. Il mio pugnale è cascato e a mani nude ho cercato di afferrare il coltello per deviarlo, ma ho ottenuto solo di tagliarmi la mano, che poi forse è ferito anche il braccio...»
Il fornaio mi guardò con espressione interrogativa.
«Purtroppo messer Tingo non ho potuto seguirlo né farlo inseguire. È stato visto, ma eravamo a piedi. Comunque vi do la conferma, la moglie di Grifone è morta.»
«Morta! Ma chi può essere stato? Certo qualcuno che ha odio per noi, forse qualche parente di Minetta che non voleva avesse quest'altro figlio.»
«Che dite? Era forse incinta la povera donna? Allora un crimine doppio.»
«Sì, vedete, mio figlio si era molto affezionato a lei, poi, d'altronde, sono due giovani, è ovvio; vedete, quasi quasi avete fatto bene a costringerlo a sposarsi.»
Domandai: «Ma chi mai poteva avercela con voi qui? Qualcuno della famiglia della moglie mi pare difficile, hanno mai mani-festato rancore contro di voi?»
Scosse il capo: «No, mai, anzi a volte il padre ci portava dei prodotti delle sue coltivazioni. Veniva, non salutava Grifone verso il quale manteneva un certo astio per le passate violenze, ma incontrava la figlia e si assicurava che tutto andasse bene. Questa volta, dopo aver saputo che era di nuovo incinta, si è dimostrato compiaciuto, tanto che è venuto a trovarmi in bottega e mi ha detto: “Messere, a questo punto non mi dispiace, vostro figlio la tratta bene. Se avesse sposato da noi ora sarebbe a lavorare col marito, invece qui fa la vita da signora.»
Renato Delfiol
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