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Writer Officina
Autore: Massimo Berti
Titolo: L'inganno del labirinto
Genere Thriller psicologico
Lettori 5
L'inganno del labirinto
Quando non è la sveglia a scaraventarmi giù dal letto, ci pensa il maledetto ululato del vento.

‘Dannata Abby, ma che diavolo sei tornata a fare in questo buco di culo lontano dal mondo, in mezzo ai lupi?'

Mi alzo, decisa a scalciare altrove piumone, cuscini e lupi.

Ieri sera sono crollata di piombo, sopraffatta prima del solito dal peso di un giorno qualunque.

Ecco, forse, spiegato il motivo del perché stamani la tempesta lì fuori ha avuto gara vinta così presto: non dormo più di cinque ore a notte.

Sta di fatto che ormai sono sveglia e che resto a guardare la neve danzare scomposta in mulinelli astratti.

Il ghiaccio nel buio oltre la vetrata pare ingigantirsi di livello a vista d'occhio, minuto dopo minuto.

Sono consapevole di potermi godere ancora per poco quei venti e passa gradi che si trasformeranno presto in meno quindici, non appena avrò messo piede fuori dalla porta, come ogni mattina; non appena febbraio mi avrà avvinta al suo dannato alito.

E sarà una giornata di merda.

Non solo per il clima rigido. A quello mi sono assuefatta sin da ragazza, lo trovo una compagnia familiare.

Le Montagne Rocciose, che hanno circondato la mia giovinezza e che d'inverno mi oscuravano il sole per mesi, a suo tempo mi hanno plasmata, hanno modellato la mia tempra e levigano adesso i miei quarantotto anni.

Sono come loro, imperscrutabile, scura, sola.

Sarà una giornata di merda perché non ho idea di che diamine scrivere sulla relazione che descriva il profilo di quel mostro.

Qui a Jackson nessuno uccide in questo modo. Si stupra, si ruba, si uccide, anche. Ma in questo modo, no...

Eleanor Ridley era la più bella della città.

Chi di noi l'ha martoriata? Perché è di certo uno di noi che l'ha ridotta così, quattro mesi fa.

Ed è ancora qui, è uno del posto, me lo sento, ne sono sicura.

Tutti si aspettano che io sia in grado di fornire una dettagliata descrizione di quel demonio. Per poi acchiapparlo e impiccarlo alla vecchia maniera dei cowboy, a dispetto dell'abrogazione della pena di morte in questo Stato.

Naturale: l'unica psichiatra esistente, non solo in questa regione, ma forse in quasi tutto il Wyoming, dev'essere in grado di tracciare, secondo loro, in poco tempo e in assenza di indizi accurati, il profilo di un criminale da appendere a un albero per il collo.

E io non ho ancora scritto una sola riga, in questi mesi.

Non ho idea di che scrivere.

Tranne che per la svastica sulla schiena: come quelle che disegnava David Patsey, tanti anni fa.

‘La svastica incisa sul cadavere è di sicuro un indizio forte'.

Brian, quel dannato vecchio con la stella da sceriffo, la sta aspettando per il pomeriggio, la mia maledetta relazione.

L'accelerazione è diventata spasmodica, perché nel frattempo c'è stato il rapimento di Martha Hoffmann.

Martha è una persona molto importante in città, a differenza di Eleanor, e l'FBI sta già mandando qualcuno da Cheyenne.

Sarebbe già arrivato se non fosse stato per il maltempo, per il ghiaccio, per i lupi.

Tutti danno per sicuro che la mano che ha rapito Martha tre giorni fa sia la stessa che ha massacrato Eleanor nell'ottobre scorso.

E si teme che anche per Martha il destino sarà uguale.

La prima bellissima, la seconda ricchissima. Amiche. Si conoscevano sin da ragazze. Ci conoscevamo tutte sin da ragazze.

È ora di voltare le spalle al contrasto accecante di quel bianco e scuro che mi circonda da oltre la finestra.

Mi allontano dalla stanza distendendomi in una stiracchiata che ottiene per il momento l'effetto di distrarmi da quelle considerazioni e di concentrarmi soltanto sulla perfezione di uno sbadiglio.

Mi piace camminare scalza, sentire il legno riscaldato coccolare la pianta dei piedi, assaporare il profumo di caffè che il bollitore a timer ha cominciato a diffondere ubbidiente per aria all'orario programmato ieri sera.

I lavori per ristrutturare questa vecchia casa, che ora mi assomiglia di più, sono appena terminati e me ne voglio godere appieno il risultato, in ogni dettaglio.

È la seconda volta che uccido una donna.

Riascolto col pensiero queste parole. Improvvisamente. Rivivo il contatto di quell'uomo.

L'ultimo paziente di ieri sera.

Era lì in sala d'aspetto, per la terapia, ma senza appuntamento.

‘Non c'entra nulla con Eleanor e Martha, vedrai' – suggerisco a me stessa, in un confronto rapido di pensieri che sa addirittura di dibattito, frutto di domande e risposte sussurrate con convinzione.

Magari era un mitomane.

Ne capitano molti, più di quanti si creda.

Nella mia vita professionale ne ho incontrati a bizzeffe.

Sono quasi sempre uomini che in genere ce l'hanno con la moglie. Vaneggiano di efferatezze verso di lei o un suo simulacro, sublimano la sensazione di quell'ego-dominante, prima di tornare a casa dimessi e mansueti come pecorelle. Innocui. È una sorta di valvola di sfogo, per loro. Nella mia storia di strizzacervelli ho anche incontrato un Gesù pronto a morire in croce di nuovo.

Lui, quello di ieri sera, è uno di questi. Un innocuo, probabilmente.

In questo cesso di posto.

‘Senti comunque Brian, più tardi, è un indizio che può valere la pena riferirgli'.

Perché, però, non ricordo il nome di quel tipo?

Non è normale. E non è possibile che non me lo sia appuntato, non è da me. Ho l'impressione di non rammentarne nemmeno l'aspetto. È come se fosse sfuggente.

Mi spoglio, mentre il getto della doccia si fa incandescente nel vapore della cabina.

Osservo il mio corpo nudo interrogarmi dal riflesso dello specchio a piena immagine, come ogni mattina, come in un rituale neutro.

E mi distraggo ancora.

Mi piace il mio nome, Abigail.

Ho un colorito pallido, da sempre, sin da bambina.

I pochi amici che ho avuto, sempre gli stessi, mi dicevano che, a partire dal colore degli occhi, ero il clone di una famosa attrice di Hollywood ma a me, sinceramente, ogni volta veniva da ridere.

Con quell'attrice penso di avere in comune, al più, le tette microscopiche.

Chissà, forse sarà stato per un abbozzo di strabismo di Venere, per i miei capelli mossi e castani, che sin da giovane sono stata accostata a questa ingombrante somiglianza. Per il fatto che non usavo e non uso mai trucco.

Oggi la mia espressione sembra ancora sbarazzina a dispetto delle prime, evidenti, striature di bianco.

A dispetto della cicatrice sulla parte destra del mio viso.

Già, la cicatrice.

La sfioro, come ogni volta che mi osservo, quasi potesse scomparire in un tocco: una minuscola abrasione tra tempia e zigomo, procurata da bambina, chissà in che circostanza.

Non ne ho ricordo alcuno.

Soliti discorsi, soliti pensieri di chi vive, gesticola e parla da sola.

Richiudo le ante appannate alle mie spalle e lascio che il getto d'acqua si infranga sui capelli, lisciandomeli per quel po' che consente il mio taglio ordinato, corto, da donna matura. Qualche manciata di centimetri che a malapena arriva a sfiorare le spalle.

Vado orgogliosa della mia piccola lesione, non uso i capelli per mascherarla, nemmeno in parte, voglio che tutti la vedano. Penso che, in fin dei conti, sia il riflesso esteriore che conservo da sempre delle mie storture interne.

Passo ancora oltre, coi pensieri, e mi godo l'acqua scivolare addosso.

Adoro la sensazione bollente sulla pelle e il crepitio delle gocce ripide, di quel rassicurante, monotono rumore che riesce a coprire il sibilo del vento fuori, a far sparire lo scricchiolio delle assi sulle pareti in legno di questa vecchia casa che non ho mai condiviso con anima viva, da che sono tornata.

Socchiudo gli occhi, come se questo fare possa aumentare la gradevolezza del piacere.

Ho i brividi, con tanto di pori accapponati.

Come diavolo faccio ad avere i brividi sotto un getto d'acqua bollente sparato addosso?

Mi accorgo che sono in preda all'ansia e che mi lascio sorprendere da un pensiero repentino, proprio in questi attimi, mentre la pelle si accappona e improvvisa bizzarrie.

«Squillerà il telefono – mi annuncio a voce alta – e quella poliziotta di colore mi avviserà che è stata ritrovata anche Martha. Ammazzata».

Una fastidiosa sensazione mi stringe lo stomaco.

Un presentimento.

Sorrido, mentre il sapone scivola giù obbediente lungo l'interno delle cosce.

Fanculo anche i presentimenti. Insieme alle religioni e ai sogni premonitori, costituiscono una delle principali negazioni della scienza.

Sono l'unica psichiatra qui a Jackson, nemmeno diecimila anime tra le Montagne Rocciose, un paesello diventato famoso grazie all'ambientazione di un cavolo di videogioco.

Sono razionale.

E sono anche una consulente della polizia. Un profiler, come si dice oggi. Un ruolo mai formalizzato, ma di fatto è così.

Ci conosciamo tutti, da queste parti, ma evidentemente non anche l'assassino di Eleanor, non abbastanza da scrutarne la mente e individuarlo.

Ci vuole un profiler, pensa chiunque, per cavare un ragno dal buco: meglio, se si tratta di uno del posto, che conosca bene l'ambiente.

Io sono una che da giovane ci ha provato in tutti i modi a lasciarlo, questo posto, andando a studiare psichiatria alla Yale University di New Haven, a pochi passi da New York. È stato come aver cambiato pianeta. 

Una che poi però è tornata. Dopo trentadue anni. Nella casa di famiglia, dove da ragazza viveva con i genitori, ora che loro non ci sono più. Attratta dai fantasmi del passato.

Clay aveva un ranch, a quell'epoca. Era il più bel ragazzo della città e io avrei voluto sposare proprio lui. Se solo mi avesse mai guardata una volta.

Qui un po' tutti, a Jackson, possedevano un ranch con gli animali, prima che questo mucchio di case e fattorie si trasformasse in una stazione turistica, prima di essere invasi ogni inverno da sciatori mordi e fuggi. Prima che ognuno si accorgesse, qui a Jackson, che coi turisti si fanno soldi meno duramente che con i manzi e le vacche. E se ne fanno di più.

Sono tornata, sei mesi fa, dopo tutti questi anni, e ho trovato cambiata ogni cosa.

Martha Hoffmann, col turismo, di soldi ne stava facendo a palate, finché non è stata rapita.

Non c'è più traccia di sapone sulla mia pelle lucida.

Chiudo la doccia.

Devo staccarmi da quei ricordi: all'immagine sullo specchio appannato sembra proprio che frizionarmi d'asciutto il cuoio capelluto con più impeto del solito giovi allo scopo.

Sono ancora percorsa dai brividi, una decina di minuti dopo, quando il telefono squilla.

‘Sta suonando davvero'.

Guardo fissa me stessa interrogarmi attonita dalla facciata opaca del frigo.

Sto sorseggiando il mio beverone bollente dopo essermi rivestita e la mia espressione tradisce evidente l'imbarazzo di chi si sta scoprendo a constatare l'inconcepibile.

Mai successo che il telefono si sia fatto vivo a quest'ora.

Il mio presentimento di poco prima.

«Non può essere» – esclamo infatti a voce alta, rido, come se qualcuno fosse presente e potesse ascoltarmi, come a voler sottolineare per escludere, anziché rafforzare.

‘Abby, i presentimenti non esistono'.

Prima erano i brividi, ora sono i nervi a irrigidire i propri percorsi lungo l'epidermide.

Il telefono insiste, reclama attenzione e io alla fine rispondo.

«La dottoressa Fynn?» – La voce dall'altro capo del filo mi suona subito familiare, la devo aver già sentita. È lei, la poliziotta. Non c'è bisogno che si presenti.

«Sono io – rispondo. Ma vorrei aggiungere che qui a Jackson sono anche medico, di fatto, bambinaia, oltre che psichiatra; e veterinaria, al bisogno – con chi sto parlando?» – Chiedo per chiedere, pronta a completare o smentire la mia sorpresa.

«Sono Helena Ford, un'ispettrice di polizia. Lavoro con lo sceriffo della contea e la sto chiamando dal suo ufficio. Mi scusi se la contatto a quest'ora».

«Sì, so dov'è l'ufficio di Brian» – le replico subito, inutile. Ma resto guardinga, col fiato appeso a un filo, incapace di realizzare.

La doccia, il presentimento.

‘Dai, si tratta del solito déjà-vu, è un fenomeno che hai studiato e spiegato ai pazienti un sacco di volte'.

«Avrei bisogno di parlarle con urgenza, Abigail. Purtroppo, abbiamo una novità sui casi che lei sta seguendo con lo sceriffo, la sto contattando per suo conto».

Purtroppo è un incipit che non lascia presagire nulla di buono.

‘Dio, se ora ti dice che hanno ritrovato Martha...'

O magari devo ancora solo svegliarmi.

«Ho degli appuntamenti in studio, ispettrice – rispondo mentre corrodo il cervello – ma se l'urgenza è indifferibile potrei vedere di organizzarmi per essere da lei appena posso».

«È indifferibile, temo. Abbiamo appena rinvenuto Martha Hoffmann, la donna rapita giorni fa. Morta. Il ritrovamento è avvenuto stamattina presto, da parte di alcuni addetti alla manutenzione degli impianti sciistici. Era ancora buio. E visto che sono, mio malgrado, la detective incaricata sul caso, ho bisogno di confrontarmi con lei. Subito, se possibile»
odo il cervello – ma se l'urgenza è indifferibile potrei vedere di organizzarmi per essere da lei appena posso».
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Mi era piaciuta subito New Haven. Non ci avrei scommesso.

Lo zio Theo aveva fatto del suo meglio per metterci a nostro agio e nella sua enorme villa era stato ricavato uno spazio tutto per noi, un vero e proprio rifugio privato della mia famiglia.

Ero stata ammessa a una delle università più prestigiose del mondo, l'antichissima Yale School of Medicine, che vantava probabilmente il miglior dipartimento di psichiatria di tutti gli States.

Faticavo a crederci.

Ricordo perfettamente che solo il marciume che mi rimestava dentro, da che avevo lasciato Jackson, mi impediva di avere cognizione piena del fatto che stavo per vivere un'esperienza esaltante, rara, un privilegio che a pochi è concesso.

Anche il campus, presso il quale avrei alloggiato, si colorava di luce e di splendido, grazie al riverbero quieto dei suoi edifici in mattone antico e dei prati rasati alla perfezione, odorosi di piante a mezzo fusto dall'ultimo verde spoglio, di fine stagione.

Mentre percorrevo il maestoso viale alberato di accesso che conduceva allo stabile principale dell'istituto, dall'aspetto accogliente e familiare, ristrutturato di recente senza alcun risparmio in termini di decori artistici ma dall'eleganza sobria, osservavo lo sguardo di mio padre che sorreggeva a mano la parte del bagaglio dal suo lato.

Era fiero di me, glielo leggevo nell'atteggiamento, nella piega rilassata delle spalle; confidava che Jackson sarebbe presto scivolata via da me e che il fantasma di David sarebbe rimasto per sempre ingoiato in un passato irripetibile, senza ritorno.

Si sbagliava, ma non poteva saperlo.

«Ti troverai bene, figlia mia, vedrai. È un lusso poter vedere all'opera niente di meno che un luminare come il professor Edmund Freur! Siamo stati fortunati a essere stati inseriti in questa lista ristretta».

Ombre di querce rossastre e aceri mi proiettavano carezze dritte al cuore mentre quiete e silenzio facevano da contorno ovunque.

Sotto i raggi di quel tardo sole autunnale, vedevo le mie future compagne di corso avvicinarsi da ogni lato, con indosso abiti eleganti, taluni addirittura firmati, per convergere anch'esse in direzione della struttura, conversando tra loro e coi loro genitori, con aria affabile e fiduciosa.

L'androne sapeva di fresco, l'ampio bancone della receptionist non incuteva soggezione e gli studenti neomatricole attendevano pazienti, in un brusio composto, il proprio turno per conoscere l'ala del palazzo ove dirigersi.

«In bocca al lupo, figlia mia. Fatti valere!» – Erano state le parole di contorno all'ultima dolcezza di mio padre, all'invito a incolonnarmi a mia volta in quella fila ordinata, a quell'ultima coccola tra i capelli, che allora erano lunghi e mossi.

«Signorina Fynn?» – Aveva dopo qualche minuto di attesa esclamato la ragazza in uniforme dietro il banco, stanandomi dai pensieri e cercando d'intorno, con volteggi della testa, la proprietaria di quel cognome tra gli studenti allineati.

Poche indicazioni, molti sorrisi, un paio di firme su moduli diversi, con annotati il mio nome e il numero della stanza.

«È per la sua privacy, signorina Fynn».

Un ultimo sguardo a mio padre, rimasto ai margini dell'androne, e già un inserviente col grembiule grigio da bidello mi conduceva verso la stanza che avrebbe custodito le notti di tutta quella prima stagione di studi.

Ricordo ancora il corridoio che sapeva di umido, lindo e lucido fino alla perfezione, nella penombra; ricordo l'eco dei nostri stessi passi, miei e dell'inserviente che mi precedeva coi bagagli stipati in una valigetta d'altri tempi; ricordo le camere a più letti affacciarsi sul corridoio, i volti di alcune ragazze ferme a osservarmi, indecise se salutarmi o limitarsi a registrare il mio passaggio.

Ricordo i fregi eleganti di importanti famiglie della città, con tanto di numeri romani risalenti anche a un paio di secoli prima, stuccati sopra le porte; e anche le foto di studenti in gruppo appese ai lati, molte in bianco e nero e dai tratti sbiaditi per il tempo.

Ricordo finalmente l'arrivo, la porta con un numero ben stampigliato in chiaro al centro della sagoma: «eccoci qua. Questa sarà la tua stanza e queste che troverai all'interno saranno le tue compagne» – aveva aggiunto l'addetto in camice prima di congedarsi, educato e sorridente, prima di ripercorrere a ritroso l'intero tratto che mi era parso svilupparsi su più corridoi, intrecciati spesso ad angolo gli uni con gli altri.

Non sapevo che pensare. Non certo più a Jackson. O a David. Almeno non in quei momenti.

«Benarrivata, piacere di conoscerti».

Una voce dolce, femminile, affabile, era giunta all'improvviso a sparigliarmi i pensieri e mi aveva costretta a rivolgermi verso l'interno di quel nuovo ambiente: dovevo varcare la soglia in direzione di quella mano gentile, protesa in un invito ad accogliere la mia in una stretta di saluto.

Eravamo rimaste un po' a fissarci, dopo quel gesto delle nostre mani avvinte, io e quella ragazza che battezzavo grossomodo mia coetanea; senza aggiungere altre parole, bonariamente congelate in un sorriso di reciproca gradevolezza.

Ho memoria di un vociare leggero che colorava l'interno di quell'ambiente, cinguettii sottovoce di altre ragazze presenti che sembravano chiedersi chi fossi e se fossi davvero io la nuova.

Mi veniva spontaneo voltarmi intorno, guardinga e curiosa allo stesso tempo, ma non mi sentivo a disagio o tesa né, tantomeno, ero spaventata.

La stanza era illuminata e sembrava in effetti proprio quella che ci si aspetta da un collegio di lusso, con le tende in ordine a moderare una luce calda proveniente dagli ultimi raggi di quel tardo pomeriggio. Un Mitsubishi dal fruscio leggero in sottofondo stemperava, ubbidente, qualche grado di calura ancora di troppo.

Lo stanzone.

Avrei rivisto altre volte quella stanza a sei letti e sei scrittoi, nei miei incubi a occhi aperti, trasformarsi all'improvviso in una specie di baracca enorme, buia, tetra e colma di fetore.

«Ti mostro il tuo posto, ora, se ti va. Seguimi» – aveva insistito la ragazza che mi aveva accolto.

La voce era aggraziata tanto quanto non lo erano i passi verso il fondo della stanza, costretti alla lentezza incerta da un fisico obeso oltre misura.

Anche quella voce avrei sentito di nuovo, spesso. Come avrei visto ancora la scena dei passi innanzi a me.

L'avevo seguita, la voce, trascinando i miei bagagli lungo lo spazio centrale tra i letti a una piazza e mezzo, curatissimi ed eleganti, adorni di plaid a fantasia, e con gli armadietti in legno dagli intagli preziosi disposti a intervalli regolari.

‘Chissà quante studentesse si sono avvicendate tra queste mura di generazione in generazione, da che esiste questa prestigiosa facoltà'.

Le altre ragazze mi guardavano, in silenzio. Non mi pareva che sorridessero né che mostrassero ostilità. Semplicemente se ne stavano lì a vedermi sfilare tra loro, come a una parata, aprendosi a ventaglio al mio passaggio; ne ricordo quattro, le altre quattro occupanti.

La ragazza grassoccia che stavo seguendo in silenzio aveva una codina di capelli castani scuri raccolti in uno chignon.

Alla fine, si era fermata e mi aveva indicato l'ultimo letto, sul fondo: «ecco il tuo posto. Tu starai qua».

Si era voltata verso di me e mi aveva sorriso di nuovo, con le sue guance paffute e quegli occhi di color autunno che annegavano in una carnagione molto chiara.

‘Perché, nei miei incubi, cercherai di uccidermi? Cosa posso averti fatto tanti anni fa in quel collegio universitario?'

«Ciao, Abigail – aveva esclamato una delle ragazze, una delle più vicine a me – benarrivata».

«Ciao, Abigail» – avevano risposto a coro, più o meno sincrone, le altre, talune accompagnando l'espressione con un cenno rialzato del palmo.

Avevo ricambiato quegli sguardi con uno dei miei, il più gentile che avessi potuto, quello che, di norma, è dovuto da parte di chi si appresta ad aggregarsi, docile, a un gruppo. E, di certo, senza riuscire a non tradire un comprensibile e inevitabile imbarazzo.

Il mio cuore non sentiva però l'esigenza di tambureggiare.

«Benarrivata anche da parte mia. Io dormo qui, proprio accanto a te. Sono certa che saremo amiche» – aveva concluso la ragazza sovrappeso che mi aveva, gentile e premurosa, fin lì fatto da guida.

«Ah, giusto! Quasi dimenticavo! Mi chiamo Joan. Joan Six. Eh già, non metterti a ridere. Ho per cognome un numero».
Massimo Berti
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