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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Claudio Falcone
Titolo: Artemisia Indomita
Genere Romanzo Storico
Lettori 48
Artemisia Indomita
Roma, Tribunale del Vicario, maggio 1612.

Il sudore mi cola lungo la schiena, imprigionata in questo corsetto di stoffa nera che mia madre ha scelto per farmi sembrare rispettabile. Rispettabile. Come se la rispettabilità potesse cancellare quello che tutti sanno, quello che tutti sussurrano dietro i ventagli e nelle taverne.
"Artemisia Gentileschi, giurate di dire la verità." La mia voce esce rotta: "Lo giuro."
Davanti a me, i giudici mi fissano con quegli occhi che conoscono già la sentenza. Dietro di me, sento il respiro pesante degli uomini venuti a godere dello spettacolo. Una ragazza di diciannove anni sventrata davanti a tutti, questa è la giustizia di Roma.
"Raccontate i fatti dell'8 maggio 1611." Come se potessi dimenticare. Agostino Tassi, amico di mio padre, pittore stimato, uomo rispettabile. Le sue mani che mi bloccano, la sua bocca che mi mormora: "Stai zitta, tanto chi ti crederà?"
"Mi ha presa con la forza," sussurro. "Parlate più forte!" "MI HA VIOLENTATA!" La mia voce risuona nelle volte del tribunale. Qualcuno ride. Qualcuno fischia. Io tengo gli occhi fissi sui giudici, su quei volti che già mi condannano.
Il sibilo delle corde che mi legano i pollici mi fa perdere il respiro. Il dolore esplode nelle mie mani, quelle mani che dipingono, che creano, che sono la mia unica ricchezza.
"Ripetete: Agostino Tassi mi ha violentata." Tra le lacrime e il dolore, sussurro le parole. Ma nella mia mente, mentre le corde mi strappano la carne, vedo qualcos'altro. Vedo una lama che si alza nell'aria. Vedo il sangue che sgorga da una gola. Vedo la testa di un uomo che rotola via dal corpo.
Un giorno, penso mentre il dolore mi attraversa, un giorno dipingerò tutto questo. Dipingerò la vendetta che voi non sapete immaginare.
Non sapevo ancora che Michelangelo Merisi da Caravaggio sarebbe venuto a trovarmi nelle mie notti di passione. Non sapevo che avrei trasformato ogni bacio rubato in una pennellata di sangue, ogni gemito soffocato in grido di guerra. Ero solo una ragazzina spezzata che giurava di dire la verità davanti a uomini che avevano già deciso di non credermi.
Ma la verità vera l'avrei dipinta dopo. Quando avrei scoperto che il piacere può essere arma, arte e vendetta.

Roma, Via del Corso, marzo 1620 - Otto anni dopo
L'atelier profuma di trementina e peccato.
Isabella si muove sopra di me con quella grazia felina che non perde mai, nemmeno quando geme il mio nome contro la mia gola. I suoi capelli ramati si sono liberati dalle forcine, mi cascano sul viso come una cascata di rame fuso. Le sue mani aristocratiche ora mi afferrano con una fame che mi sorprende sempre.
"Artemisia..." Il mio nome sulla sua lingua è una preghiera blasfema.
Ma io non sto pregando. Sto cacciando.
I miei occhi sono spalancati nel buio dell'atelier, fissi sulla tela coperta che aspetta nell'angolo. Isabella pensa di possedermi, di avermi conquistata con la sua eleganza e il suo oro. Non sa che sono io a usare lei, a spremere dal suo corpo aristocratico quello che mi serve per dipingere.
Le sue dita scivolano tra le mie cosce con quella precisione che usa per tutto - anche il piacere è calcolato, controllato. Ma quando la faccio rotolare sotto di me e prendo io il comando, vedo nei suoi occhi verdi un lampo di sorpresa e di eccitazione che non sa fingere.
"Così," sussurro al suo orecchio mentre la mia bocca scende lungo il suo collo perfetto, "lascia che ti mostri chi comanda davvero."
La mordo dove il sangue blu pulsa sotto la pelle di porcellana. Isabella inarca la schiena, i suoi gemiti riempiono l'atelier come un canto profano. Nel momento in cui l'orgasmo la attraversa, facendola tremare come non ha mai tremato nei salotti di Roma, lo vedo.
Lui.
Michelangelo Merisi è appoggiato al cavalletto, con quel sorriso che ho studiato sui suoi autoritratti. I capelli ricci incorniciati dal buio, la camicia sbottonata, quegli occhi che vedono troppo.
"Brava," dice il fantasma mentre Isabella si aggrappa a me, ancora scossa dal piacere. "Adesso sai cosa devi dipingere."
Isabella non può vederlo, non può sentirlo. È solo mia questa visione, questa maledizione, questa benedizione.
"Alzati," sussurra Caravaggio. "Che cosa?" Isabella alza la testa, confusa, i suoi occhi ancora velati dall'orgasmo. "Niente. Riposati."
Ma io mi sto già alzando, nuda, i capelli scompigliati che mi cadono sulle spalle. Il mio corpo trema ancora per il piacere condiviso, la pelle mi pizzica dove Isabella mi ha toccata. Mi avvicino alla tela coperta, Isabella dietro di me che protesta: "Artemisia, torna qui... non abbiamo finito..."
"Non capisci," le dico senza voltarmi, "sto partorendo Giuditta."
Strappo il velo che copre la commissione. La tela bianca mi aspetta come un campo di battaglia. Afferro i pennelli, la tavolozza, i colori che ho preparato ieri sera. Le mie mani sanno già cosa fare.
Caravaggio si avvicina, il suo fantasma così reale che quasi sento il suo profumo di vino e pericolo.
"Dipingi quello che hai appena sentito," mi sussurra. "Dipingi il potere che hai appena preso. Giuditta non è una santa che salva il suo popolo - è una donna che prende quello che le serve."
La prima pennellata è un grido di rosso. Il sangue di Oloferne che schizza dal collo mentre Giuditta lo decapita. Ma nelle mie mani, Giuditta ha il mio viso determinato, e negli occhi spenti di Oloferne vedo tutti gli uomini che hanno pensato di possedermi.
Isabella si è alzata, mi guarda dipingere come se fossi impazzita. I suoi occhi intelligenti studiano ogni mia mossa, e per un momento vedo in loro qualcosa che non aveva mai mostrato: vulnerabilità.
"Artemisia, cosa fai? È l'alba..." "Sto lavorando," sibilo senza staccare gli occhi dalla tela.
Il fantasma di Caravaggio ride, quel suono rauco che immagino uscisse dalla sua gola quando era vivo.
"Ecco la mia allieva," dice. "Ecco chi continuerà quello che io non ho potuto finire."
I colori si mescolano sotto il mio pennello come sangue e miele. Il chiaroscuro che Merisi mi ha insegnato attraverso le sue tele prende forma, ma c'è qualcosa di nuovo, qualcosa di mio. La luce che esplode sul viso di Giuditta non è solo drammatica - è sensuale, è orgasmica.
"Più violenza," sussurra il fantasma. "Non aver paura di sporcarti le mani."
Isabella si avvicina, ancora nuda, e per la prima volta la vedo davvero spaventata.
"Artemisia... con chi stai parlando?"
Prima che possa rispondere, un rumore di passi nel cortile ci fa trasalire entrambe. È troppo presto per i mercanti, troppo tardi per i bordelli. I passi si fermano davanti alla mia porta.
"Artemisia Gentileschi!" La voce è autoritaria, educata. Un nobile.
Il fantasma di Caravaggio si dissolve nell'ombra con un ghigno divertito. "La tua vera vita ti sta cercando."
Isabella impallidisce, si guarda intorno cercando freneticamente i suoi vestiti.
"Cristo santo, se mi trovano qui..."
"Vestiti," le dico secca, posando i pennelli. "Rapidamente."
Ma è troppo tardi. La porta dell'atelier si spalanca - ho dimenticato di chiuderla a chiave - e sulla soglia appare lui.
Gian Lorenzo Bernini in persona, elegante anche a quest'ora impossibile, con quegli occhi azzurri che ora sono spalancati per lo shock.
Il suo sguardo va da me, nuda e coperta di colori, a Isabella che cerca disperatamente di coprirsi con un lenzuolo, alla tela dove Giuditta decapita Oloferne con un'espressione di estasi post-orgasmica.
Il silenzio cala nell'atelier come una lama.
"Gian Lorenzo Bernini," si presenta automaticamente, poi si blocca, realizzando l'assurdità della situazione.
Isabella si raddrizza, e nonostante sia coperta solo da un lenzuolo, riacquista immediatamente la sua autorità aristocratica.
"Messere," dice con voce gelida, "spero abbiate una spiegazione eccellente per questa intrusione."
Bernini la riconosce - è impossibile non riconoscere Isabella di Montecroce - e il suo volto passa dal rosa al bianco al rosso come una tavolozza impazzita.
"Eccellenza... io... non sapevo..."
"Evidentemente," replica Isabella con quel tono tagliente che usa per mettere al posto loro i servitori impertinenti.
Io resto in mezzo, nuda e sporca di colori, e per la prima volta da anni mi sento davvero vulnerabile. Due mondi che si scontrano nel mio atelier: l'arte ufficiale di Bernini e la passione proibita di Isabella.
E Giuditta sulla tela che ci guarda tutti con i miei occhi, la lama ancora grondante sangue.

Roma, atelier di Artemisia, mattino seguente
Il silenzio che segue è così denso che potrei tagliarlo con la lama di Giuditta.
Bernini ha gli occhi fissi su Isabella, che nonostante il lenzuolo che la avvolge mantiene un portamento regale che mi fa invidia. Conosco quella posa: è quella di chi è nato per comandare e non si piega nemmeno quando viene colto in fragrante delitto.
"Messere," dice Isabella con voce gelida, ogni sillaba perfettamente articolata, "spero abbiate una spiegazione eccellente per questa intrusione."
"Io..." Bernini deglutisce, il suo sguardo che passa freneticamente da lei a me alla tela sanguinaria. "Non sapevo che... non immaginavo..."
"Evidentemente la vostra educazione presenta alcune lacune," replica Isabella con quel tono tagliente che deve aver imparato dai suoi antenati condottieri. "A iniziare dalle buone maniere."
Resto in mezzo a loro, nuda e sporca di colori, e per la prima volta da anni mi sento davvero vulnerabile. Due titani si stanno scontrando nel mio piccolo regno di tela e trementina, e io sono solo la posta in gioco.
Bernini si ricompone, e vedo il momento esatto in cui la sua mente afferra le possibilità che questa situazione gli offre. I suoi occhi azzurri si illuminano di una luce che non mi piace per niente.
"Contessa di Montecroce," dice con un inchino studiato, "che piacere inaspettato incontrarvi in... circostanze così intime."
Il veleno nella sua voce è sottile ma letale. Isabella lo coglie immediatamente, e i suoi occhi verdi si restringono come quelli di un felino pronto all'attacco.
"Quanto inaspettato, infatti," replica. "Quasi quanto la vostra presenza non annunciata nell'atelier di una dama."
"Oh, ma io vengo per affari ufficiali," sorride Bernini, e quel sorriso mi fa venire la pelle d'oca. "Il Santo Padre desidera commissionare un'opera alla signora Gentileschi. Un'opera... devota."
Gli occhi di Isabella volano sulla tela di Giuditta, poi tornano su di me. Vedo il momento in cui capisce tutto: il mio lavoro, la mia arte violenta, il modo in cui trasformo la passione in pennellate sanguinarie.
"Devota," ripete con un sorriso affilato. "Come definireste 'devota' quest'opera, messere?"
Bernini segue il suo sguardo verso Giuditta che decapita Oloferne con l'espressione orgasmica ancora dipinta sul volto. Il suo viso si contorce in una smorfia di disgusto misto a fascino.
"Certamente non... questo genere di violenza," mormora.
"Violenza?" Isabella si alza dal letto con movimenti fluidi, il lenzuolo che si avvolge intorno al corpo come una toga romana. "O giustizia?"
Si avvicina alla tela con passo sicuro, e improvvisamente capisco che sta studiando ogni dettaglio con l'occhio di chi sa riconoscere l'arte vera.
"Guardate il polso di Giuditta," dice, e la sua voce cambia, diventa quella di una donna colta che sa di cosa parla. "La tensione dei muscoli. L'espressione del volto. Non è una santa che compie un miracolo - è una donna che prende il controllo del proprio destino."
Bernini la fissa come se la vedesse per la prima volta.
"Eccellenza, certamente non approvate..."
"Approvo l'onestà," lo interrompe Isabella secca. "Artemisia dipinge la verità che voi uomini non volete vedere. Le donne non sono madonne docili o puttane penitenti. Sono guerriere."
Il mio cuore salta un battito. Isabella sta prendendo le mie difese, sta articolando quello che io sento ma non riesco mai a spiegare con tanta eleganza.
Ma Bernini non è stupido. Il suo sorriso si allarga, e adesso vedo il vero pericolo.
"Che passione, eccellenza," dice con voce melliflua. "Quasi come se aveste... un interesse personale nell'arte della signora Gentileschi."
Il silenzio che segue è carico di minaccia. Isabella si irrigidisce impercettibilmente, ma io la conosco abbastanza per notarlo.
"L'arte dovrebbe essere apprezzata da chiunque abbia occhi per vedere," replica, ma sento una nota di tensione nella sua voce.
"Certamente," annuisce Bernini. "Anche se alcuni... apprezzamenti... potrebbero essere fraintesi dalle persone meno illuminate."
Eccolo. Il ricatto. Non lo sta dicendo apertamente, ma il messaggio è chiarissimo: se Isabella non collabora, lui farà circolare voci sulla sua presenza notturna nel mio atelier.
Dall'ombra sento la risata beffarda di Caravaggio che riappare come un demone evocato dalla tensione.
"Ecco il vero volto della Chiesa," sussurra il fantasma. "Ricatto elegante e minacce velate."
Isabella deve aver sentito lo stesso veleno che sento io, perché la vedo raddrizzare le spalle e assumere quell'espressione glaciale che deve terrorizzare i suoi servitori.
"Messere Bernini," dice con voce tagliente come una lama, "spero non stiate insinuando qualcosa di inappropriato sui miei rapporti con le arti."
"Naturalmente no, eccellenza," replica lui con falsa innocenza. "Tuttavia, Roma è una città che ama... parlare. E certe situazioni potrebbero essere mal interpretate da lingue maligne."
Un bussare leggero alla porta interrompe il duello. Ma non è il bussare autoritario che ci aspetteremmo - questi sono colpi timidi, quasi timorosi.
"Chi è?" chiamo.
"Francesco," risponde una voce soffocata. "Francesco Borromini. Sono venuto a portarvi i calchi che avevo promesso."
Apro la porta e trovo Francesco con un fagotto sotto il braccio e un'espressione che mescola timidezza e determinazione.
"Francesco! Non sapevo che..."
"Scusate," dice entrando e fermandosi di colpo quando vede la scena. "Io... non volevo disturbare..."
I suoi occhi vanno da me, ancora coperta solo dalla veste da camera, a Isabella avvolta nel lenzuolo, a Bernini che sembra un gatto sorpreso a rubare il pesce.
"Ah, Borromini," dice Bernini con falsa cordialità. "Sempre nei posti sbagliati al momento sbagliato."
"O nei posti giusti al momento giusto," replica Francesco, e nella sua voce c'è una fermezza che non gli avevo mai sentito.
Apre il fagotto e mostra una collezione di calchi di mani in gesso, perfettamente dettagliati.
"Li ho fatti ieri sera," dice a me. "Per aiutarvi con le pose più complesse nei vostri dipinti."
È un gesto così puro, così genuinamente artistico, che contrasta violentemente con la tensione erotica e politica che riempie l'atelier.
"Sono bellissimi," dico sinceramente.
"Francesco," interviene Bernini con voce che cerca di essere paterna, "forse non è il momento per... lezioni artistiche."
"Al contrario," dice Francesco guardandolo dritto negli occhi. "È sempre il momento per l'arte vera. Come quella di Artemisia."
Si avvicina alla tela di Giuditta e la studia con occhio professionale.
"Questa tensione muscolare," dice indicando il braccio della protagonista, "è perfetta. Ma forse un calco vi aiuterebbe a perfezionare ancora di più l'anatomia."
È un commento tecnico, ma ha l'effetto di riportare la conversazione sull'arte invece che sui sottintesi erotici e politici.
"Interessante osservazione," dice Isabella con un sorriso che apprezzo. "L'arte richiede studio costante, non trovate messere Bernini?"
"Naturalmente," replica lui con voce strozzata. "Ma certe... collaborazioni... potrebbero essere interpretate male."
"Come la vostra fontana del Moro?" chiede Francesco con innocenza studiata. "Ho sentito che alcuni critici la trovano... troppo sensuale per uno spazio pubblico."
È un colpo perfetto. Bernini non può criticare l'arte sensuale senza criticare la sua stessa opera più famosa.
"La mia fontana è... diversa..." balbetta.
"Diversa come l'arte di Artemisia," conclude Francesco. "Arte che sfida le convenzioni per raggiungere la bellezza vera."
Isabella batte le mani con gioia genuina. "Esatto! Bravo, Francesco."
Bernini si rende conto di essere stato messo in trappola dalla logica dei suoi stessi avversari. Ogni tentativo di criticare la mia arte può essere rivolto contro le sue opere.
"Bene," dice infine con voce che cerca di recuperare autorità, "vedo che siete tutti... molto solidali nell'interpretazione artistica."
"Siamo solidali nella ricerca della verità," dico trovando finalmente la voce.
"E la verità," aggiunge Isabella alzandosi in tutta la sua altezza aristocratica, "è che l'arte di Artemisia celebra la virtù cristiana più di molte opere cosiddette ortodosse."
"Come?" chiede Bernini, evidentemente intrappolato.
"Giuditta che salva il popolo di Dio dal tiranno. Una donna coraggiosa che sacrifica la propria innocenza per la salvezza comune. Cosa c'è di più cristiano?"
È una reinterpretazione brillante che trasforma la mia Giuditta sanguinaria in eroina biblica ortodossa.
Bernini non ha risposta. È stato sconfitto su ogni fronte - artistico, politico, teologico.
"Naturalmente," dice dirigendosi verso la porta, "riferirò al Santo Padre che l'opera procede... secondo le più pure tradizioni cristiane."
"Fate pure," sorride Isabella. "E ricordategli che la bellezza vera non ha bisogno di giustificazioni."
Quando Bernini se ne va, finalmente sconfitto, restiamo in tre a guardarci.
"È davvero finita?" chiede Francesco.
"Per ora," rispondo. "Ma tornerà."
"Allora saremo pronti," dice Isabella.
"Tutti insieme," aggiunge Francesco.
Dalla tela, Giuditta ci guarda con i miei occhi, la lama ancora gocciolante di sangue che promette battaglie future.
Ma per la prima volta da mesi, non ho paura.
Ho degli alleati. E insieme, siamo più forti di qualsiasi nemico.
Anche di Gian Lorenzo Bernini.
Claudio Falcone
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