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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Sabino Napolitano
Titolo: Quell'anonima busta gialla
Genere Social Thriller
Lettori 32
Quell'anonima busta gialla
Le sere di settembre possono avere il loro magico profumo anche in una grande città come Bari, quando si spengono i clamori del traffico urbano e il quotidiano affannarsi di uomini e donne negli uffici, nelle fabbriche e nei negozi, si acquieta nel silenzio notturno.
Una leggera brezza mi porta il tenue profumo delle magnolie mentre percorro la mia strada verso casa.
Faccio il giornalista e le mie giornate in redazione non hanno mai orari prestabiliti. Prima di spegnere il computer e tornare a casa, bisogna comunque predisporre sempre tutto per andare in stampa. Fino all'ultimo momento può esserci qualche notizia che costringe a scrivere un articolo o a modificare, quando non addirittura stravolgere, la composizione di una pagina.
Così anche stasera ho fatto molto tardi, ma non c'è modo di evitarlo, tanto più se c'è di mezzo una notizia da prima pagina. Quando succede, il direttore pretende che tutti i capi redattori siano presenti fino alla completa impaginazione e così si finisce quasi sempre a fare notte fonda.
Io però non mi lamento. Fin da ragazzo ho sempre voluto fare il giornalista e ora che posso dire di esserci riuscito, non mi spavento di certo per i rischi di questo mestiere, che mescola in modo così imprevedibile quotidianità e creatività.
Non è stato facile, però.
Per assecondare i desideri paterni e inseguire la chimera del posto fisso, che qui da noi mantiene sempre il suo fascino, ho seguito gli studi di ragioneria e mi ci sono pure diplomato. Avevo trovato anche un bel posto in banca, grazie ad alcune conoscenze di famiglia, che costituiscono pur sempre un canale privilegiato di accesso al mondo del lavoro, alla faccia di centri per l'impiego, inserzioni e altre modalità di vario tipo.
Poi, dopo qualche mese, ho fatto quello che agli occhi dei miei genitori è apparso come una vera e propria pazzia, un incomprensibile colpo di testa: il mio tranquillo posto fisso l'ho lasciato. Così, di punto in bianco, come si dice. Non ho nemmeno dato il preavviso.
Nessuno ha ritenuto sensata la mia scelta. Non l'hanno compresa i colleghi e le persone che mi conoscevano, ma nemmeno quelle con le quali avevo relazioni di amicizia.
Qualcuno un po' più ficcanaso, magari approfittando di un certo livello di confidenza personale, aveva anche azzardato: «Valerio, ma ti ha dato di volta il cervello?».
Per vie traverse, avevo anche saputo di qualcun altro che si era spinto ad avanzare dubbi sulle mie capacità di rendermi conto della fesseria che stavo facendo e, in mia assenza, aveva commentato: «Questo non si rende conto della fortuna che ha avuto. Chi glielo deve dare un altro posto come quello?».
Non parliamo dei miei genitori, poi. Quasi non mi parlavano più e avevano ridotto le interazioni al minimo indispensabile tra persone che abitano sotto lo stesso tetto.
Io sapevo quello che stavo facendo e ho tirato dritto per la mia strada. Quando mi si è presentata l'occasione, non ho esitato ad accettare piccoli lavori come cronista sportivo, i primi tempi anche senza compenso, sacrificando i fine settimana su polverosi campi di provincia, per scrivere magari solo poche righe.
Alla lunga, però, la mia testardaggine ha pagato e, tre anni dopo, ho avuto l'opportunità di iniziare una collaborazione con la Gazzetta come cronista di nera. Ho colto la palla al balzo.
Papà ha sofferto molto per la mia scelta e, pur se non me l'ha mai rinfacciato, mi è sempre rimasto dentro un cupo senso di colpa quando lui, un paio d'anni dopo, è morto per un arresto cardiaco.
Mio padre era cardiopatico e per molti mesi mi sono chiesto se la mia decisione avventata di lasciare il sicuro posto in banca avesse potuto svolgere un ruolo di aggravante nella sua condizione di salute.
Sono stati anni difficili, conditi anche da qualche rischio personale, per il fatto di dover seguire da vicino gli ambienti della criminalità pugliese, che non ha nulla da invidiare, in termini di crudeltà e violenza, a fenomeni analoghi, magari più noti alle cronache.
Ora, finalmente, mi sono stabilizzato in redazione a occuparmi di attualità politica e cronaca e la situazione si è fatta più tranquilla.
Da quando anche mamma se n'è andata, ho venduto la vecchia casa di famiglia e mi sono sistemato in un appartamentino in zona Policlinico, così che il percorso dalla sede del giornale a casa mia è poco più di una piacevole passeggiata. Neanche il tempo di ripensare agli eventi della giornata e sono a casa.
Guardo la targhetta sul citofono: ‘Dott. Valerio Di Stefano'. Nonostante sia passato già qualche anno da quando mi sono laureato, non ci ho fatto ancora l'abitudine a quel titolo sul citofono.
Eh, già! La mia laurea... quella grande soddisfazione, annichilita dalla notizia dell'agguato mortale al giudice Paolo Borsellino.
Solo qualche mese prima si era consumata la tragedia dell'uccisione del giudice Falcone, perito insieme alla moglie e agli uomini della scorta nell'attentato mafioso di Capaci. La mafia alzava il tiro contro lo Stato, la gente assisteva attonita e impotente, con un senso di rabbia sorda che montava dentro.
Prendo le chiavi di casa, rovistando nella tasca del giubbino. Vivo da solo e non c'è nessuno ad aspettarmi.
Quasi nessuno.
In realtà, c'è Bella, il mio cane di razza Labrador, che presidia la casa durante la giornata. Purtroppo, non riesco a prendermene cura quanto vorrei e meno male che nel palazzo ci sono i due ragazzi del secondo piano, che sono studenti universitari e si sono offerti di occuparsi loro di portar fuori Bella per i suoi bisogni fisiologici.
Giro la chiave nella toppa della serratura del portone d'ingresso dello stabile e salgo a piedi le due rampe di scale che conducono al mio appartamento al primo piano.
Il pianerottolo è quasi del tutto avvolto nell'oscurità, se non fosse per la lama di luce fioca che proiettano le luci dell'atrio.
Sto per aprire la porta di casa, quando mi pare di notare qualcosa infilato sotto il battente.
Non capisco subito cosa sia e mi sposto per premere il pulsante che accende la luce delle scale.
La cosa che ha attirato la mia attenzione è una busta gialla di quelle a sacchetto.
Mi chino a raccoglierla. Nessun mittente.
Mi guardo attorno, come se mi aspettassi di scorgere qualcuno nascosto qualche rampa più su, magari proprio l'anonimo postino.
No, non c'è nessuno.
Tutt'intorno solo il silenzio che avvolge di solito la palazzina a quest'ora della notte.
«E mo', che è 'sta cosa?» sussurro a mezza voce, inserendo nella serratura la chiave di casa.
Appena entrato, Bella mi viene incontro per salutarmi, si struscia con discrezione contro la mia gamba, poi se ne ritorna nella sua cuccia.
Accendo la luce, mi siedo al tavolo del soggiorno e apro la busta con cautela.
Dentro c'è una chiave.
Con una penna la giro e la rigiro per evitare di toccarla. Ha una forma particolare. Chissà cosa apre?
La cosa più strana è che l'impugnatura appare macchiata da una sostanza ormai secca che, se non ho dimenticato le mie esperienze da cronista di nera, potrebbe essere... sangue.
Che significato può avere quell'anonima busta gialla che qualcuno ha pensato di lasciarmi sulla soglia di casa?
Perché qualcuno ha pensato di mandarla proprio a me?
E chi può essere poi questo qualcuno?
Qualche anno fa, su una cosa del genere mi ci sarei buttato sopra come un segugio, ma nella mia attuale situazione non so proprio se ne vale la pena.
Ecco cosa farò: domattina quella busta la porterò alla Polizia.
In commissariato, posso rivolgermi all'ispettore Iannone, che ho conosciuto qualche settimana fa al Country Club, quella sera che ho accompagnato il direttore, che mi ci aveva invitato a cena.
Il segretario del Country Club è anche il presidente dell'Ordine dei giornalisti pugliesi e così ci ha tenuto a presentarci all'ispettore, anche lui socio del club, strizzando appena l'occhio al direttore, come a suggerire che non guasta mai avere conoscenze nell'ambiente dei tutori della pubblica sicurezza.
Iannone mi è parso un ragazzo sveglio, molto simpatico e disponibile. Ha solo un paio d'anni più di me e abbiamo subito stretto amicizia, accomunati dal ricordo di quanto i nostri padri abbiano avuto influenza sui nostri rispettivi percorsi di vita. Solo che nel suo caso, la scelta di iscriversi a quel concorso in Polizia, più che altro per compiacere suo padre, è risultata decisiva, dal momento che in Polizia poi c'è entrato davvero e ci è rimasto.
Io invece... vabbè, è andata come doveva andare.
Talvolta, sono ancora turbato dal pensiero di aver potuto in qualche modo peggiorare lo stato di salute già precario di mio padre.
Sì, senza dubbio, è meglio andare alla Polizia e che se la sbrighino loro.
***
Ieri sera ho faticato un bel po' ad addormentarmi, ma non credo sia stato per i molti caffè che mi capita di bere durante la giornata di lavoro al giornale. È che continuavo a farmi domande su quella busta con quella strana chiave macchiata di sangue.
Ormai da un paio d'anni non mi occupo più di cronaca nera e non mi pare probabile che quell'anonima busta gialla possa avere qualcosa a che fare con inchieste di cui mi sono occupato in quel periodo.
D'altro canto, devo riconoscere che ho percepito subito dentro di me la sensazione che quella mia passata esperienza professionale mi stava già legando a quella chiave e a quanto di misterioso poteva nascondere.
Non potevo sbagliare, la conoscevo bene quella specie di stretta allo stomaco che prelude all'azione e sapevo che non sarei riuscito a lasciare del tutto la questione nelle mani della Polizia.
Ho dormito poco e male. Così mi sono alzato di buon'ora e adesso eccomi già qui in commissariato.
Ho chiesto dell'ispettore Iannone.
Al piantone però ho lasciato solo il mio nome e cognome, senza specificare che sono un giornalista della Gazzetta.
Iannone mi ha riconosciuto subito e mi accoglie con un largo sorriso nel quale il bianco dei denti spicca ancora di più per l'abbronzatura che lui cura di mantenere durante tutto l'anno, quasi che si fosse sempre nel mezzo di una lunga e interminabile stagione estiva.
Sì, il termine ‘cura' è proprio quello giusto, considerato il fatto che l'ispettore ha la costanza di frequentare, con sistematicità durante tutto l'anno, un centro estetico per sottoporsi a sedute specifiche che gli consentono di mantenere sempre quella bella pelle abbronzata.
«Valerio, che sorpresa! Ho proprio piacere di rivederti» mi dice, tendendomi la mano e stringendola con decisione.
Poi, corrucciando appena la fronte e atteggiando ad arte il viso a un'improvvisa preoccupazione, aggiunge: «Sei qui per la Gazzetta o solo come amico?».
«Il giornale non c'entra;» lo tranquillizzo, sorridendo «ho un problema personale di cui voglio parlarti».
Ci accomodiamo nel suo ufficio e depongo subito sulla sua scrivania la busta gialla, descrivendo in sintesi come mi è stata recapitata.
Iannone si fa serio, apre con circospezione la busta e ne fa scivolare il contenuto sul passacarte della scrivania. Con la punta di una biro scosta e rigira la chiave, guardandola come se le stesse facendo una specie di muto interrogatorio.
Si liscia la barba bruna ben curata, poi alza lo sguardo verso di me: «Per sicurezza la farei analizzare, ma questa macchia sull'impugnatura mi sembra proprio... sangue».
Gli faccio un cenno d'assenso per confermargli che lo penso anch'io.
«Qualche sospetto sulla possibile provenienza di questa busta?» mi chiede, con un tono che tradisce la consapevolezza di una probabile risposta negativa.
Faccio spallucce e gli rispondo: «Qualche anno fa, non me ne sarei meravigliato più di tanto. Negli ambienti che frequentavo per il mio lavoro di cronista di nera c'era sempre qualcuno pronto a fare una soffiata rimanendo nell'ombra, ma da tempo ormai ne sono fuori. L'unica cosa che mi viene da pensare è che si tratti di qualcuno con cui all'epoca ho avuto a che fare o che magari sa del mio passato di cronista di nera e, per qualche motivo, che ovviamente non lascia presagire nulla di buono, vuole che io sappia qualcosa senza dovermela dire di persona. Non vuole andarci di mezzo, insomma».
«Capisco» mormora l'ispettore, come soprappensiero.
Poi aggiunge: «La faccio analizzare e ti faccio sapere. Magari viene fuori qualcosa che ci può aiutare a capire. Ho memorizzato il tuo numero di telefono che mi hai dato quando ci siamo conosciuti al Country. Ti chiamo io appena so qualcosa».
Sono trascorsi tre giorni dal colloquio con il mio amico ispettore e ho ripreso la routine quotidiana al giornale, ma continuo ad attendere con trepidazione che lui si faccia vivo per dirmi cosa è riuscito a scoprire su quella chiave.
È poco prima dell'ora di pranzo quando mi arriva la tanto attesa telefonata.
Riconosco subito la voce di Iannone: «Valerio, se riesci a liberarti, ci possiamo vedere durante la pausa pranzo. Ho delle novità sulla storia della chiave insanguinata. Magari ci possiamo mangiare insieme una cosa veloce. Facciamo che ci vediamo a quel bar all'angolo di Piazza Umberto, vicino all'Università, che ne dici?».
«D'accordo, Cosimo» rispondo subito.
Circa un'ora più tardi, mi avvio all'appuntamento.
Arrivo a Piazza Umberto che Iannone è già lì, seduto a un tavolo del bar. Ordino un sandwich e lui un succo di pomodoro, che pare sia l'unica cosa che ha l'abitudine di prendere a pranzo.
«In un certo senso siamo stati fortunati,» attacca l'ispettore, appena si allontana il cameriere che è venuto a prendere le ordinazioni «perchè dalle analisi di laboratorio, che ho fatto fare in via, diciamo così, ufficiosa, ho potuto capire di chi è il sangue sull'impugnatura della chiave, facendo un confronto con i dati d'archivio di casi recenti. Si tratta di un tale Filippo Rotundo, un trentaduenne che faceva il fotoreporter freelance, un tizio con pochi scrupoli, che viveva di espedienti e ricatti. È stato trovato in fin di vita in casa sua circa un mese fa e poi è deceduto al Policlinico. Qualcuno l'aveva conciato proprio male e... insomma, non ce l'ha fatta».
Un'espressione di triste stupore dev'essersi stampata sul mio viso, perché Iannone mi chiede: «Ma che, lo conoscevi?».
«Sì, sì, lo conoscevo. Filippo è stato mio compagno di scuola alle medie. È sempre stato un tipo irrequieto, sempre alla ricerca di qualcosa che forse non sapeva nemmeno lui cos'era. I genitori si erano separati quando lui aveva appena otto anni e lui deve averne risentito non poco.»
Ricordo Filippo come un tipo un po' introverso, pronto ad attaccar briga con tutti alla prima occasione e che in classe sembrava sempre accettare con difficoltà l'obbligo a restare seduto al suo posto, come se ci stesse sempre scomodo e in attesa solo del suono della campanella della fine delle lezioni.
«Sapevi delle sue attività professionali, diciamo così, abbastanza spericolate?» mi chiede ancora Iannone.
«Dopo le medie ci siamo persi di vista per un bel po'. Avevo saputo da amici comuni che si era iscritto a Ingegneria, ma, dopo due anni, non aveva fatto neppure un esame e così si era dedicato a coltivare il suo hobby per la fotografia, fino a farlo diventare la sua attività professionale. L'ho solo incrociato qualche volta in giro quando al giornale mi occupavo di cronaca nera. Gliel'avevo detto che, a forza di bazzicare gli ambienti più equivoci della città, prima o poi si sarebbe cacciato in qualche brutto pasticcio, ma non mi ha voluto dare ascolto. Se c'entra lui in questa storia, qualcuno forse ha voluto dirci qualcosa sulla sua morte; qualcuno che, per qualche motivo, non vuole entrarci, ma magari sa che io ero suo amico e un tempo mi occupavo di cose del genere.»
«Lo penso anch'io» conferma l'ispettore Iannone, annuendo.
Attende che se ne vada il cameriere, tornato al nostro tavolo con il sandwich e il succo di pomodoro che abbiamo ordinato.
Poi riprende: «Il problema è scoprire chi è. Tu hai qualche idea o comunque potresti cercare di saperne di più su questa storia? Noi ci abbiamo provato quando hanno ammazzato il tuo amico, ma, oltre ai suoi vecchi genitori, che non sapevano nulla dei suoi traffici, non si è fatto avanti nessuno. Nessuno sapeva niente e nessuno aveva visto niente. Mi pare probabile che, come spesso capita, considerate le modalità dell'omicidio, nessuno abbia voluto esporsi».
La risposta di Iannone non mi convince del tutto.
Gli chiedo: «Ma possibile che non avete trovato proprio nulla, che ne so, impronte digitali o cose del genere? Chi ha chiamato la Polizia? Chi frequentava Filippo negli ultimi tempi? Avete interrogato...».
Iannone alza la mano destra per fermare il mio tumultuoso e improvvisato interrogatorio: «Valerio, ti ho già detto quel poco che siamo riusciti a scoprire finora. Comunque, il corpo di Rotundo in fin di vita l'ha trovato un vicino di casa, un ingegnere, pensionato e vedovo, che aveva sentito un po' di trambusto provenire dall'appartamento del tuo amico e la mattina dopo è andato a bussare alla sua porta per chiedergli cosa fosse successo. Dal momento che Rotundo non gli rispondeva, ha allertato il portiere dello stabile, che aveva una copia delle chiavi dell'appartamento e, quando sono entrati, l'hanno trovato a terra, pestato a sangue, in fin di vita. L'ingegnere ci ha detto che loro non hanno toccato nulla e, in effetti, abbiamo verificato che le uniche impronte digitali rilevate nell'appartamento, oltre quelle di Rotundo, non erano né le sue né del portiere. E comunque queste impronte sono state rilevate per lo più in bagno e, in minor misura, in cucina, dove Rotundo è stato malmenato e si tratta di impronte che potrebbero essere di una donna, che forse frequentava il tuo amico e che non siamo riusciti a identificare, perché nessuno ha saputo o voluto darci informazioni in merito. Comunque, non credo che possa essere stata lei a conciare il tuo amico in quel modo; quello sembra un lavoro fatto da professionisti, che hanno pure preso la precauzione di usare i guanti per non lasciare tracce».
«E che idea vi siete fatti?» insisto.
Iannone mi fornisce qualche altro particolare: «Sai che Rotundo si muoveva in quella zona grigia contigua alla criminalità locale. Magari stava ficcando il naso in qualcosa che l'ha spinto a pestare i piedi a qualcuno, che gli ha voluto dare un avvertimento. La cosa deve essere andata troppo oltre per qualche motivo e lui ci ha rimesso le penne».
«E come intendete procedere adesso?» azzardo ancora.
Iannone sorride e accenna a uno sguardo severo: «Mi stai facendo il terzo grado? Comunque, stiamo cercando di saperne qualcosa di più da qualche informatore, ma sai bene anche tu che non sarà facile, se il pasticcio in cui Rotundo si è ficcato è troppo grosso. E poi devo confessarti che un fotoreporter da quattro soldi che bazzicava gli ambienti della criminalità barese non agita certo i sonni del mio capo, il commissario Morelli».
«Chi è questo Morelli? È nuovo?» gli chiedo.
«È qui da qualche mese. Viene da Roma. Oh, qui lo dico e qui lo nego: dicono che sia stato assegnato al Commissariato di Bari per allontanarlo da Roma in via precauzionale, dopo che nella capitale era stato sospettato di collusione con un'organizzazione clandestina di gestione di immigrati, pur se lui se ne è sempre dichiarato estraneo.»
«Ah! E che tipo è?» insisto.
«Senti, la prima impressione è che sia un tipo piuttosto accomodante, molto attento a non pestare i piedi alla gente che conta. Gestisce il commissariato in modo abbastanza... personalistico, diciamo così.»
Rimaniamo alcuni istanti in silenzio, ciascuno immerso nei suoi pensieri.
Per parte mia, sto incominciando a pensare che forse non potrò fare molto affidamento sul fatto che la Polizia risolva il mistero di quella busta che mi hanno recapitato in modo anonimo. Forse dovrò interessarmene di persona, più di quanto avessi pensato di fare in un primo momento, anche se, in fin dei conti, non credo me ne dispiaccia poi più di tanto.
Comunque, staremo a vedere.
Io do gli ultimi morsi al mio sandwich e lui finisce di bere il suo succo di pomodoro. La pausa pranzo si sta esaurendo per entrambi.
Iannone riprende il filo del discorso: «Allora, se ti viene in mente qualcosa, fammi sapere. D'accordo?».
«Vedrò quello che riesco a fare...» gli dico d'istinto, in realtà senza avere nessuna idea al riguardo.
L'ispettore, per parte sua, mi mette in guardia: «Valerio, mi raccomando, però, muoviti con discrezione e non fare nulla di avventato. Non metterti a giocare al tenente Colombo. Se ti viene in mente qualcosa, tienimi informato e, nel caso, lascia che siamo noi ad approfondire la questione».
Faccio una smorfia d'intesa poco convinta, finiamo la pausa pranzo con l'immancabile caffè e ci salutiamo.
***
La raccomandazione dell'ispettore Iannone era stata chiara, ma avvertivo forte la tentazione del vecchio cronista di nera di rimettersi in gioco e sentivo che non sarebbe stato facile resisterle. Mi conosco troppo bene.
«Un soldino per i tuoi pensieri» la voce cristallina di Rosaria mi scuote dal turbinio dei miei dubbi. I suoi occhi azzurri come il mare d'estate mi fissano come se cercassero di afferrarne al volo qualcuno.
Rosaria è la mia ragazza, fa la biologa ed è qualche anno più giovane di me. Stiamo insieme solo da qualche mese, ma pare che la nostra relazione stia diventando sempre più importante per entrambi. Approfittando della circostanza che stasera ho finito il lavoro al giornale a un'ora accettabile, l'ho chiamata e ce ne siamo venuti a cena in questo ristorante affacciato sul mare, pochi chilometri a sud della città.
Non stiamo insieme da tanto, ma ormai lei si accorge subito quando c'è qualcosa che mi preoccupa e che mi allontana da lei, anche se in quel momento siamo insieme. E questo è proprio uno di quei momenti.
Non dovrebbe essere così, ma quell'anonima busta gialla ha dato uno scossone alla mia tranquilla quotidianità, che credevo ormai consolidata.
«Hai ragione, penso sia meglio che ti racconti tutto» rispondo, scuotendomi dalla specie di ‘trance' in cui sono caduto.
Così le racconto nel dettaglio la storia della busta gialla e della chiave insanguinata, di Filippo Rotundo e delle circostanze in cui è stato assassinato, del mio colloquio con l'ispettore Iannone e delle sue raccomandazioni.
«E tu cos'hai intenzione di fare?» mi chiede, dopo aver ascoltato in silenzio tutta la storia, con il tono di chi ha già qualche sospetto.
«Ancora non lo so» mormoro, girando lo sguardo verso il mare come a cercare un'improbabile ispirazione.
Per qualche attimo sento solo lo sciabordio delle onde del mare, appena increspato, sotto di noi. I miei occhi inseguono le luci delle lanterne delle barche al largo, che punteggiano l'oscurità della notte.
La mia risposta vaga ha confermato a Rosaria i suoi sospetti.
Lei mi chiede sottovoce: «Perché non lasci la questione nelle mani della Polizia? Il tuo amico ispettore potrebbe tenerti informato sugli sviluppi delle indagini».
«Hanno già indagato sull'omicidio di Filippo. Finora non hanno scoperto quasi nulla e ho motivo di credere che non si danneranno l'anima per scoprire chi l'ha ammazzato. In fondo, Filippo era mio amico...» rispondo, quasi sussurrando le ultime parole.
«È per quello che vuoi occupartene? Perché era un tuo amico?» mi chiede Rosaria.
La mia risposta, in qualche misura, è già rivelatrice.
«Filippo era uno che viveva di espedienti, ma non doveva finire così. E poi, ormai dovresti sapere che, quando so che c'è una verità nascosta da far venir fuori, non riesco a lasciar perdere. È più forte di me.»
«Valerio, sai che non sarò certo io a dissuaderti, ma, ti prego, non dimenticare la raccomandazione del tuo amico ispettore. Sii prudente!» commenta Rosaria.
Intanto sono arrivati i gamberoni alla griglia e la nostra cena può incominciare.
Al resto ci penseremo domani. Dopotutto, domani è un altro giorno.
Stanotte ho dormito tranquillo, forse per il fatto che ormai ho maturato la mia decisione: in qualche modo, devo occuparmi dell'omicidio di Filippo, se non altro per cercare di fornire qualche indizio in più alla Polizia.
Ma niente più di questo. Promesso.
Lo devo a Rosaria e anche al mio amico ispettore, che mi hanno detto entrambi con chiarezza di non correre inutili rischi.
Purtroppo, dovrò ristabilire qualche vecchio contatto con quel mondo di mezzo, nel quale bazzicava Filippo e che, per un po' ho frequentato anch'io tempo fa.
Da qualche parte devo ancora avere il numero di telefono di Giampaolo Capozzi. Ci siamo conosciuti all'Università, che anche lui frequentava. Giampaolo è cugino del boss di uno dei clan che gestiscono il mercato della droga a Bari. Non è un operativo, visto che si occupa solo delle questioni amministrative della famiglia, ma è comunque a conoscenza di parecchie informazioni su quel mondo. In passato, mi è capitato di chiedergli qualche dritta e lui, purché non si trattasse di informazioni che potevano danneggiare qualcuno del suo clan, mi ha spesso dato una mano.
Lo chiamo.
Lui mi risponde subito mostrando una certa sorpresa: «Valerio, di nuovo sulla breccia?».
«No, Giampaolo;» preciso «ormai mi occupo di altro al giornale. Ho solo bisogno di un favore personale. Quando possiamo vederci senza dare nell'occhio, come ai vecchi tempi?».
Lui accetta subito, senza chiedermi nulla: «Se per te va bene, ci possiamo vedere alle undici al solito posto al Parco “2 Giugno”».
Ci metto poco più di una decina di minuti dalla sede del giornale e arrivo all'appuntamento anche con qualche minuto di anticipo.
Giampaolo arriva qualche minuto dopo e si avvia al chiosco di un piccolo bar. Ordina un caffè. Io lo affianco e faccio altrettanto, anche se ne ho già presi quattro stamattina e questo non sarà certo l'ultimo.
Ci allontaniamo di qualche passo dal chiosco, camminando poco discosti l'uno dall'altro.
Giampaolo gira appena lo sguardo verso di me, accennando un sorriso. Non ci vediamo da anni, ma tra amici non ci si perde mai davvero e non servono convenevoli quando ci si ritrova.
Gli racconto della busta gialla, della chiave insanguinata e di Filippo Rotundo.
Quando sente il nome di Rotundo, irrigidisce un po' l'espressione del viso e mi chiede: «Se t'interessa sapere qualcosa su di lui, ti avverto che non ne so molto di più di quanto sia riuscita a scoprire la Polizia. So solo che negli ultimi tempi doveva aver pestato qualche merda bella grossa, perché so che c'era qualcuno che si stava interessando a lui con intenzioni poco rassicuranti. Al momento, non so dirti di più».
Gli chiedo: «Per caso, sai se Filippo aveva qualche relazione? In casa sua le uniche impronte rilevate dalla Polizia sembrano appartenere a una donna che la Polizia non è riuscita a identificare».
«Su questo posso dirti che negli ultimi tempi il tuo amico si accompagnava a una tossica, una certa Elisa Cianciola, una biondina, che faceva la commessa in un negozio di abbigliamento in Via Sparano» mi racconta Giampaolo.
«Sai come rintracciarla?» mi azzardo a chiedergli.
«No, ma posso saperlo. Sono a tua completa disposizione. Ti serve altro?» ribatte divertito.
Faccio un cenno di diniego.
Giampaolo sorride e, facendomi l'occhiolino, mi dice: «Ti faccio sapere. Alla prossima, Valerio».
***
Sono tornato al giornale e, mentre faccio il mio spuntino durante la pausa pranzo, mi sto chiedendo se posso farmi bastare quello che sono riuscito a sapere sulla donna di Filippo Rotundo e se ora non sia il caso di passare il testimone all'ispettore Iannone.
Lui potrebbe convocarla in commissariato, interrogarla e farsi dire di cosa si stava occupando Filippo che fosse una merda così grossa, come aveva detto Giampaolo, da attirare le attenzioni di quelli che l'avevano pestato a sangue.
No, non mi basta.
Resterebbe il mistero su chi mi ha mandato quella busta anonima e perché proprio a me.
E poi Iannone mi ha fatto capire fin troppo bene che scoprire chi ha fatto fuori Filippo Rotundo non è certo una priorità per il commissario Morelli.
Per tutta la giornata ho continuato a chiedermi a quale livello voglio porre l'asticella del mio coinvolgimento in questa faccenda. Credo però che sia una domanda alla quale il mio subconscio, almeno per il momento, non intende dare una risposta definitiva.
Nel tardo pomeriggio, squilla il telefono. È Giampaolo.
Salta i convenevoli e mi dice subito: «Se t'interessa, puoi rintracciare Elisa Cianciola in una comunità per tossicodipendenti che ha sede alla periferia sud ovest di Bari, in una struttura sequestrata alla criminalità organizzata e assegnata alla cooperativa sociale ‘Rinascita'. Il responsabile è un certo Vittorio Iaquinta».
«Che tipo è questo Iaquinta?» gli chiedo.
Giampaolo è netto: «Non è di qui; mi pare sia originario della provincia di Lecce. È uno senza mestiere, come si dice qui da noi. So che è stato sempre intrallazzato con la politica, uno che non fa niente per niente. Anche i dipendenti della cooperativa sono tutte persone propostegli dai suoi contatti politici, che si estendono a tutti i partiti».
Lo ringrazio e chiudiamo la comunicazione.
Raccolgo in rete qualche informazione su questa cooperativa e decido di andarci il giorno dopo.
All'accettazione mi accoglie con un sorriso di circostanza uno dei soci della cooperativa.
«Vorrei parlare con la signorina Elisa Cianciola» gli dico.
Lui mi chiede se sono un parente e, quando gli rivelo che sono solo un amico, obietta: «In tal caso, non posso farla parlare con la paziente, ma, se vuole, posso farla ricevere dal nostro responsabile, il signor Vittorio Iaquinta. È spesso fuori sede, ma, per fortuna, stamattina è nel suo ufficio. Può sottoporre a lui la sua richiesta».
«Visto che sono così fortunato, facciamo questa richiesta al signor Iaquinta» rispondo con un tono che deve risuonare sarcastico, al mio interlocutore, che si mostra un tantino interdetto.
Iaquinta, interpellato al telefono, mi riceve subito, accogliendomi con un sorriso appena accennato in un angolo della bocca.
La prima impressione è quella di un quarantenne dall'aspetto un po' trasandato, con lo sguardo sfuggente e i capelli lisci e impiastricciati di gel, tenuti più lunghi del normale.
L'ufficio è arredato in modo abbastanza spartano. Sulla parete dietro la scrivania, oltre a un piccolo crocifisso e alla foto del presidente Scalfaro, un paio di poster del Bari e una stampa da quattro soldi di Parigi. La scrivania invece è bella grande, di un legno massello scuro, forse noce, tale da dare una certa aura d'importanza al suo possessore.
Esauriti i convenevoli, mi chiede: «In cosa posso esserle utile, signor... Di Stefano, giusto?».
Io mi atteggio a un'espressione di leggera preoccupazione e replico in modo generico: «Ho saputo che è ricoverata qui da voi una mia amica che non vedevo da tempo, la signorina Elisa Cianciola e ho pensato di venirla a trovare per salutarla e vedere come sta».
«Capisco, signor Di Stefano, ma... vede, la condizione dei nostri assistiti richiede una particolare discrezione e il rispetto assoluto della loro privacy. A meno che non si tratti di parenti stretti, preferiamo non turbare la serenità dei nostri ospiti» mi risponde Iaquinta, con espressione tanto contrita quanto falsa.
Non sono abituato a fare marcia indietro al primo ostacolo e ribatto: «Certo, direttore, mi rendo conto della situazione e apprezzo molto il vostro modo di operare. So come vanno queste cose; sono caporedattore alla Gazzetta e mi è capitato altre volte di visitare strutture come la vostra. Anzi, non le nascondo che, nel vostro caso, data la particolare situazione meritoria di riutilizzo di un bene sottratto alla criminalità organizzata, approfitterei della circostanza per chiederle di concedere un'intervista al mio collega che sta conducendo un'inchiesta proprio sul tema dell'utilizzo dei beni confiscati alle mafie. Ritengo che sarebbe interessante per i nostri lettori saperne di più sui servizi socioassistenziali che voi offrite ai vostri assistiti. Peraltro, non potrei che trattenermi solo per pochi minuti con la signorina Cianciola, perché, come può immaginare, devo rientrare al giornale».
Ho la sensazione di aver toccato il tasto giusto con Iaquinta, perché vedo che gli occhietti gli si sono a poco a poco illuminati di furbizia, man mano che sta metabolizzando l'idea di essere protagonista di un articolo importante sulla Gazzetta.
Mi sorride e mi dice mellifluo: «Quand'è così, penso che potremmo considerare senz'altro il suo colloquio con la nostra assistita alla stregua di una parte del vostro servizio giornalistico sulla nostra struttura. Le faccio chiamare subito la signorina Cianciola e... se posso chiedere, quando potremmo fare la mia intervista con il suo collega?».
«Ah, senz'altro nei prossimi giorni la faccio chiamare dal collega per prendere accordi» lo rassicuro subito, mentendo con naturalezza da attore consumato.
Elisa Cianciola mi raggiunge poco dopo. Indossa un abitino leggero, di un celeste slavato come quello dei suoi occhi, i capelli biondi sono lisci come spaghetti e la carnagione pallida.
Mi rivolge sguardi sfuggenti e sospettosi, mentre si torce le mani una nell'altra, come se volesse terminare il colloquio il più in fretta possibile o magari non iniziarlo affatto.
All'infermiere che l'accompagna propongo di poter fare due chiacchiere con lei nel piccolo parco prospiciente la struttura.
Lui esita qualche istante, poi, considerato il fatto che posso contare sull'autorizzazione personale del direttore della struttura, acconsente a lasciarci soli.
Ci sediamo su una panchina all'ombra di un grande platano.
«Elisa, tu non mi conosci e ti chiedo scusa se sono venuto a disturbarti qui, ma sono un vecchio amico di scuola di Filippo e qualche giorno fa ho saputo del suo... incidente e so che tu eri la sua ragazza» esordisco per rompere il ghiaccio.
Lei mi rivolge uno sguardo furtivo e con una voce flebile risponde: «So chi è lei. Filippo mi aveva parlato tempo fa del suo amico che era un importante giornalista della Gazzetta e che si occupava di cronaca nera. Io però non sono più la sua ragazza; ci siamo lasciati qualche settimana prima del suo... incidente, come dice lei».
«Scusami, questo non lo sapevo. Però, stavate insieme da un po', mi pare?» cerco di correggere il tiro.
Lei scuote appena la testa: «Saranno almeno due anni. Io facevo la commessa in un negozio di abbigliamento a Via Sparano».
Capisco che Elisa non è molto propensa a parlare della sua storia con Filippo e le chiedo: «Vi siete conosciuti lì?».
Lei fa un sorriso appena accennato in un angolo della bocca: «No. Io ho sempre avuto il sogno di fare la modella. Non c'è niente di male, giusto? Tante ragazze come me ce l'hanno. Ho conosciuto Filippo per caso a una festa e gli ho chiesto di realizzare un ‘book' di foto per promuovermi presso le case di moda.»
«Posso chiederti com'è che poi sei finita qui?» azzardo ancora.
Elisa esita un po' prima di rispondere: «Non ho mai ricevuto risposta dalle case di moda alle quali mi ero proposta, così sono caduta in depressione e ho cercato rifugio nella droga. Filippo mi diceva di smettere, ma io non ci riuscivo. Poi abbiamo rotto e ho deciso di uscirne. E così... ora sono qui. Me n'ero andata via di casa e ora la mia famiglia non vuole più saperne di me».
Decido che è il momento di andare al sodo e le dico: «Sto cercando di capire chi può aver malmenato in quel modo Filippo e così ho pensato di chiedere a te se sai di che cosa si stava occupando negli ultimi tempi, che magari possa averlo messo nei pasticci. Qualcuno ha pensato di farmi trovare sulla soglia di casa mia una busta anonima che conteneva una chiave macchiata di sangue, che poi è risultato essere di Filippo. Hai idea di chi possa avermela mandata?».
Elisa mi guarda di sottecchi con un'espressione intimidita.
Si torce ancora le mani un paio di volte, poi, sempre tenendo lo sguardo basso, mi dice: «Ecco... per la verità, sono stata io a farle avere quella busta. Come le ho detto, sapevo che lei era un giornalista amico di Filippo. Per... motivi miei, non volevo avere a che fare con la Polizia e così... ho pensato a quella busta».
«Sì, ma quella strana chiave come l'hai avuta? Che cosa apre? E com'è che è macchiata del sangue di Filippo?» le chiedo, per approfittare di quella specie di momento della verità.
Lei si guarda con insistenza la punta delle dita, tenendo le mani raccolte sulle ginocchia e mi spiega: «Dopo che la Polizia ha tolto i sigilli all'appartamento di Filippo, io ci sono tornata di nascosto per riprendere alcune cose mie che erano rimaste lì; avevo ancora una copia delle chiavi che mi aveva dato Filippo. Mi è caduto un orecchino sul pavimento della cucina e, quando mi sono chinata per prenderlo, ho notato la chiave sotto la dispensa. Non so com'è che stava lì. Forse è caduta dalle mani a Filippo mentre lo pestavano o magari l'ha fatta cadere lui apposta, così non gliela trovavano addosso. Non capisco come mai la Polizia non l'ha trovata. Però, non so cosa apre quella chiave».
«E non sai di che cosa si stava occupando Filippo in quel periodo?» faccio un ultimo tentativo, mentre sull'uscio della struttura si affaccia Iaquinta e guarda con una certa insistenza verso di noi, forse per ricordarmi i miei impegni al giornale.
Elisa risponde decisa: «Se lei conosce Filippo, sa che non diceva mai a nessuno di cosa si stava occupando e quindi nemmeno a me».
In realtà, non mi aspettavo una risposta diversa. Filippo era un uomo senza scrupoli, che navigava sempre in acque pericolose sul confine dell'illegalità, ma non era uno sprovveduto e sapeva bene che meno persone sapevano delle sue attività e meno rischi correva lui.
Elisa aggiunge: «Negli ultimi tempi doveva avere a che fare con una cosa un po' pericolosa, perché capivo che era preoccupato, anche se lui non me lo diceva».
Eh, già! La merda bella grossa di cui mi aveva parlato Giampaolo Capozzi.
Filippo non era uno che si intimidiva tanto facilmente e, se era davvero così preoccupato per la questione di cui si stava occupando, come diceva Elisa, doveva senz'altro trattarsi di una cosa di particolare rilevanza e i rischi che correva erano abbastanza più importanti di quelli cui ormai aveva fatto l'abitudine.
Ringrazio Elisa Cianciola e la lascio alle cure di Iaquinta e dei suoi collaboratori.
Iaquinta mi indirizza un cenno di saluto con un leggero movimento del capo, come a ricordarmi l'impegno preso con lui e io ricambio con un sorrisetto rassicurante.
Comunque, è inutile negarlo: ormai sono di nuovo sulla breccia.
Sabino Napolitano
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