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Writer Officina Blog
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Il Ritorno di Xalthotum
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Cronache da Landwar.
Le Tre Prove.
Aelyra svanisce. Non si dissolve: si smaglia, come un tessuto di luce che si strappa piano, lasciando dietro di sé un turbinio di tempeste cosmiche. Le nubi si contorcono, cariche di fulmini che non colpiscono, ma rivelano. Tuoni che non rompono il silenzio, ma lo scolpiscono. Ogni bagliore apre squarci: pianeti che respirano, mondi che si piegano su sé stessi, galassie che si specchiano in occhi mai nati. Poi, la caverna. Scompare. Non svanisce: implode, come se non fosse mai esistita, lasciando il gruppo sospeso nel vuoto — ma non un vuoto freddo. Un vuoto vivo. Un universo che pulsa, dove stelle e pianeti ruotano in danze millenarie, si sfiorano, si scontrano, si frantumano in piogge di luce e cenere. E in quel caos sublime, una luce. Non una luce che illumina. Una luce che chiama. Fortissima, assoluta, come il battito di un cuore divino. Li riporta. Non dove erano. Ma dove devono essere. Nel mondo di Landwar, lì dove il destino non è più condiviso. Lì dove la missione non può essere affrontata insieme. Lì dove ognuno deve camminare da solo, portando con sé ciò che ha visto, ciò che ha perso, ciò che deve ancora comprendere.
Erewen nel Bosco di Nymira
Il vento cambia quando Erewen varca il confine del Bosco di Nymira. Non soffia: sussurra. Le foglie non frusciano: parlano. Ogni ramo si piega come in un saluto antico, e l'aria si fa densa di presenze che non hanno corpo, ma memoria. Gli spiriti arborei non si mostrano. Si insinuano. Nelle vene delle cortecce, nei nodi dei tronchi, nei riflessi d'ambra che danzano tra le radici. Erewen sente il loro giudizio, non come voce, ma come pressione sul cuore.
“Chi entra qui porta il peso del proprio nome,” dice una voce che non ha bocca. “E tu, figlio del dubbio, cosa porti?”
Erewen non risponde. Non può. Le parole si spezzano prima di nascere. Il bosco non vuole spiegazioni. Vuole verità. Cammina. Ogni passo affonda in un tappeto di muschio che pulsa sotto i piedi, come se il terreno stesso respirasse. Gli alberi si chiudono alle sue spalle, e il sentiero si apre davanti a lui — stretto, tortuoso, fatto di luce filtrata e ombre che sembrano muoversi.
Il Sentiero dei Sussurri lo attende.
Il sentiero non è segnato. Non da pietre, né da radici. È tracciato da voci. Voci che non parlano, ma ricordano. Ogni passo di Erewen risveglia un sussurro. Non nel bosco — dentro di lui. Frammenti di giorni perduti, volti che non ha più il coraggio di nominare, promesse che ha lasciato svanire come nebbia al mattino.
“Hai detto che saresti tornato.” “Hai giurato che non avresti dimenticato.” “Hai scelto di vivere. Ma chi hai lasciato morire?”
Le parole non hanno origine. Non sono pronunciate. Sono sentite. Come se il bosco fosse un archivio dell'anima, e ogni foglia custodisse un rimpianto.
Erewen si ferma. Il cuore batte come se volesse fuggire dal petto. Ma non può tornare indietro. Il bosco non lo permetterebbe. E lui non lo desidera davvero. Davanti a lui, un albero più antico degli altri. La corteccia è nera, come bruciata, ma viva. Dal tronco pendono fili d'argento, come lacrime congelate. E tra le radici, un piccolo specchio d'acqua. Erewen si avvicina. Si china. Guarda. Nel riflesso, non vede sé stesso. Vede lei. Aelyra. Il momento in cui è svanita. Il suo volto, sereno. Il suo sguardo, rivolto a lui. Come se sapesse.
“Non puoi salvarla,” dice il bosco. “Ma puoi capire perché ti ha lasciato andare.”
Il sentiero prosegue. Ma ora Erewen cammina più lentamente. Non per paura. Per rispetto. Il sentiero si apre su una radura che non sembra parte del bosco. Nessun albero la circonda. Nessuna ombra la tocca. È come se il tempo stesso si fosse fermato per proteggerla. Al centro, un fiore. Solitario. Bianco, ma non candido. Bianco come la luce prima di essere spezzata in colori. I petali non si muovono, anche se il vento li sfiora. Il silenzio qui non è assenza di suono: è presenza assoluta. Erewen si avvicina. Ogni passo è un battito. Ogni respiro, una domanda.
“Che cosa hai perso?” “Che cosa hai scelto di non vedere?” “Che cosa sei disposto a lasciare?”
Il fiore non parla. Ma Erewen lo sente. Dentro. Come se ogni petalo fosse una pagina del suo passato, e lui dovesse leggerla senza occhi. Si inginocchia. Non per raccoglierlo. Per ascoltarlo. Il silenzio lo avvolge. E in quel silenzio, vede. Vede il giorno in cui ha voltato le spalle a Sewyn. Il momento in cui ha scelto un'altra strada. Vede Sewyn non mentre svanisce, ma mentre lo guarda — con pietà, non con rabbia. Vede sé stesso. Non come eroe. Come elfo.
Il fiore si apre, lentamente, come se avesse atteso quel momento da sempre.
Erewen non lo tocca. Ma sente il suo calore. E nel cuore, qualcosa cambia. Non si spezza. Si libera. Il bosco tace. Ma il silenzio ora è suo alleato. Erewen si alza. Il sentiero è scomparso. Ma davanti a lui, una nuova via. Non tracciata. Non imposta. Scelta. Il fiore si richiude lentamente, come se avesse detto tutto ciò che doveva. Erewen resta immobile, il volto rivolto al cielo che non si vede, ma si intuisce tra le fronde. Il silenzio non lo opprime più. Lo accompagna. Alle sue spalle, il sentiero è svanito. Davanti, non c'è nulla. Ma il bosco non è più ostile. È quieto. Come se avesse accettato la sua presenza. Un ramo si piega, tracciando un arco sopra di lui. Le foglie tremano, e da esse cade una sola goccia di luce — non liquida, non solida. Una scintilla che si posa sulla sua fronte. Erewen chiude gli occhi. E vede. Non visioni. Non profezie. Ma memoria. La sua. Intera. Senza omissioni, senza difese.
“Il dolore non è nemico,” dice il bosco. “È ciò che ti ha reso capace di vedere.”
Quando riapre gli occhi, la radura è vuota. Il fiore non c'è più. Ma sulla sua mano, una traccia: un piccolo segno, come inciso nella pelle. Non brucia. Non pesa. Ma pulsa. Il Sigillo del Silenzio. Erewen si alza. Cammina. Non sa dove lo porterà il bosco. Ma ora sa che non cammina per fuggire. Cammina per comprendere.
“Bravo! Scelta saggia, ora sarà più difficile per lui, ma non impossibile.”
Era la voce di Aelyra. Erewen ha scelto di dimenticare il dolore causato dalla scomparsa di Sewin, ma sarà sufficiente a sbarrare la strada alla corruzione? Lo scopriremo più avanti.
Thiudaraik a Khar-Thun
Il cielo sopra Khar-Zul non è cielo. È una ferita aperta, pulsante, che sanguina luce rossa e vapori d'odio. La terra sotto i piedi di Thiudaraik trema, ma non per paura. Per memoria. Davanti a lui, il Fiume di Lava. Non scorre: serpeggia. Come un serpente antico che conosce ogni peccato, ogni menzogna, ogni gloria rubata. Il calore non brucia la pelle — brucia l'anima. Thiudaraik si ferma. Il ponte di pietra che dovrebbe attraversare è spezzato. Non da tempo, ma da scelta. Nessuno può camminare sopra il fuoco senza affrontare ciò che ha incendiato dentro di sé.
“Tu hai bruciato città,” sussurra la lava. “Hai spento nomi. Hai scolpito il tuo onore su tombe che non portano volto.”
Ogni passo è una confessione. La lava non lo consuma, ma lo interroga. E lui risponde. Non con parole, ma con ricordi. Vede la battaglia di Varn-Hal. Il momento in cui ha ordinato l'attacco, sapendo che i civili non sarebbero fuggiti in tempo. Vede il volto del giovane scudiero che ha lasciato indietro, per salvare la bandiera.
“Hai scelto la vittoria. Ora scegli il peso.”
La lava si apre. Non per accoglierlo, ma per giudicarlo. E Thiudaraik cammina. Non perché è immune. Perché è pronto. La lava si ritira alle sue spalle, come se avesse riconosciuto il passaggio. Ma davanti a Thiudaraik, la roccia si apre in una sala vasta, scavata nel cuore della montagna.
Le pareti sono nere, ma brillano di vene incandescenti, come cicatrici che non vogliono guarire. Al centro, un trono. Non d'oro, non di pietra. Di ossa fuse e cenere. E su di esso, lo Spettro del Re Bruciato. Non ha volto. Solo una corona spezzata e occhi che ardono come carboni vivi. La voce non esce dalla bocca — vibra nell'aria, come un lamento antico.
“Sei venuto per giudicarmi, figlio della guerra?” “O per diventare ciò che io sono?”
Thiudaraik stringe l'elsa della sua lama. Ma non la solleva. Sa che qui, il ferro è inutile. Il Re si alza. Ogni passo lascia impronte di fuoco sul pavimento. Non attacca. Offre.
“Ti darò ciò che hai sempre cercato. Potere. Gloria. Oblio.” “Basta che tu dimentichi. Basta che tu smetta di chiederti se fossi nel giusto.” Thiudaraik tace. Ma dentro, la battaglia infuria. Le parole del Re sono dolci come veleno. Offrono pace, ma chiedono il prezzo più alto: la verità.
“Io ho bruciato il mio regno per non vedere le mie colpe,” dice il Re. “Tu puoi fare lo stesso. Oppure puoi spezzare il ciclo.”
Il silenzio si fa pesante. Thiudaraik chiude gli occhi. Vede le città che ha conquistato. I volti che ha dimenticato. Le lacrime che non ha mai chiesto. Quando li riapre, il Re è ancora lì. Ma ora, è più piccolo. Più fragile. Thiudaraik non lo colpisce. Lo guarda. E il Re svanisce. Non in fumo. In cenere. La sala del Re Bruciato svanisce alle sue spalle, inghiottita da un silenzio che non è pace, ma attesa. Thiudaraik scende. I gradini non sono scolpiti: sono consumati, come se migliaia di passi li avessero levigati nel tempo.
La Cripta delle Ceneri non è buia. È grigia. Ogni parete è coperta di nomi incisi nel fumo, come se le anime avessero lasciato la propria firma prima di dissolversi. Non c'è eco. Non c'è vento. Solo sussurri.
“Thiudaraik...” “Figlio della guerra...” “Portatore di lutti...”
Le voci non accusano. Non perdonano. Ricordano. E lui cammina tra le tombe, ognuna diversa, ognuna uguale. Alcune portano simboli che riconosce. Altre, nomi che ha dimenticato. Ma tutte parlano. Ogni passo è un peso. Ogni sguardo, una ferita che si riapre. Ma Thiudaraik non si ferma. Non può. Non deve. Al centro della cripta, un altare. Non decorato. Solo una lastra di pietra annerita, con sopra un piccolo recipiente colmo di cenere. Nessuna fiamma. Nessuna luce. Thiudaraik si inginocchia. Non per pregare. Per ascoltare.
“Il fuoco distrugge,” dice la cenere. “Ma la cenere conserva.”
Chiude gli occhi. E vede. Non battaglie. Non vittorie. Ma volti. Mani. Voci. Tutto ciò che ha perso. Tutto ciò che ha scelto di perdere. Quando riapre gli occhi, la cenere si solleva. Non vola. Si posa. Sulla sua pelle, sul suo petto, sul suo volto. Non brucia. Ma resta. Il Sigillo della Cenere è impresso. Non come punizione. Come memoria. La cenere non si posa come polvere. Si lega. Penetra nella pelle, si mescola al sangue, si insinua nei pensieri. Thiudaraik non la respinge. La accoglie. Il recipiente sull'altare si svuota lentamente, come se avesse atteso quel momento da secoli. E quando l'ultima particella tocca la sua fronte, qualcosa cambia. Non fuori. Dentro. Il passato non svanisce. Si ordina. Non come elenco di colpe, ma come mappa di scelte. Ogni ferita, ogni perdita, ogni vittoria sporca: tutto trova posto. Non per essere dimenticato. Per essere portato. Il Sigillo della Cenere si manifesta. Non come luce. Non come fiamma. Come marchio. Una forma semplice, antica, che pulsa sotto la pelle. Non brucia. Ma ricorda.
“Non sei redento,” dice la voce della cripta. “Sei consapevole.”
Thiudaraik si alza. Le tombe tacciono. Non perché lo accettano. Perché lo riconoscono. Cammina verso l'uscita. La roccia si apre, non con fragore, ma con rispetto. Il cielo sopra Khar-Zul è ancora rosso, ma ora non lo minaccia. Lo accompagna. Thiudaraik non è più il guerriero che cercava gloria. È l'uomo che porta il peso. E lo fa senza piegarsi. La cripta tace. Non perché ha finito di parlare, ma perché Thiudaraik ha ascoltato. Il Sigillo della Cenere pulsa sotto la pelle, non come ferita, ma come promessa. La montagna si apre davanti a lui. Non con esplosioni, né con crolli. Con rispetto. Come se Khar-Zul riconoscesse in lui qualcosa che non aveva mai visto: un guerriero che non cerca vittoria, ma verità. Thiudaraik esce. I suoi passi non fanno tremare la terra. La accarezzano. Ogni granello di polvere sembra sapere chi è, e cosa ha scelto. Non c'è folla ad attenderlo. Non c'è applauso. Solo il vento. E nel vento, un sussurro.
“Hai portato il fuoco. Ora porti la cenere.”
Cammina. Non verso la gloria. Verso il mondo. Verso ciò che resta da salvare. Ora Thiudaraik ha un nuovo aspetto. È di nuovo il primo di una nuova stirpe, è un orco nero! Ha dovuto rinunciare a molto di sé, non ha più i poteri del fuoco, ora ha un potere diverso, molto più affine a quello delle Tenebre.
Elidia nel Santuario di Loryn L a luce si ferma sulla soglia. Non entra. Non osa. Il Santuario di Loryn non respinge la luce: la ignora. Come se avesse già visto tutto ciò che c'è da illuminare, e non avesse trovato nulla degno di essere mostrato. Elidia varca la soglia. Il silenzio è assoluto, ma non vuoto. È pieno. Di attese, di domande, di verità che non vogliono essere dette. Le pareti sono lisce, nere, come specchi che non riflettono. Ogni passo è un'eco che non torna. Il tempio non la osserva. La aspetta.
“Non cercare la luce,” dice una voce che non ha fonte. “Cerca ciò che la luce non può toccare.”
Elidia avanza. Il corridoio si stringe, si curva, si piega su sé stesso. Come se il tempio fosse vivo e volesse condurla non verso una meta, ma verso una verità. Davanti a lei, una porta. Non chiusa. Non aperta. Sospesa. Intagliata con simboli che non riconosce, ma che sente. Ogni linea è una ferita. Ogni curva, una scelta. Elidia la sfiora. La porta si dissolve. Non si apre. Scompare. E dietro, la sala circolare. Al centro, una vasca. Non d'acqua. Di luce liquida. Pallida. Fredda. Come se fosse stata versata da un cielo che non crede più negli uomini. Elidia si avvicina. Non per immergersi. Per capire. La vasca di luce liquida non emana calore. Eppure, Elidia sente il sudore colare lungo la schiena. Non per il corpo — per l'anima. Si avvicina. La superficie della vasca è immobile, ma vibra. Come se contenesse qualcosa che non vuole essere toccato. O forse, qualcosa che vuole essere riconosciuto.
“Immergiti,” dice la voce del tempio. “Non per purificarti. Per vedere.”
Elidia entra. La luce la avvolge, ma non la accoglie. La penetra. Ogni fibra, ogni pensiero, ogni menzogna. Non brucia la pelle. Brucia ciò che è stato nascosto. Visioni. Non sogni. Ricordi. Il giorno in cui ha scelto di non intervenire. Una bambina in pericolo. Un villaggio in fiamme. Lei, ferma, con la missione stretta tra le mani. Il dovere sopra la compassione. La strategia sopra il cuore.
“Hai salvato il mondo,” dice la luce. “Ma hai perso te stessa.”
Elidia cerca di fuggire. Ma la luce non lo permette. La trattiene. La costringe a guardare. Non per punirla. Per renderla intera. Il volto della bambina riappare. Non piange. Non accusa. Aspetta. Elidia tende la mano. Ma non può toccarla. Può solo riconoscerla. La luce si fa più intensa. Non per accecare. Per rivelare. La luce liquida si ritira lentamente, come se avesse compiuto il suo compito. Ma Elidia resta immobile. Non perché non possa muoversi — perché non vuole. Davanti a lei, la sala cambia. Le pareti si dissolvono, e al loro posto si apre un paesaggio che non è reale, ma non è illusione. È memoria. Il giorno in cui tutto è cambiato. Un villaggio in fiamme. Urla che si confondono con il crepitio del fuoco. E lei, ferma, con la missione stretta tra le mani. Un ordine da seguire. Una vita da salvare — la propria. Tra le fiamme, una figura. Una bambina. Non corre. Non piange. Guarda. Elidia ricorda quel volto. Non il nome. Non la voce. Solo gli occhi. Occhi che non chiedevano aiuto. Chiedevano presenza.
“Hai scelto il mondo” dice la visione “Ma hai lasciato indietro l'unica cosa che ti avrebbe reso degna di salvarlo.”
Elidia avanza. Le fiamme non la bruciano. La riconoscono. Ogni passo è una confessione. Ogni sguardo, una ferita che si riapre. La bambina tende la mano. Elidia la sfiora. E in quel tocco, non c'è perdono. C'è verità. Il paesaggio svanisce. Le fiamme si spengono. La sala torna vuota. Ma Elidia non è più sola. Porta con sé ciò che ha visto. Ciò che ha scelto. La sala è vuota. Ma Elidia non è sola. Porta con sé il volto della bambina, il peso della scelta, la consapevolezza che la missione non basta a definire chi si è. Al centro della sala, la vasca di luce si è svuotata. Sul fondo, un cristallo opaco. Non brilla. Non emana energia. Aspetta. Elidia si avvicina. Lo tocca. Il cristallo si illumina. Ma non emette luce. Rivela. La sala si trasforma in specchio. Ogni parete riflette Elidia — non il suo volto, ma ciò che ha nascosto. Paura. Ambizione. Rimpianto. Speranza.
“La luce non è purezza,” dice il tempio. “È verità. E la verità non è mai priva di ombre.”
Il cristallo si dissolve tra le sue dita. E sulla sua pelle, una forma si disegna. Non incisa. Svelata. Come se fosse sempre stata lì, in attesa di essere accettata. Il Sigillo della Luce pulsa. Non come fiamma. Come battito. Elidia chiude gli occhi. E per la prima volta, non cerca risposte. Le accoglie. Il cristallo è svanito. Il Sigillo della Luce pulsa sotto la pelle, non come marchio, ma come promessa. Elidia si alza. Il tempio non la trattiene. Non la celebra. Si ritira. Le pareti si dissolvono come nebbia al sole. Il pavimento si sfalda in petali di pietra. E la luce — quella che prima non voleva entrare — ora la segue. Non la guida. La riconosce.
Elidia esce. Il mondo fuori è lo stesso. Ma lei no. Cammina. Non per fuggire dal tempio. Per portarlo con sé. Ogni passo è più leggero, non perché ha dimenticato, ma perché ha accettato. Il cielo sopra Loryn è chiaro. Ma non è quello che illumina il suo cammino.
“Non sei ciò che hai fatto” dice il vento. “Sei ciò che hai scelto di vedere.” Elidia non risponde. Ma sorride. E cammina. Aelyra. Voce fuori campo. Elidia La luce non la guida. La segue. Ogni passo fuori dal Santuario è un battito che vibra nel mondo. Il Sigillo della Luce pulsa sotto la pelle, ma non la consuma. La rivela. Elidia cammina, e il mondo intorno a lei si piega, come se riconoscesse la sua verità. Thiudaraik La cenere non si stacca. Si fonde. Il Sigillo brucia piano, non come fiamma, ma come memoria. Thiudaraik esce da Khar-Zul e il vento lo accoglie. Non come guerriero. Come testimone. Ogni granello di terra sembra sapere chi è, e cosa ha scelto di portare. Erewen Il bosco si dissolve alle sue spalle, non come luogo abbandonato, ma come prova compiuta. Il silenzio che ha imparato a conoscere lo accompagna. Non lo isola. Lo connette. Erewen cammina e ogni passo è un dialogo con ciò che ha accettato. Non c'è luogo. Non c'è tempo. Solo un punto nello spazio che pulsa come un cuore cosmico. I tre non si ritrovano camminando. Si risvegliano. Il vuoto che li aveva separati ora li riunisce. Ma non è più vuoto. È intenzione. Un universo che li ha osservati, messi alla prova, e ora li riporta — non dove erano, ma dove devono essere. |
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