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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP, ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo già formattato che per la copertina.
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Esselle
Titolo: Keiyaku - Tutto per una scommessa
Genere Romance
Lettori 3
Keiyaku - Tutto per una scommessa
«Uè Sasà, m'arraccumann:
nun me fa fà figur' 'e mmerd',
ca chist è milanese.»
Desy

Sono passati sette giorni, eppure sembrano settimane compressi in poche ore. La mia vita ha ripreso il suo ritmo fatto di albe ruvide e notti corte: mani intrise d'olio, dita che conoscono ogni filetto di una vite, la pelle che profuma di metallo e fumo d'officina. Di giorno smonto motori, avvito bulloni, mi faccio beffe dei guasti insieme a Diego, le sue imprecazioni sono quasi una colonna sonora e rido quando c'è da ridere. Di notte mi ritrovo sola con i miei pensieri, a scorrere conversazioni e ricordi che mordono appena abbasso la guardia.
Raul Ghezzi non mi ha cercata. E io non l'ho aspettato. Dico questo a me stessa come una promessa: non ci sono rimasta male, o almeno non più di quanto sia salutare. Il primo giorno il silenzio era sopportabile; il secondo, una spina. Poi il silenzio ha cominciato a farsi rumoroso, come un motore che tossisce prima di arrendersi. E io, orgogliosa fino allo sfinimento, continuo a ripetermi che è stato meglio così. Uno come lui, giacche perfette, uomini seduti ai tavoli giusti, donne che sembrano cataloghi, non è per me. Non voglio essere un altro trofeo da mostrare al prossimo aperitivo.
Non mi faccio rincorrere. Non rincorro. Questa è la mia regola. Eppure, tra una chiave inglese e l'altra, tra l'odore acre dell'olio e il crepitio delle gomme sulla pista, scoperto a pensarlo. Lo penso quando mi infilo sotto un'auto e il ferro mi graffia le braccia; lo penso mentre il motore ruggisce e il mondo si riduce a volanti, acceleratori e decisioni prese in un battito. Lo penso ogni volta che Diego mi lancia quello sguardo, silenzioso ma pieno di parole non dette, come se volesse avvisarmi: “Lascialo stare.”
E io non lo lascio. Non quando qualcosa mi punge il petto. Così respiro piano, lavoro, scherzo con gli altri. Fingo indifferenza con la stessa cura con cui metto a posto un carburatore. Fingo talmente bene che a volte quasi ci credo anch'io: non ci penso più, non mi interessa, è stata solo una deviazione, un errore di valutazione. Ma la verità è che le cose che non diciamo non spariscono; si accumulano sotto la pelle come benzina che aspetta una scintilla.
A volte credo davvero di averlo messo da parte, poi basta un profumo, uno sguardo, il rumore di passi sul cortile: qualcuno entra in officina con la stessa aria, e tutto torna. Il petto si contrae, le mani diventano più pesanti, la testa cerca una via di fuga. Allora stringo i denti e aspetto che il momento passi, come ho sempre fatto. Perché so che so correre più veloce dei rimpianti, ma non perché non mi feriscano. Perché ho imparato a trasformare il dolore in motore.

RAUL

Le riunioni si accavallano senza tregua. Un progetto dopo l'altro, contratti, appuntamenti, strette di mano. Tutto dovrebbe scorrere liscio, familiare. Io dovrei essere concentrato, efficiente, il solito Ghezzi che non lascia spazio a distrazioni. E invece no. La giornata è andata a puttane con una sola telefonata. Mio padre e la sua richiesta: “A fine mese scendo a Napoli. Ti sostituisco. Così puoi tornare a Milano.”
Tornare a Milano. La mia città, la mia normalità. Dovrei sentirlo come un sollievo, un ritorno a casa. Ma dentro di me qualcosa si muove storto. Non so se sono pronto. Non so nemmeno se voglio davvero andarmene. E intanto la sua voce mi torna addosso, come un'eco che non si spegne: “A Napoli si piange due volte: quando si arriva e quando si parte.”
Già. Desideria. Sono passati sette giorni. Sette giorni senza di lei. Non l'ho cercata. Non perché non volessi, ma perché non le concederò il lusso di credere che mi manchi. Eppure... mi manca.
Mi manca il suo sguardo sfrontato, quell'aria di sfida che mi manda fuori di testa. Mi manca perfino il fastidio che mi provoca ogni volta che apre bocca. Mi manca quella voce che sembra sul punto di ridere di me, sempre, e forse lo fa davvero. E io non sono mai stato il tipo che insegue. Mai. Fino adesso.
«Raul, tutto a posto?»
La voce di Matteo mi strappa dal vortice. Lo vedo che mi osserva con il suo solito mezzo sorriso. Annuisco, come se niente fosse. Non gli darò mai la soddisfazione di scavare.
«Andiamo a prendere la macchina, poi magari cena.»
Annuisco ancora. Non perché ne abbia voglia, ma perché ho bisogno di allontanarmi da questa giornata di merda. La Ferrari ringhia, poi si spegne davanti a un'officina che non è affatto come me l'aspettavo. Niente sporco, niente improvvisazioni: ordine, cura, passione. Odore di olio e metallo che ti entra nei polmoni. Matteo procede sicuro, come se conoscesse ogni angolo. Io lo seguo distratto, ma i miei occhi captano dettagli. Poster di Maradona, bandiere del Napoli. E lì, in un angolo semibuio, qualcosa cattura la mia attenzione: una Mustang rossa, parzialmente coperta da un telo. Gioielli così non si lasciano mai incustoditi.
E poi lo vedo. Lui. Il ragazzo che gira sempre con Desideria. Lo sguardo che mi lancia è: ostile, netto, quasi un avvertimento. Saluta Matteo, poi si gira verso di me. Silenzio. Ma parla lo stesso. Non mi vuole qui. Non mi vuole vicino a lei. E a me questa tensione... diverte.
«Diè, mi passi la chiave da dieci?»
La sua voce, mi blocca il respiro per un istante. Mi volto. E la vedo. Scivola da sotto l'auto con le mani sporche, il viso macchiato di nero, i capelli raccolti in modo disordinato. Maglietta nera che le segna le curve, tuta legata in vita. Sembra uscita da un altro mondo. Un mondo che non mi appartiene. Eppure mi spacca in due. I nostri occhi si agganciano. E lei sorride. Un sopracciglio alzato, il solito tono pungente:
«Che c'è, Ghezzi? Non faccio altro che sorprenderti, vero?»
Matteo soffoca una risata. Figlio di puttana, lo sapeva. E io resto muto. Non perché sia abituato a vedere donne sporche d'olio, nel mio mondo, non esistono. Ma questa è lei. E lei riesce a rendere anche l'odore del ferro qualcosa di pericolosamente affascinante.
«Finisco tra poco.»
Mi spiazza, ancora. Mi guarda, come se stesse sfidandomi.
«Se vuoi... ti mostro Napoli.»
La sua voce finge indifferenza, ma il modo in cui si morde il labbro la tradisce. Non è indifferente. Non può esserlo. E se lo fosse davvero... sarebbe ancora più pericolosa. Vorrei dirle di sì, subito. Ma mi trattengo. Non le concederò il vantaggio. La lascio sospesa, un attimo prima della mia risposta. Voglio vedere se ci tiene. Voglio vedere se le tremano gli occhi.
«Desy.»
Ma non ne ho il tempo. Arriva lui.
«Quel lavoro va fatto.»
La voce di Diego è bassa, dura. Indica la Mustang. E mi costringe a scegliere.
«Va bene. Mostramela.»
Lo dico prima che lei possa leggere il mio silenzio. Prima che Diego rovini tutto. Non è la risposta che volevo darle. Ma è quella che ha avuto. Lei guarda Diego, non arretra.
«Diego, ci penserò domani.»
Diego stringe la mascella, tace. Lei gli stampa un bacio rapido sulla guancia, una provocazione velata. A me poco importa. O forse fin troppo. Poi si volta verso Matteo, gli lancia un'occhiata complice:
«Tratta bene il mio amico. Fagli un buon prezzo.»
«Diego, ricordati che ci devi una rivincita a calcetto.»
Aggiunge Matteo ridendo. Io continuo a fissarla, incapace di staccarmi. Lei si siede sul carrello, le ginocchia piegate, lo sguardo che mi trafigge dal basso verso l'alto.
«Ci vediamo alle otto in via Toledo.»
Sorride, maledetta.
«Ormai sei diventato pratico di Napoli.»
Poi scompare di nuovo sotto l'auto, lasciandomi solo con il suono della sua voce e il sorriso che mi ha inciso addosso. E io resto lì, immobile, con un'unica domanda che mi brucia dentro: Chi cazzo ha il controllo, adesso?

DESY

Il vapore della doccia si arrende piano alla stanza mentre esco avvolta nell'asciugamano. Alessia è già davanti allo specchio: piastra tra le mani, labbra socchiuse che scivolano sul gloss, un gesto sicuro, quasi rituale. Il suo telefono vibra sul comodino, ma lei non se ne cura. C'è un'energia strana stasera, leggera e frizzante, che non mi lascia indifferente.
«Esci?»
Chiedo, tamponando i capelli con l'asciugamano. La mia voce suona ovattata, impastata di vapore. Lei mi osserva dal riflesso, e quel sorriso malizioso che conosco fin troppo bene mi accende subito un campanello d'allarme.
«E tu?»
Ribatte, occhi che brillano come se avesse già capito la risposta. Alzo le spalle, fingo indifferenza.
«Con Raul.»
In un attimo i suoi occhi si spalancano, più luminosi di un albero di Natale.
«Raul... come Raul Ghezzi?»
Annuisco.
«Fammi capire, Giù... una settimana fa ti ha trattata come se non contassi nulla, e adesso esci con lui?»
«Sì, ma non è come credi.»
Si gira, si appoggia allo stipite della porta, braccia incrociate, lo sguardo che mi pesa addosso come quello di una sorella maggiore.
«Hai ragione, è stato uno stronzo. E sì, ci sono stata male. Tanto. Ma forse proprio perché non fa più male che posso guardarlo negli occhi senza farmi a pezzi.»
Lei inclina la testa, le sopracciglia che parlano da sole.
«Desy...»
«Vuole solo che gli mostri Napoli. Tutto qui. Una guida turistica improvvisata.»
Alessia mi scruta come solo lei sa fare: affetto e frustrazione che si mescolano in un unico sguardo.
«Desideria, stai mentendo più a te stessa che a me.»
Le tiro addosso l'asciugamano bagnato.
«Non iniziare.»
Sbuffo.
«È Napoli che lo affascina, non io.»
«Ma certo...»
Ride, abbassandosi per allacciare un paio di tacchi vertiginosi, rossi come il peccato. Poi solleva lo sguardo.
«Sai cosa spero, Desideria? Che non si presenti già accompagnato.»
Merda. Non ci avevo pensato. Il cuore mi cade per un istante. Lei mi legge dentro.
«Credo abbia imparato la lezione»
Mormoro. Già. Ma quale lezione? Raul non mi ha cercata, non si è scusato, non ha fatto nulla per meritarmi. Non è interessato. Eppure, mentre lo penso, mi resta addosso quel sapore amaro che sa di verità. Mi infilo un paio di jeans, una camicetta bianca morbida sulle spalle. Allo specchio studio il riflesso: non troppo elegante, non troppo semplice. Alessia sospira.
«Ti avviso: se alle tre di notte mi chiami in lacrime e a pezzi, porto solo il vino. Niente compassione.»
Rido, scuotendo la testa.
«Affare fatto. Tu il vino.»
Lei smette di ridere all'improvviso. Un silenzio sottile ci scivola addosso, poi riprende a sistemarsi i capelli, più calma, più misteriosa.
«Io farò da guida turistica. Ma tu, invece, dove vai tutta così tirata?»
Cerco di sembrare distratta.
«Ancora con il tipo misterioso?»
Lei sceglie una borsa minuscola, luccicante e sorride senza aggiungere molto.
«Sì. E credo stia diventando qualcosa di più.»
«Davvero?»
Mi avvicino, cercando di approfondire.
«Te lo racconterò, ma più in là.»
Taglia corto, infilandosi la giacca.
«Magari una sera usciamo tutti e quattro.»
Mi fa l'occhiolino.
«Così tu e Raul potete continuare il vostro tour romantico.»
«Alessia.»
Alzo gli occhi al cielo.
«Che c'è?»
«È serio?»
Lei sorride, ma nei suoi occhi vedo fermezza.
«Lo è. Tranquilla, Desy. So quello che faccio.»
La conosco da sempre. So che dietro il glitter ha una corazza dura. Ma nonostante questo, mi resta quella fitta allo stomaco, quell'ansia sottile che mi accompagna ogni volta che qualcuno si avvicina troppo a lei.
«Andrà bene con Raul. Quel testone ha capito cosa rischia di perdere.»
Mi dice abbracciandomi al volo, il profumo di vaniglia che resta sospeso nell'aria quando chiude la porta alle sue spalle. Resto sola. Guardo l'orologio. È ora. Inspiro a fondo, poi ancora. Allo specchio vedo riflessa me stessa: capelli sistemati, camicetta che cade leggera, lo sguardo che prova a non tremare.
«Forza, Desy»
Sussurro.
«Non è un appuntamento.»
Ma il cuore, testardo, batte come se lo fosse.

RAUL

Tornare a casa dovrebbe essere il rito che spegne il mondo: si chiude la porta e dentro rimane solo il silenzio. Eppure anche sotto la doccia più calda il pensiero di lei non si dissolve. Desideria. Non la cerco, ma lei entra lo stesso, si infiltra nelle crepe di tutto quello che provo a tenere sotto controllo.
Esco, mi asciugo con calma, e mi prendo un tempo che non ammetterei mai: scelgo cosa indossare con cura. Non voglio esagerare, ma ogni dettaglio conta. Non lo faccio per me; lo faccio per lei. Camicia bianca, jeans chiari, giacca leggera. Sandalo e ambra. Un profumo discreto, ma lei lo ha notato. Lo ha sentito. L'ha colpita.
È un equilibrio sottile: non voglio sembrare vulnerabile, né troppo indifferente. Voglio impressionarla ma tirando fuori il meno possibile. Mi metto le chiavi in tasca, la radio accompagna i miei gesti: Mengoni in sottofondo, Ti ho voluto bene veramente. Di solito la ignorerei, stasera sembra invece parlarmi come se sapesse.
Arrivo in via Toledo. La vedo e qualcosa mi prende alla gola: cammina sicura, ogni passo una dichiarazione. I jeans scivolano sulle gambe, la camicia sbottonata il giusto. Non ha bisogno di artifici: è presenza pura. E io, davanti a lei, mi anniento.
Cerco un'espressione neutra quando si avvicina, ma ogni più piccolo particolare la trasforma in un assalto. Il giubbotto di pelle, i tacchi che picchiettano sull'asfalto, quel sorriso che è sfida e invito insieme. Si ferma, mi guarda dritto. Nessuna titubanza, solo quella solita mischia di arroganza e grazia.
«Ghezzi.»
«Desideria.»
Rispondo, controllando la voce.
«Credevo fossi arrivato con un'amica, sai, per non spezzare la tradizione.»
«Ero tentato. Poi ho pensato che forse stavolta valesse la pena venire da solo.»
Mi sfiora la guancia con un bacio veloce; il gesto lascia un'orma che non se ne va. Apre la portiera, sale, e il suo profumo invade subito l'abitacolo. Capisco che non sono pronto per la serata, eppure non vorrei altro.
«Dove andiamo?»
Chiede.
«Ti faccio parcheggiare l'auto nel garage di un mio amico, così stai più tranquillo.»
Ha quel modo di condurre le cose senza che sembri un ordine; non so ancora se mi irrita o mi attrae. Il traffico scorre lento. La radio cambia: parte L'Ultima Poesia (Ultimo e Geolier). Inizialmente non ci faccio caso; poi la sento cantare sottovoce.
«Na vita nn'è abbastanza pe te conoscere in fondo.»
La guardo, e il dialetto mi arriva come una carezza storta. Non tutte le parole le capisco.
«Che dice?»
Le chiedo.
«Parla della fine. Di un amore così profondo che si rovina fino a non riconoscersi più. È un addio che però non vuole cancellare del tutto il ricordo.»
Traduce lei, a modo suo. Annuisco, e provo a stemperare la densità della frase con un filo d'ironia.
«Allegro, insomma.»
Desideria sorride.
«È napoletano: anche quando ti spezza, lo fa con poesia.»
Cadiamo in un silenzio che non è vuoto: è pieno, vivo. La osservo nel controluce dei lampioni, il profilo morbido, il sorriso che mi sbilancia. Lei spiazza le regole e io, che vivo di strategie, mi rendo conto di non avere una strategia per Desideria.
«A te è mai successo... di amare qualcuno e smettere di combattere per lui?»
Le chiede di colpo. La domanda è una bomba a orologeria. Lei non ci pensa:
«Sì. È successo. Ma il peggio non è stato soffrire... è stato smettere di sperare. E tu?»
Ribatte, rovesciando la domanda prendendomi alla sprovvista.
«Ti è mai successo di amare qualcuno e smettere di combattere per lei?»
Insiste. Guardo la strada, la guida diventa un gesto meccanico.
«Sì. Ma più che smettere... credo di non aver mai cominciato davvero.»
Il silenzio che segue è denso, rassicurante e tagliente insieme. È la sola risposta vera che posso dare. La osservo, e mi sorprendo a voler capire ogni minimo movimento del suo viso, come se fossi al cinematografo e il film fosse tutto in lei.
«Che c'è?»
Chiede, con quel tono che già conosce la risposta.
«Niente.»
Mento, stringendo il volante. Non posso dirle che per la prima volta in vita mia non ho idea di cosa sto facendo.
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