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Writer Officina
Autore: Francesco Marino
Titolo: La maschera del male
Genere Thriller Poliziesco
Lettori 6
La maschera del male
La città emise un sospiro di aria umida e putrida, un suono che si perse nel sibilo incessante della pioggia. Era una notte che si aggrappava all'anima come un sudario, una tela di crepuscolo perpetuo dipinta con l'aggressiva macchia del neon. Ogni goccia che cadeva dal cielo livido, sembrava portare con sé il dolore accumulato della città, lavando l'asfalto che rifletteva il bagliore sgargiante delle enoteche e dei sogni dimenticati. Non erano le docce purificatrici del rinnovamento ma erano le lacrime di una metropoli che annegava nella propria oscurità, ogni strada scivolosa uno specchio scuro che rifletteva una realtà distorta e frammentata.
Le insegne al neon, solitamente fari del commercio e della vita notturna, ora si confondevano con le pozzanghere, le loro tonalità vibranti che si fondevano in motivi astratti e malsani. Un rosso acceso pulsava dall'insegna di un bar, il cui bagliore si confondeva con la patina untuosa della strada, solo per essere interrotto dal blu elettrico di una lavanderia a gettoni. Ogni riflesso era una storia frammentata, uno scorcio fugace dell'anima frammentata della città.
Il peso della città premeva, una presenza fisica più tangibile dell'umidità che appiccicava a ogni cosa. Il suo decadimento non era solo nei mattoni sgretolati o nei vicoli sfigurati dai graffiti, ma era nell'aria stessa, un odore metallico di gas di scarico e qualcosa di più vecchio, qualcosa di più disgustoso, come marciume sotto una patina lucida. Le infrastrutture in rovina, una testimonianza scheletrica di ambizioni passate e di attuale abbandono, fungevano da metafora appropriata per l'erosione morale che era diventata la caratteristica distintiva della città. Gli edifici si afflosciavano come giganti stanchi, le finestre occhi vuoti che fissavano un mondo che non capivano più. Le scale antincendio, i pizzi arrugginiti contro le facciate macchiate, raccontavano storie di ascese disperate e discese affrettate. Questa non era una città che invitava al conforto, ma era una bestia feroce che tollerava i suoi abitanti, un'entità minacciosa e pericolosa dove il disagio era la temperatura ambientale. La pioggia, un incessante rombo, amplificava il senso di isolamento, ogni sirena lontana un grido lugubre inghiottito dal diluvio. Era una sinfonia di disperazione, suonata su un palcoscenico di sporcizia e malattia.
Persino in mezzo a questo diluvio, un senso primordiale di disagio, la pungente consapevolezza di qualcosa fuori posto, cominciò a farsi sentire. Era un sottile cambiamento nel ritmo della notte, una dissonanza nella consueta cacofonia del rumore urbano. Le ombre, già lunghe e distorte dalle strade bagnate di pioggia, sembravano farsi più fitte, fondersi con uno scopo innaturale. Si estendevano dagli imbocchi dei vicoli, si raccoglievano sotto i lampioni tremolanti e si aggrappavano alle grondaie degli edifici come spettri predatori. Fu in questi spazi mutevoli ed effimere che una presenza cominciò a farsi conoscere, non attraverso la vista o l'udito, ma attraverso un terrore più viscerale e istintivo. Un tremolio ai margini della visuale, un'immobilità momentanea che sembrava troppo intenzionale, un brivido che non aveva nulla a che fare con la pioggia che cadeva. Erano i primi sussurri di un terrore che presto avrebbe attanagliato la città, il sottile indizio che qualcosa di molto più oscuro della notte perpetua fosse in gioco.
L'assassino era un fantasma in mezzo a quel diluvio, una sagoma contro il bagliore dei neon. La pioggia, una cortina implacabile, nascondeva e rivelava in egual misura, offuscando i confini tra ciò che era reale e ciò che era percepito. Era un maestro di discrezione, un fantasma che scivolava attraverso le arterie della città invisibile, inudibile, eppure innegabilmente presente. I riflessi distorti nelle pozzanghere offrivano uno scorcio molto distorto, un'immagine frammentata di una figura che si muoveva con un'inquietante economia di movimenti. Era l'accelerazione di un'andatura per evitare una pozzanghera particolarmente profonda o la deliberata pausa di un osservatore? La pioggia non offriva risposte definitive, solo ulteriori domande, ulteriori strati di ambiguità. Ogni insegna al neon distorta, ogni riflesso scintillante, diventava un potenziale nascondiglio, una tela su cui la presenza dell'assassino veniva dipinta con pennellate fugaci e frammentate. La città, nella sua grandezza e anonimato, era la complice perfetta, un'entità tentacolare e indifferente che poteva inghiottire segreti interi.
L'aria sapeva di ozono e di qualcosa di metallico, un preludio di violenza. La pioggia, che fino a quel momento era stata un ronzio costante e monotono, sembrava intensificarsi, il suo tamburellare sull'asfalto si faceva più pressante, più insistente. Era come se la città stessa si stesse preparando a un impatto, con le sue infrastrutture stanche che gemevano sotto una pressione invisibile. Le insegne, di solito così audaci e sfacciate, ora sembravano proiettare una luce malaticcia e giallastra, illuminando le strade scivolose con una cupezza quasi teatrale. Ogni goccia d'acqua che colpiva l'asfalto era una minuscola esplosione di colori distorti, i rossi, i blu e i verdi che si confondevano l'uno con l'altro come un acquerello finito male. I riflessi non erano solo di luce e colore ma erano distorsioni della realtà, immagini distorte di un mondo sull'orlo del baratro. Una scala antincendio, una scala scheletrica contro un muro di mattoni sporchi, sembrava torcersi e contorcersi nella lucentezza dell'acqua, il suo gemito metallico perso nel fragore del diluvio.
Era il freddo abbraccio della città, un agghiacciante benvenuto per chiunque osasse navigare le profondità oscure. Era un luogo dove l'aria era densa dell'odore di gas di scarico, cemento umido e qualcosa di meno definibile, qualcosa di antico e decadente, come segreti sepolti troppo in profondità per essere mai disotterrati. Il marciume morale non era solo una metafora ma un miasma palpabile, aggrappato alla vernice scrostata degli edifici abbandonati e che filtrava dalle crepe nei marciapiedi. Ogni vicolo, una bocca spalancata tra gli edifici, sembrava un portale verso un mondo invisibile, un luogo dove il ventre molle della città ribolliva e marciva. Le infrastrutture decadenti, le facciate fatiscenti, i macchinari arrugginiti di un passato industriale dimenticato, erano tutti testimoni silenziosi di un lento e insidioso declino. Erano le ossa di una città un tempo orgogliosa, ora fragili e segnate dal tempo, un duro promemoria di promesse infrante e gloria svanita. Il senso di disagio era una sensazione fisica, una stretta al petto, un formicolio alla nuca. Non era solo l'isolamento dell'ora tarda o l'effetto disorientante della pioggia incessante. Era la sensazione che la consueta sinfonia urbana di sirene lontane, traffico rombante e occasionali grida di ubriachi, fosse stata sottilmente alterata, una singola nota stonata introdotta nella melodia familiare. Un'immobilità troppo profonda, un'ombra che indugiava un attimo di troppo. Era la sensazione di essere osservati, non da un voyeur con intenti pruriginosi, ma da qualcosa di antico e paziente, qualcosa che vedeva la città non come un insieme di edifici e persone, ma come un organismo vivente e pulsante, maturo per un raccolto più oscuro.
L'assassino, un fantasma intessuto nella disperazione della città stessa, era l'incarnazione di quel disagio. Un'occhiata fugace, un'ombra che si staccava dall'oscurità più profonda di un vicolo. Era li e poi scomparve, un'interruzione nel flusso della notte, un'increspatura sulla superficie della strada bagnata di pioggia. La figura si muoveva con una fluidità inquietante, non frettolosa, ma deliberata, come se fosse perfettamente in sintonia con il ritmo del diluvio. La pioggia sembrava aprirsi per lui, le ombre accogliere il suo passaggio. Era una creatura di questo ambiente, una manifestazione delle sue ansie nascoste, della sua violenza repressa. Vedere una figura simile, anche solo per un fugace istante, significava sentire la vera natura della città messa a nudo: un luogo di immensa bellezza e profonda bruttezza, una culla di sogni e una tomba per la speranza. L'assassino era il cuore oscuro di questa città, che batteva a tempo con il battito incessante della pioggia.
La città non era solo uno sfondo, ma un personaggio a sé stante, un'entità minacciosa e pericolosa, le cui infrastrutture in rovina, rispecchiavano il marciume morale che covava nella sua anima. La pioggia, presenza costante e malinconica, fungeva da metafora visiva e uditiva del dolore pervasivo della città e dell'oscurità incombente. Rendeva scivolose le strade, trasformandole in specchi distorti che riflettevano le sgargianti e sanguinanti insegne di negozi di alcolici e attività commerciali dimenticate. Questi riflessi, frammentati e deformati, alludevano alle vite infrante e ai sogni infranti che erano parte integrante del paesaggio urbano tanto quanto i mattoni sgretolati e il cemento segnato dai graffiti.
Il silenzio, quando calò, fu più inquietante del rumore. Una breve pausa nel tamburellare, della pioggia sull'asfalto, una pausa momentanea nel lontano lamento di una sirena. In queste sacche di silenzio, la città sembrava trattenere il respiro, un'aspirazione collettiva di un'atmosfera umida e inquieta. Fu in questi momenti che la sensazione di essere osservati si fece più acuta. Non lo sguardo casuale e indifferente dei concittadini, ma qualcosa di più concentrato, più predatorio. Un'ombra si staccò dall'oscurità più profonda di una porta, una figura che sembrava dissolversi nell'oscurità striata dalla pioggia stessa, anziché solo semplicemente attraversarla. Era una presenza percepita più che vista, una sottile perturbazione nell'ordine stabilito della notte, un sussurro di intenti che mandò un brivido primordiale lungo la schiena.
Le insegne al neon, solitamente vivaci indicatori di vita e commercio, divennero strumenti di disagio. I loro colori si confondevano con le strade bagnate dalla pioggia, creando vorticosi motivi astratti di rosso, blu e verde sgargiante che distorcevano il familiare paesaggio urbano. Un'insegna tremolante del "Joe's Bar" proiettava un debole bagliore intermittente, la sua luce rossa si confondeva con la patina oleosa di una pozzanghera, per poi essere inghiottita dal blu elettrico intenso di una lavanderia a gettoni dall'altra parte della strada. Quelle illuminazioni frammentate, facevano ben poco per dissipare l'oscurità; anzi, la accentuavano, proiettando lunghe ombre danzanti che ingannavano la vista. Ogni riflesso distorto era un quadro in miniatura del degrado urbano, uno sguardo fugace nella psiche frammentata della città. L'assoluto anonimo della metropoli, la sua vastità e le strade labirintiche, fornivano la copertura perfetta per una presenza che desiderava rimanere invisibile, un predatore che si muoveva nel suo territorio.
La pioggia stessa era un personaggio, la sua incessante discesa un costante promemoria della malinconia della città. Non era una pioggia purificatrice, ma una pioggia lugubre, ogni goccia una lacrima versata per le anime perse e i sogni infranti che disseminavano il paesaggio urbano. Rendeva scivolose le strade, trasformandole in nastri scuri e scintillanti. Il suono della pioggia, un sibilo incessante, era punteggiato dal lontano lamento delle sirene, un lugubre contrappunto alla caotica sinfonia della metropoli. Quella era una città che indossava la sua disperazione come un sudario, le sue infrastrutture decadenti, una testimonianza del suo marciume morale. Le scale antincendio, i pizzi arrugginiti contro i mattoni macchiati, le finestre rotte degli edifici abbandonati, tutto parlava di un lento e insidioso declino, una resa all'oscurità incombente. E in mezzo a quella oppressione atmosferica, un fugace scorcio di qualcosa che non le apparteneva. Un'ombra, più profonda delle altre, che si staccava dalla periferia della visuale. Si muoveva con una grazia deliberata e inquietante, non la corsa frettolosa di qualcuno sorpreso dal diluvio, ma il passo misurato di un cacciatore. La pioggia sembrava occultarne il passaggio, i riflessi distorti delle luci al neon oscuravano ogni dettaglio chiaro. Era lì, un guizzo di movimento sullo sfondo sfocato della città e poi scomparve, inghiottito dalla notte, lasciando dietro di sé solo un residuo di inquietudine, un sottile cambiamento nella tensione palpabile che permeava l'aria. Non fu un evento casuale ma la nota iniziale di una sinfonia di terrore, il posizionamento deliberato di una presenza oscura al centro del gelido abbraccio della città. Il palcoscenico era pronto, l'atmosfera densa di presagi e la città, ignara del suo imminente destino, continuò il suo lento, lugubre sospiro.
L'alba, quando finalmente spuntò, fu un evento a malincuore, una debole, grigia luminescenza che filtrava attraverso la perenne coltre di nubi. Non riuscì a dissipare l'umidità opprimente che si aggrappava alla città come una seconda pelle, o il gelo persistente che si era insinuato nelle sue ossa. La pioggia aveva finalmente smesso di cadere, lasciando dietro di sé una patina lucida e riflettente sull'asfalto, trasformando le strade in specchi scuri che deformavano il già frammentato bagliore al neon del cuore notturno della città. Non fu una purificazione, ma una tregua temporanea, un momento di quiete prima dell'inevitabile riaffermazione del malessere urbano. L'aria, satura del tanfo di cemento umido e dei gas di scarico, aveva un nuovo odore metallico, un odore sottile ma pervasivo che parlava di qualcosa di profondamente sbagliato.
Fu nella quiete prima dell'alba, una pace fragile che si sarebbe infranta con la prima ondata di pendolari mattutini, che venne alla luce l'ultimo lugubre segreto della città. La chiamata era arrivata poco prima delle quattro e trenta, un resoconto confuso di un incidente in uno dei quartieri più antichi e dimenticati della città, un luogo dove la grandezza del passato si era da tempo sgretolata in rovina e abbandono. L'indirizzo condusse la detective Isabella Brown in un vicolo che sembrava contorcersi di ombre, persino nella luce nascente. Era uno stretto abisso tra due imponenti edifici di mattoni, le facciate macchiate e scrostate, adornate da graffiti provocatori che parlavano di una cultura che prosperava ai margini. Il terreno era un mosaico di vetri rotti, rifiuti abbandonati e residui lucidi e scivolosi del recente acquazzone.
Brown parcheggiò la sua berlina anonima a un isolato di distanza, il rombo sommesso del motore un suono familiare, quasi confortante nel silenzio che avanzava. Spense il motore e il battito attutito della città, il brusio lontano del traffico, il clangore di un tram in lontananza, si precipitò a riempire il vuoto. L'aria era densa, quasi viscosa e portava con sé l'odore di birra stantia di un bar chiuso lì vicino, l'acre odore pungente dell'urina di un angolo trascurato e qualcos'altro, qualcosa di ramato e stucchevole che le fece stringere lo stomaco. Si strinse il trench consumato, il tessuto emanava un leggero odore di caffè stantio e delusione. Questa era la sua città, il suo fardello. Ne conosceva gli angoli oscuri meglio di chiunque altro, ne aveva navigato le ambiguità morali per quindici anni e in ogni nuova scoperta, ogni nuova tragedia, intaccava il guscio indurito che si era costruita intorno.
Agenti in uniforme, con il loro nastro rosso e bianco in netto contrasto con il grigiore dei mattoni, avevano già transennato l'area. Il flash delle loro macchine fotografiche, breve e invadente, squarciò l'oscurità. Brown si abbassò sotto il nastro, rivolgendo un breve cenno del capo all'agente in uniforme, a guardia del perimetro. Il suo volto era pallido, segnato da una stanchezza che rispecchiava la sua, ma venato dal fresco orrore di un neofita confrontato con la più cruda brutalità della città.
«Detective Brown...è grave!» disse l'agente con voce bassa e tesa.
Brown non rispose. Non c'era bisogno. Il silenzio che seguì le parole esitanti dell'agente, fu più eloquente di qualsiasi descrizione. Era il silenzio di una scena che sfidava ogni facile articolazione, un quadro concepito per sconvolgere, ferire, instillare un profondo senso di terrore. Si addentrò nel vicolo, i suoi passi scricchiolavano sui detriti. L'odore si fece più forte, più definito. Rame. Viscerale.
E poi lo vide.
Era accasciato contro il freddo muro di mattoni, una figura quasi inghiottita dalle ombre. La luce limitata, filtrata dai lampioni e dall'alba nascente, giocava brutti scherzi alla vista, facendo apparire e scomparire i dettagli come fantasmi. Ma era impossibile fraintendere l'immobilità, l'innaturale rigidità della posa. Era un uomo o quello che era stato un uomo, ora ridotto a una grottesca effigie. Il suo volto era coperto da un'orrenda maschera di legno finemente decorato e colorato nei minimi particolari. La sua pelle, pallida e viscida, era tesa sulle ossa, in netto contrasto con la pozza scura e viscosa che si era diffusa da sotto di lui, macchiando il cemento sporco di un rosso intenso, arterioso.
Brown si fermò a pochi metri di distanza, scrutando la scena con un'efficienza esperta, iniziò il suo lavoro silenzioso, catalogando, analizzando, cercando il filo narrativo in quel macabro arazzo. La vittima era di mezza età, vestita con abiti relativamente puliti ma anonimi: pantaloni scuri, una semplice camicia sbottonata, una giacca. Nulla che suggerisse che fosse un abitante di quel particolare quartiere, nessun segno evidente di affiliazione a una gang o di vita di strada. Non si trattava di una rapina finita male; il portafoglio, un rettangolo di pelle consunta, era ancora nella tasca posteriore, intatto. Non si trattava di un delitto passionale; la rabbia, la violenza frenetica, erano assenti. Al contrario, sul corpo, c'era una precisione agghiacciante, una pulizia chirurgica nella ferita mortale.
L'assassino, chiunque fosse, era stato scrupoloso. Il modo in cui era stato ucciso era stato brutale, eppure eseguito con un'inquietante assenza di confusione, a parte l'inevitabile fuoriuscita di liquido. Non c'erano segni di lotta, né di ferite da difesa che suggerissero una lotta disperata per la sopravvivenza. Era come se la vittima fosse stata colta di sorpresa, o forse, in un'interpretazione più sinistra, non avesse opposto alcuna resistenza. L'assassino non aveva semplicemente posto fine a una vita; aveva orchestrato una dichiarazione, una macabra esibizione organizzata per la ricerca del corpo da trovare.
Brown si inginocchiò, le dita coperte da guanti sospesi a pochi centimetri dal corpo, attenta a non toccare nulla. La squadra della scientifica, con i volti mascherati e impassibili, era già al lavoro, con movimenti parsimoniosi e precisi. L'aria crepitava delle loro istruzioni sussurrate, del leggero clic delle telecamere, del fruscio dei sacchetti delle prove. Osservò i dettagli, i piccoli elementi apparentemente insignificanti che spesso custodivano la chiave per svelare il mistero più grande. Un debole odore di qualcosa di artificiale, quasi floreale, appiccicato alla giacca della vittima, un odore che sembrava completamente fuori luogo in quel vicolo sporco. La sottile decolorazione delle sue unghie, una tonalità particolare che suggeriva un'esposizione prolungata a qualcosa di chimico, o forse qualcosa di più sinistro.
«Qualcosa, detective?» la voce era calma, quasi deferente. Era la dottoressa Evelyn Reed, il medico legale capo della città, la cui presenza era sempre una cupa rassicurazione, segno che la triste impresa di comprendere la morte, era in mani capaci.
Brown finalmente parlò, la sua voce era un sussurro basso e rauco, che non tradiva il tumulto che l'agitava dentro.
«Non molto, sembra pulito. Troppo pulito, forse» disse, indicando vagamente il corpo.
«Nessuna lotta evidente. Una ferita singola, precisa. Quasi teatrale».
Reed annuì, i suoi occhi, acuti e attenti dietro la mascherina chirurgica, recepirono la valutazione di Brown.
«La valutazione preliminare degli inservienti suggerisce la stessa cosa. Minimo disturbo all'area circostante. Chiunque abbia fatto questo, sapeva il fatto suo e voleva che fosse trovato in questo modo». Si sporse più vicino, con lo sguardo fisso sul collo della vittima e disse: «L'arteria carotide. Recisione pulita. Ci vogliono mano ferma e lo strumento giusto. Un rasoio, penso».
Lo sguardo di Brown seguì quello di Reed. La ferita era davvero straordinariamente pulita, una linea scura e netta contro la pelle pallida della gola. Denotava competenza, una competenza agghiacciante. Non si trattava dell'opera di un aggressore frenetico ma era stato un gesto deliberato e calcolato.
«Ci sono segni di legature? Di restrizioni? » chiese la detective, mentre la sua mente stava già vagliando le possibilità, scartandole con la stessa rapidità con cui si presentavano.
«Nessuna evidenza immediata. Ma ne sapremo di più una volta che lo avremo riportato in laboratorio. L'accumulo qui è significativo, ma è per lo più contenuto. Suggerisce che fosse tenuto o posizionato in un modo specifico» rispose la dottoressa Reed.
Brown si alzò, con le ginocchia che protestavano leggermente. Scrutò di nuovo il vicolo, con lo sguardo attratto dai piani superiori degli edifici di mattoni, dalle finestre oscurate, dalle precarie scale antincendio. C'era un punto di osservazione? Un posto da cui l'assassino avrebbe potuto osservare, o aspettato? L'assassino era un fantasma in mezzo a quel diluvio, una sagoma contro la luce al neon. La pioggia, una cortina implacabile, che nascondeva e rivelava in egual misura, offuscando i confini tra ciò che era reale e ciò che era percepito. Era un maestro di discrezione, un fantasma che scivolava attraverso le arterie della città invisibile, inudibile, eppure presente. La pioggia non offriva risposte definitive, solo ulteriori domande, ulteriori strati di ambiguità. Ogni insegna al neon distorta, ogni riflesso scintillante, diventava un potenziale nascondiglio, una tela su cui la presenza dell'assassino veniva dipinta con pennellate fugaci e frammentate. La città, nella sua grandezza e anonimato, era la complice perfetta, un'entità tentacolare e indifferente che poteva inghiottire segreti interi.
Era il freddo abbraccio della città, un agghiacciante benvenuto per chiunque osasse navigarne le profondità oscure. Era un luogo dove l'aria era densa dell'odore di gas di scarico, cemento umido e qualcosa di meno indefinibile, qualcosa di antico e decadente, come segreti sepolti troppo in profondità per essere mai disotterrati.
Isabella Brown sentì una stanchezza familiare insinuarsi nelle ossa, un peso che non aveva nulla a che fare con l'aria umida. Quella vittima, chiunque fosse, era la prima. La prima in cosa, non lo sapeva ancora. Ma lo sentiva, un istinto primordiale affinato da anni di investigazioni. Non era quello un incidente isolato. Era l'inizio di qualcosa. L'assassino era metodico, preciso e efficiente.
Aveva scelto la vittima, il luogo, il metodo con una cura inquietante. La teatralità di tutto ciò, la deliberata collocazione del corpo, erano un messaggio, una provocazione.
Francesco Marino
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