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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Marta Giacobbe
Titolo: Intro
Genere Rosa Formazione
Lettori 3594 34 55
Intro
Qualche sera fa pensavo a quanto può essere piccolo un luogo e l'intero mondo, per quanto provi a percorrere strade lunghe e distanti, non esiste un posto abbastanza lontano da te stesso e dai ricordi. E allora, d'improvviso, si sono palesate nella mia mente due immagini: quella piccola cascata non molto distante da dove vive Francesca, ricordi? Spesso ci passavamo da soli, di sera, adoravo quella stradina poco illuminata e tacita, quel piccolo tragitto che sembrava infinito, adoravo camminare in silenzio con te, mi bastava la tua presenza e così è stato per anni... e poi le scale, quelle dove ci fermavamo interi pomeriggi a parlare finché il sole tramontava e diventava buio. Adesso non sembra esserci più niente. Le nostre parole si sono dissolte nel tempo, assorbite da ciò che ci circondava, scolpite nelle cortecce degli alberi che ci facevano compagnia in silenzio. Non ci sono più i nostri sguardi, le nostre risate... non ci sei più tu, non ci sono la mia migliore amica e il mio unico amico di sempre. Ci sono solo io, ferma ancora su quelle scale, ad aspettare. Le cose cambiano, si cresce e si dimentica andando avanti. A volte mi guardo allo specchio e non scorgo i cambiamenti che il tempo ha disegnato sul mio corpo, ma vedo ancora la bambina di sei anni che va a scoprire i suoi nuovi compagni di classe, mentre fuori il cielo è grigio e infuria il temporale, quella bambina che incontrò due occhi blu e capì in quell'istante d'aver trovato il suo tesoro; vedo ancora la ragazza di dodici anni che continua a tremare alla vista di quegli occhi e non smette di amarli in silenzio; vedo la ragazza di sedici anni che abbraccia quel bambino che sta diventando un uomo, che lo stringe fino a perdere il senso e i confini di sé, fino a confondersi con la sua pelle restandogli addosso, fino a diventarne parte, quella ragazza che ha un grido d'amore che muore in gola, la stessa che perdendoti ha perso un pezzo di sé e di un destino che sembrava già scritto: il nostro. Io sono lì, ferma, mentre voi non esistete più. Sono andata via dal tuo paese perché le uniche cose che mi legavano a quel posto sono sparite, non avevo motivo di restare. I miei amici, le mie speranze, i miei amori, la mia tristezza, il luogo in cui sono cresciuta e che sembra intrappolarmi, sono divenuti così solo un sogno in cui mi rifugio ogni notte ad occhi aperti. Sono passati sette anni da quando le nostre vite si sono separate definitivamente, cinque dall'ultima volta che ci siamo parlati e guardati e se in tutto questo tempo non ti ho dimenticato, forse, non accadrà mai e io non mi sforzo perché succeda. Sarà perché siamo cresciuti insieme, sarà perché sei il primo che ho amato, sarà perché non ti ho mai avuto, sarà perché così deve essere. Lontano da te sento ancora sulle mie spalle il peso della mia colpa: essere andata via nel momento più bello senza dire niente e non riuscirò mai a liberarmene; tutte le cose che non ti ho detto e che vorrei sapessi... nessuna lettera sarebbe abbastanza per esprimere tutto ciò che sento, perché adesso è tardi, è tardi anche per questo, così il peso diventa sempre più grande perché non c'è modo di renderti partecipe dei miei pensieri. Lontano da te, che non ci sei, è un dolore odiarti per non poterti amare. Giorni, mesi, anni, ci hanno separato con un interminabile silenzio e adesso ogni minuto, ogni ora che trascorre mi pesa perché continua ad allontanarci, perché quel piccolo sentiero che ci divideva è diventato, ormai, una strada non battuta dai nostri passi insieme. Tutto quello che rimane è un campo incolto, inaridito, devastato da una tempesta, quello che resta di un amore è solo una scritta sciolta dalle lacrime del cielo, preda del vento che lo strema, lo scuote, lo deride. Ma come farti sentire questa voce silenziosa che ti chiama e invoca clemenza? Ti chiederei di amarmi come se fosse una preghiera, una supplica, ma non è questo l'AMORE, non una richiesta, non un dovere, così smetto di inginocchiarmi di fronte alla tua immagine chiedendoti di avere pietà per il mio amore e ricambiarlo, eppure sento di smarrirmi se abbandonando il tuo ricordo, ti lascio andare per sempre... So che a modo tuo mi hai amata, ho cominciato a sentirlo e vederlo in te solo dopo averti perso, ma so anche che il tuo amore era diverso dal mio che, nonostante sia in un angolo, è ancora vivo e mi fa aspettare, mentre mi perdo in braccia che non sono tue, mentre cammino verso il mio futuro guardando indietro. Ogni attimo trascina con sé uno strascico di ricordi ardenti che portano il tuo nome e bruciano l'anima, i miei passi si confondono con le tracce lasciate da te nel mio destino...
Addio bambino dagli occhi blu, ti aspetterò ancora su quelle scale, saprai sempre dove trovarmi.

Seduta ad una scrivania scrissi queste parole di pugno. Così inizia la mia storia, con una lettera spedita, un piccolo zaino e una partenza senza prevedibile arrivo.

Quando approdai in un luogo sconosciuto circondato da montagne avevo appena compiuto sei anni. Fino ad allora avevo continuamente cambiato casa, città e nazione. I miei genitori viaggiavano per lavoro, ma io adoravo immaginare che fossero vagabondi sempre alla ricerca dell'infinito. Per i primi anni della mia vita avevano portato anche me in giro per il mondo, finché decisero di fermarsi per sempre in un posto che scelsero a caso e che io definii, per tanto tempo, un luogo abbandonato da Dio, così piccolo e nascosto tanto da lasciarsi dimenticare.
Avevo dei vaghi ricordi del giorno in cui i miei genitori presero quella decisione, in fondo ero una bambina. Non chiesi mai quale fosse stato il motivo che li avesse spinti a lasciare la loro vita da girovaghi, probabilmente perché dentro di me, sapevo che quella ragione ero io e un po' me ne rammaricavo; né chiesi mai perché scelsero di stabilirsi proprio lì: un posto tranquillo quasi intimo, immerso nel verde, tra alberi e vicoli antichi, tra stradine di pietra dove si poteva respirare la storia di tutti gli abitanti che si erano alternati nel tempo e che continuava ad esistere nelle mura di quella piccola cittadina, impregnata nei sassi di quelle viuzze che si intrecciavano portando, a volte, in luoghi misteriosi e nascosti. Quel posto per molti anni fu la mia casa, un luogo prezioso perché mi aveva fatto conoscere le persone più importanti della mia vita.
Lì scoprii per la prima volta il valore e l'importanza dell'amicizia che per me avrebbe avuto, per sempre, il nome di Maria e di Alberto, i miei primi e unici migliori amici; due fratelli che divennero ben presto per me, parte della famiglia, un pezzo fondamentale della mia vita che persi troppo presto quando, in un giorno d'estate, partirono per trasferirsi in un'altra città senza fare più ritorno. Lì scoprii l'amore: nel volto di un bambino biondo dal sorriso più dolce dell'universo.
Sei anni e mezzo mondo già visto, ma fu in quel posto che trovai il mio mondo. Sei anni e un amore che sarebbe durato per sempre, comunque e dovunque. Fu così che tutto iniziò con una casa che, una volta diventata abbastanza grande, abbandonai illudendomi di dimenticare, sperando di allontanarmi dalla fonte delle mie pene, da quell'amore che avevo trovato tra le montagne, ma mio malgrado compresi che cancellare, scappando, non era possibile. Per mettere una distanza non occorre percorrere tanti chilometri, basta che la lontananza sia nella mente e nel cuore, non basta stare vicini per essere insieme, ed io non gli ero accanto ma ero con lui o meglio lui era con me, sempre, e prendere le distanze mi aveva solo fatto avvicinare ancora di più; riuscivo a vederlo anche in posti in cui non eravamo mai stati insieme, tutto mi parlava di lui, ogni momento della giornata sapeva far fiorire nella mia mente un ricordo ed era impossibile scappare da questo, non potevo fuggire da ciò che avevo dentro di me, neppure se fossi arrivata dall'altra parte del mondo e un oceano intero ci avesse separati.
Niente ti abbandonerà davvero se non sei tu a lasciarlo andare, nessuno può sciogliere ciò che ti ostini a tenere unito anche se ormai spezzato, diviso.
Ero fisicamente andata via, ma ero rimasta esattamente lì e me ne resi conto solo più tardi quando mi accorsi che mi aveva seguito, quando capii che per quanto provassi a tirarlo via da me, lui ritornava come una molla, con tanta più violenza quanta foga io impiegassi per spingerlo via da me. Era lì come un tatuaggio sul cuore, sulla pelle e non potevo mandarlo via.

Quando decisi di abbandonare quel piccolo paese e la mia casa, potei contare sull'appoggio dei miei genitori, non avrebbero mai potuto ostacolarmi proprio loro che adoravano sentirsi liberi, loro che amavano vedere posti nuovi, viaggiare... lo avevano fatto per anni e forse il senso della loro vita per tanto tempo, prima della mia nascita, era stato proprio quello: vedere il mondo e non sentirsi legati a nessun posto. Dopo poco tempo dalla mia partenza, infatti, ripresero a vagabondare, non misero in vendita la casa, ma non vi ritornarono mai più e nemmeno io. Benché fossero lontani continuavo a sentirli vicini e il loro affetto non mi mancò mai, quando avevo bisogno di vederli prendevo la mia valigia e li raggiungevo; semmai un giorno avessi chiesto loro di ritornare nella nostra vecchia casa, sarebbero stati felici di farlo e lasciare, di nuovo, quella vita da viandanti; forse un giorno sarebbe accaduto a prescindere da me, ma sapevo quanto amassero sentirsi cittadini del mondo, viaggiare era nella loro natura, quindi non gli avrei mai chiesto di tornare a meno che non fosse stato necessario.
Questo loro bisogno di scoprire nuovi orizzonti, in qualche modo, mi era stato trasmesso e quando annunciai il mio desiderio di partire per trasferirmi in un'altra città, capirono la mia necessità di andare. Spiegai i miei motivi, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, dissi che avevo intenzione di partire per ragioni di studio; non seppi mai se avessero capito la vera causa della mia partenza, ma una parte di me era convinta che in fondo l'avessero scoperto, sapevano che stavo partendo per allontanarmi da lui, da un amore ingombrante ma di fatto inesistente.
Non essendo cosciente che andare via non mi avrebbe fatto sentire meglio, che non avrebbe sistemato le cose e posto rimedio al mio malessere, partii carica di buone intenzioni e speranze che persi strada facendo arrendendomi alla realtà. Partii senza affrontare i miei demoni o meglio il mio unico rimpianto, partii senza dire tutto ciò che avevo da dire, senza provare a riprendermi ciò che credevo mi appartenesse.
Nella mia nuova vita mi ci trovavo bene, avevo una casa, una coinquilina, corsi da seguire, tutta la libertà che volevo, non mi mancava davvero nulla. All'inizio di quella nuova avventura stavo bene, credevo di essermi liberata di lui, di averlo dimenticato e di essere guarita da quell'amore che era diventato, ormai, una malattia, un'infezione che si nutriva della mia gioia, dei miei pensieri e della mia intera vita. Non sentivo più un peso sull'anima ma non mi sentivo neppure leggera, mi sentivo vuota e quella sensazione in qualche modo mi piaceva perché mi dava l'impressione di star bene.
Le giornate volavano, le riempivo di mille impegni che mi impedissero di pensare, non avevo tempo per l'amore, per lui e neppure per me. Tutto sembrava procedere come doveva, come volevo, finché un giorno lo vidi. Era lì davanti a me: come era possibile? Non lo sentivo da anni, non sapeva dove fossi, era una coincidenza? Come faceva ad essere nella mia stessa città, lontana chilometri da quel paese? Come poteva essere lì, nello stesso edificio dov'ero io?
Il corso era terminato, ero uscita dall'aula e l'avevo visto, era lì nel corridoio, un sguardo veloce e si era voltato. Senza neppure rendermene conto cominciai a seguirlo, camminava veloce e allora iniziai a correre, ormai gli ero addosso, ma a quel punto mi fermai, non ebbi il coraggio di toccarlo per farlo girare; probabilmente sentì dei passi avvicinarsi, una presenza dietro di lui e così si voltò. A un passo di distanza mi accorsi che la mia mente mi aveva tirato un brutto scherzo e l'inseguimento terminò con un fiasco: non era lui. Il bisogno di sentirlo, toccarlo, di riaverlo con me mi avevano fatto credere di vederlo, mi avevano ingannato a tal punto da farmi credere che lui fosse lì ed invece era solo un fantasma, un'immagine incorporea che si era insinuata sul volto di qualcun'altro. Cadere in quella trappola, d'altronde, era stato facile, quel ragazzo che mi ero fiondata a seguire gli somigliava molto; aveva il suo stesso colore di capelli, la sua stessa andatura, ma mi chiesi come avevo potuto lasciarmi ingannare da quello sguardo che di lui aveva ben poco. I suoi occhi li conoscevo bene e anche il suo modo di guardarmi: come avevo potuto non accorgermi che non era lui? Forse li avevo dimenticati o forse il mio desiderio di rivederli era stato così forte da offuscare la mia visione. Scoprire d'aver inseguito qualcun'altro mi lasciò sorpresa, in parte fui contenta di essermi sbagliata, di sapere che non era lui, in parte mi sentii affranta dalla sua assenza.
Dopo quell'episodio iniziai di nuovo a pensarlo, sognarlo e a scrivere di lui. Era passato tanto da che non lo facevo, era un rito che avevo proseguito per lungo tempo, ma che avevo abbandonato la prima sera in cui mi ero trasferita nella mia nuova città. Da quel momento ricominciai a farlo, scrivevo cose che avrei voluto dirgli, fargli sentire, ma scrivevo anche per me stessa, per sentirmi meglio, per avere l'illusione di essergli più vicina. Speravo che i miei pensieri potessero arrivargli in qualche modo, sotto forma di ricordi o attraverso il vento. Così gli parlavo e mi arrabbiavo, piangevo, riflettevo ma niente di tutto questo davvero mi avvicinava a lui, mi faceva solo sentire ancora di più la sua mancanza e il desiderio di allungare la mano e finalmente trovarlo, almeno per una volta; il mio semplice pensarlo, il mio dialogare con lui nella mia mente non lo rendeva reale. Lui non c'era ed io non potevo far nulla per averlo ancora, nemmeno ricordarlo. Eppure continuavo a chiamarlo con la voce dei miei pensieri e non smettevo di desiderare che un giorno lui avrebbe risposto, che mi avrebbe sentito, che fosse tornato. Non smettevo di aspettarlo sperando che prima o poi si sarebbe accorto di amarmi ancora, di non avere mai smesso, speravo che mi avrebbe riscoperto, che vagando tra i suoi ricordi mi avrebbe ritrovata, speravo che un giorno il suo cuore gli avrebbe fatto male e si sarebbe reso conto che quel nodo che ci legava si stava stringendo, che lo stava riportando da me, per sempre.
Ripiombai in quel bisogno di amarlo, in quell'amore che mi consumava e dal quale credevo di essere uscita, ed invece mi accorsi che fuggire non era stata la cura e capii che dovevo fare qualcosa, che era giunto il momento di parlare, di scoprire e affrontare il mio malessere, non potevo più vivere così, o meglio non vivere.
Giorni dopo quell'incontro decisi di smettere di scappare da me stessa e tutto il resto, presi un foglio bianco, scrissi una lettera e la spedii. Fu nell'esatto momento in cui la mia mano lasciò cadere quella missiva nella cassetta della posta, che mi resi conto che nella vita si vivono fasi, frazioni di tempo e sembra che questi lassi temporali siano destinati a durare per sempre, vogliamo che sia così e la smania di prolungare quel frammento all'infinito può spingere a viverlo con l'ansia dell'attesa della sua fine, impedendoci di viverlo davvero. Piccole ere in cui a dominare è l'amore o la paura, la gioia, l'indifferenza, il desiderio di casa o amicizia, un sentimento, un qualsiasi stato d'animo o necessità che padroneggia per un po' la nostra esistenza. Io ero nella fase della ricerca interiore, ancora non sapevo cosa avrei lasciato e cosa avrei trovato, cosa avrei perso e cosa conquistato, ma era proprio l'esigenza di percorrere le strade sconosciute della mia anima a guidare il mio viaggio.

Un'altra partenza, dunque, ma diversa da quella che mi aveva portata via dai miei genitori, dalla mia casa e dalla mia vecchia vita. Partire questa volta non per fuggire ma per trovarmi, non per mettere una distanza ma per mettere un punto, per chiudere qualcosa che durava da troppo a lungo e che sembrava destinata a non finire mai. Partire per troncare qualcosa che mi illudevo di poter terminare: una storia che sentivo dovesse finalmente concludersi.
Partire stavolta solo per me stessa, per ricominciare o semplicemente per cominciare qualcosa, perché tutto questo per anni mi aveva tenuta legata a ciò che continuava ad esistere solo in me, mi aveva tenuta prigioniera in un mondo ormai remoto; ero schiava di emozioni condizionate da ricordi che facevano capolino nel mio cuore senza preavviso e mi impedivano di vivere al di fuori di esse. Partire per essere, vivere, rinascere.
Con una semplice lettera avevo compiuto il primo passo per liberarmi della mia zavorra, di un amore, un rimpianto, un desiderio che ormai erano diventati solo un peso. Con un gesto, forse, mi ero buttata alle spalle anni di paure, dolori, sogni infranti, pianti, sensi di colpa, disillusioni, di vita messa in pausa. Adesso era giunto il momento di riprendere da dove mi ero arenata, con una lettera avevo finalmente premuto il tasto di avvio. Il nastro della mia vita ripartiva, io ricominciavo.

Zaino in spalla e tanta voglia di allontanarmi per ritrovarmi. Quello che avrei affrontato sarebbe stato un viaggio di rinascita, un viaggio per guardarmi dentro, trovare la ragione della mia inquietudine e farci i conti.
Avevo bisogno di un luogo adatto per poter scavare in fondo alla mia anima, avevo bisogno di un treno: l'unico posto che era in grado di mettermi in contatto con la parte più profonda di me stessa. Il suono delle rotaie che sembra rievocare e riconnettere col battito del cuore, le immagini di cose indistinte che passano veloci davanti agli occhi sembrando semplici macchie di colore, riuscivano ad aprire la mia mente e a darmi tempo, il tempo per capire, ragionare, scoprire e raggiungere tutto ciò che non era al di fuori, ma dentro di me.
Così un passo dopo l'altro mi incamminai verso la stazione ed arrivai lì, davanti ad un treno, pronta a salire, pronta ad andare al centro dei miei pensieri. Scelsi un posto accanto al finestrino e mi misi comoda; mi sentivo sicura della mia scelta e di ciò che facevo, anche se il mio cuore era pesante, c'era ancora molta malinconia, tristezza, qualcosa che mi tirava indietro, eppure stavolta sapevo di essere decisa a spingermi con tutte le mie forze al di fuori di quelle sabbie mobili che mi tenevano prigioniera. Dovevo uscire da quello stato ed ero mestamente determinata a riuscirci. Chiusi per un attimo gli occhi, dentro di me sapevo che nel momento in cui il treno sarebbe partito, non avrei lasciato solo la città ma un altro pezzo di me. Un respiro profondo e poi un altro ancora, per riempire i polmoni dell'aria sufficiente per poter restare in vita mentre una parte di me moriva, per poter resistere al vento che mi avrebbe scrollato da dosso ciò che ormai era diventato solo dolore, una di quelle tante frazioni di tempo.

La primavera era arrivata già da un po' e la si percepiva anche attraverso i vetri del finestrino accanto a cui ero seduta; i raggi del sole bussavano ai miei occhi e di tanto in tanto mi arrivava da lontano l'odore di gelsomino e fiori d'arancio, uno dei profumi che mi faceva ritornare bambina, insieme all'odore della pioggia d'estate e della terra bagnata.
Ero cresciuta come una piccola selvaggia tra piante e animali, la natura mi apparteneva e la sentivo scorrermi addosso quando correvo tra gli alberi e mi nascondevo tra le case di pietra disabitate immaginando che lì un tempo avevano vissuto i personaggi delle fiabe che mi raccontavano... così in una Biancaneve aveva dimenticato una scopa, in un'altra dei folletti magici avevano costruito una porta di legno, mentre una fatina ne aveva ricoperto un'altra ancora di foglie che le facessero da tetto; ognuna di esse aveva la sua particolarità e una sua storia, l'unica cosa che le rendeva uguali era la magia della natura che le circondava. Crescendo avevo, lentamente, abbandonato certe abitudini, ma non avevo mai smesso di stendermi sotto il cielo stellato né di guardare la pioggia cadere e baciare i fiori come la rugiada al mattino; avevo conservato un rapporto speciale, tutto mio, con la natura e me lo portavo dentro, non potevo farne a meno. Vi erano momenti in cui percepivo la mia anima amplificarsi espandendo la mia capacità di sentire e tutto diventava una meraviglia, il mondo un luogo dove incontrare ogni sorta di grandiosità. Così anche i posti a me noti, del mio vivere quotidiano, assumevano un nuovo senso e allora anche il riflesso del sole che tramontava sui panni stesi diventava un miracolo, rivelazione divina, una ragione per sentirsi bene, soddisfatti del nulla, dell'oggi, dell'ora, di un attimo e perdersi in quell'istante vivendolo fino in fondo. Amavo quei momenti che sapevano sempre farsi strada e giungere a me all'improvviso, momenti straordinari che io accoglievo come un dono da cogliere al volo. Lì seduta in un comunissimo treno me ne era appena arrivato uno: un raggio di sole, un profumo e per un secondo il mio cuore era riuscito a sorridere.

Le ore passavano e io mi allontanavo sempre di più. Accanto a me non c'era nessuno, ma sentivo ugualmente il chiacchierio confuso degli altri passeggeri. Conversazioni indistinte che non riuscivo a cogliere per intero non essendoci neppure la mia intenzione di capirle, ma una frase, d'improvviso, riuscì a catturare la mia attenzione. La voce infastidita di un uomo pronunciò queste parole:
- Non ti sembra esagerato scrivere ti amo a quest'età, e quando diventerai grande cosa dirai alla persona di cui ti innamorerai davvero? -
Non sentii alcuna replica, immaginai che quella domanda fosse rivolta ad una ragazzina, forse figlia o nipote di quell'uomo e che l'assenza di risposta fosse, probabilmente, dovuta all'imbarazzo della ragazza simile a quello di chi viene sorpreso con le dita nella marmellata. Rimasi interdetta, un po' dispiaciuta e un po' seccata, pensai:
- Ecco i soliti giudizi affrettati e consigli sbagliati che ti porti dentro come un marchio che ti condizionerà a vita. -
Non condividevo quel pensiero né tanto meno il modo in cui era stato espresso, non avrei mai potuto proprio io che, da bambina, a differenza degli altri bimbi non vivevo di giochi e fantasie, ma già pensavo all'amore considerandolo la cosa più importante dell'esistenza, qualcosa di cui non si può fare a meno; già da allora, per me, era una necessità e a modo mio lo cercavo, lo sognavo, immaginavo che volto potesse avere, quali parole sussurrasse, come sarebbe stato e aspettavo il giorno in cui finalmente l'avrei incontrato. Non potevo essere d'accordo con quell'uomo proprio io che, non sapevo, non potevo, esimermi dal parlare, spiegare e ancora parlare. Io che giustificavo questo mio inarrestabile bisogno di esprimere pensieri e sentimenti con l'idea che nulla di quello che sentiamo deve essere nascosto o trattenuto perché indice delle nostre emozioni, pulsioni, di ciò che ci rende vivi, semplice espressione di ciò che in noi è più vero, di un'esigenza. Ero convinta che le parole fossero fatte per essere pronunciate, i ricordi condivisi, i pensieri esternati quasi come per renderli tangibili. Mi chiedevo a cosa servisse tenere per sé un desiderio, un'idea, eventi vissuti e sospesi nella mente magari anch'essi fatti di desideri taciuti, passioni, discorsi tenuti nascosti; a cosa sarebbero servite le emozioni se non per essere messe a servizio degli altri? Pensai a tutti i Paesi in cui questa semplice possibilità veniva negata, a tutti i luoghi in cui un bacio o un pensiero difforme rappresentava un oltraggio e mi sentii fortunata, fortunata di vivere in un posto libero dove si poteva esprimere e combattere per la propria idea, dov'era possibile coltivare, manifestare e difendere ciò che si amava anche se era contro la morale comune. Esprimersi come diritto, come possibilità, come dono, dono al quale io non sapevo e non avrei mai rinunciato, dono che i più dimenticavano di avere, perché quando si diventa adulti spesso succede di diventare cinici, il cuore si chiude diventando una specie di fortezza impenetrabile in virtù delle esperienze, si diviene quasi indifferenti, ci si dimentica com'è sentirsi innamorati, quali sono le piccole gioie, com'è sentirsi felici di un semplice risveglio. A volte, quando si diventa adulti, si perde la capacità di meravigliarsi, subentra la razionalità monopolizzando tutto, si mettono al margine i sentimenti dando via libera al minor spreco di energie soprattutto emotive, si standardizzano le giornate a favore della praticità ed è da questo che nasce l'incomprensione per tutto ciò che si è perso con la fine della gioventù, di un'età a metà strada tra ingenuità propria dei bambini e la logica tipica degli adulti; un'età in cui si ha un minimo di esperienza per ragionare ma non così tanta da perdere la fantasia, la speranza, la voglia di lasciarsi cullare dalle illusioni. Ingenuità mista a consapevole volontà di sbagliare nel momento in cui ci si abbandona, ci si affida a qualcun'altro o a un sogno, assenza di pregiudizio, bisogno di credere nella bontà del mondo, capacità di sperare sempre, è questo che contraddistingue il mondo degli adolescenti da quello degli adulti, quegli adulti incapaci di comprendere cose ormai passate, oltrepassate, superate, che non fanno più parte della loro quotidianità e per questo considerate, spesso, ridicole. Col tempo si dimentica ciò che si era, cosa si provava e quest'assenza di memoria è ciò che spesso ci rende inadatti alla comprensione altrui.
L'uomo che aveva espresso indignato il suo parere aveva semplicemente dimenticato o forse mai lasciato davvero spazio a ciò che sentiva. Allora pensai a dove sarebbero andate tutte le frasi non dette, i pensieri inespressi, i desideri bloccati... forse nel mondo incantato delle anime ognuno avrebbe potuto ripercorrere da lontano ogni attimo della sua vita e così capire le cose incomprese, leggere nella mente degli altri e far sapere alle persone tutto ciò che era stato tenuto nascosto. In fondo il paradiso ognuno può sognarlo come vuole ed io immaginavo fosse così, un universo che conteneva tutte le emozioni non condivise e che finalmente potevano essere vissute.
Sarei voluta andare da quell'uomo e dirgli tutto quello che avevo pensato, tutto ciò in cui credevo, sarei voluta andare dalla ragazza e dirle che si può amare anche a dodici anni, che ci si può innamorare anche a sei, proprio come era accaduto a me, ma non feci nulla di tutto questo, presi il mio mp3 e lasciai che la musica distogliesse i miei pensieri da tutto quanto avessi ascoltato e pensato. E di nuovo il tempo cominciò a scorrere e i miei pensieri a viaggiare insieme a quel treno che andava sempre più lontano.

La necessità di parlare e il bisogno impellente di esprimermi mi caratterizzavano, ormai, da un po' di tempo. A quel bisogno io non giunsi per caso, ma ci fu un evento preciso che rese quell'esigenza una mia peculiarità e fu proprio il ricordo di quel determinato momento che riportò la mia mente all'ultima volta che lo vidi.
Era una domenica mattina. Prima di quell'ultimo incontro c'eravamo visti anche il giorno precedente. Erano trascorsi due anni senza vederci né sentirci, avevo tanto sperato in quell'incontro ma nel momento in cui capii che sarebbe arrivato, improvvisamente, non avevo più nulla da dire perché era più il bisogno di ascoltare, sapere, che non di parlare. Quel sabato sera di cinque anni fa, i suoi occhi infiniti erano dentro i miei ed ancora ne ero incantata. A fatica cercavo di parlargli. La sua vicinanza, il suo sguardo riuscivano ancora a paralizzarmi. Si sedette sullo schienale di una panchina, mentre parlava, poggiai la mia mano sul suo ginocchio e lo guardai, non fece un cenno. Fu in quel momento che lo sentii più distante che mai. Tra discorsi vacui e parole inutili, giunse la sera e l'ora di andare, mi chiese di rincontrarci il mattino seguente, accettai. Prima di tornare a casa, sorprendentemente, si fermò davanti a me, mi porse la guancia e mi chiese di dargli un bacio. Di nuovo un contatto dopo tanto tempo... avrei voluto gettargli le braccia al collo e stringerlo ancora a me, ma gli diedi solo il suo bacio e andai via.
Il giorno rischiarava e con esso arrivò l'ultimo incontro. Il tempo era minaccioso, di lì a poco sarebbe piovuto. Fermi uno di fronte all'altra, sempre nello stesso posto, iniziammo a dirci qualcosa. Ero un tumulto di emozioni e pensieri che, come al solito, lasciai sopire dentro di me. Mi guardò negli occhi e mi domandò a cosa stessi pensando, cosa provavo, ma nemmeno in quel momento riuscii a dirgli ciò che non gli avevo mai detto, ossia che lo amavo dal primo giorno che lo avevo incontrato, avrei dovuto dirgli solo due parole, ma ancora una volta esse morirono sulla mia bocca, erano lì ma non riuscivano ad uscire e prendere forma, perché non volevo vedere sul suo viso un'espressione che non avrei gradito, perché era lì che mi guardava ed io non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi, ero bloccata come in uno stato catatonico, la mia anima usciva da me per viaggiare nella sua. Tutto questo, però, lui non lo sapeva ed impaziente, perché ancora una volta non parlavo, mi disse che doveva andare; non protestai e lo lasciai incamminarsi anche se contro la mia volontà che non sapeva manifestarsi. Compresi d'averlo perso. Si diresse verso casa sua sotto la pioggia. Non rimasi a guardarlo allontanarsi, aprii il mio ombrello e mi avviai nella direzione opposta alla sua, col cuore in gola e il desiderio di percorrere al contrario la strada che mi si dispiegava davanti, con la smania di susseguire passi che mi avvicinassero e non allontanassero da lui, finché non giunsi a casa.
Prima di varcare la soglia mi fermai per un secondo, poi entrai. Nel trambusto familiare, mentre mi davano a parlare e sorridente fingevo di essere serena, mi sentivo come un maratoneta alla fine della sua marcia vittoriosa che si districa tra la folla che lo acclama. Superata quella confusione riuscii ad appartarmi nella mia stanza e così cominciai a scrivere:
- Ciò che avrei dovuto dirti oggi, quando mi guardavi negli occhi sperando che le mie labbra si schiudessero emettendo un suono preludio di una parola, di una frase, di un intero discorso, era questo: Paura di amarti, di sentire che volevi qualcosa che non sapevo darti. Paura di deluderti, di avere troppo bisogno di te tanto da non saperne fare a meno, paura di non saper gestire qualcosa di troppo grande, paura di perderti e non sapere andare avanti, di vederti andare via come oggi e non sapere come fermarti e chiederti di restare con me, paura di non essere all'altezza, di rendere me stessa consapevole che eri tutto il mio mondo, tutto quello che volevo, paura di ciò che poi è successo, paura di soffrire, di non essere nei tuoi pensieri, paura di guardarti negli occhi e non riuscire a guardare nient'altro, paura di sapere che sei altrove e non saperti dire quello che sento... paura di dirti che ti amo con ogni singola parte di me stessa, più di quanto possa amare.
È questo che mi spaventa, avere bisogno di qualcuno che di me non ne ha. Non serve amare se non si è in grado di far sentire quel che tu senti, se chi vuoi non c'è. È doloroso ammettere una propria debolezza e non avere più difesa alcuna, adesso è come se sapessi tutto di me. Fa male essere causa del proprio male al quale non c'è rimedio, sentire il peso di una colpa troppo grande da sostenere. Ho avuto paura con te che conosco da una vita... forse è proprio questo il mio problema, l'aver visto sempre, nella mia immaginazione, la mia vita insieme alla tua come fosse la stessa e darti, in qualche modo, per scontato, come se fossi mio, come se fossi sicura che mi avresti sempre aspettato, perché una vita per te, senza me, non poteva esserci e invece la realtà è ben altra e io ci ho sbattuto contro e adesso devo farci i conti senza sapere come, senza essere pronta.
Quello che non ti ho mai detto è scritto qui sul cuore, sul mio volto. Quello che non ti ho mai detto è garanzia del mio amore, respiro interrotto dal pianto. Quello che non ti ho mai detto era nei miei gesti, viveva nei miei occhi, ma tu non hai mai capito ciò che la mia bocca non ha mai pronunciato. Quello che non ti ho mai detto regna dentro di me, nei miei sogni, nei miei pensieri. Quello che non ti ho mai detto è quello che adesso vorrei dirti e non ascolti, un canto senza voce, un violino che suona solo per me, una musica la cui melodia ti è sconosciuta... Ho sempre saputo di amarti più di quanto tu amassi me, ma adesso tutto questo a che serve? Ora sai qualcosa che forse avrei dovuto continuare a nascondere ad entrambi.
L'altra sera riportasti alla nostra mente un dolce ricordo, la nostra gita scolastica: Io che apro la porta della mia stanza e senza dire una parola ti abbraccio. Mi hai confessato che per te quel gesto fu come un ti amo silenzioso. Allora sapevi leggermi negli occhi, ma il bisogno di sentirti dire quelle due parole che non riuscivo a pronunciare e che ora, come una condanna, sembra che io non possa pronunciare, ti hanno allontanato da me... così le frasi non dette sono diventate un muro che si è irto tra di noi, un muro di cristallo per me e di cemento armato per te, che ti impedisce di vedermi e costringe me a guardarti.
Dopo aver dato corpo ai miei pensieri, piegai il foglio sul quale li avevo trascritti, lo riposi in una busta e feci in modo che la ricevesse. La risposta tardò ad arrivare e quando giunse fu come una sentenza di morte. Il suo biglietto recitava così:
- Sono giorni che penso a cosa scriverti. Adesso dici di amarmi, non sai quanto tempo ho aspettato di sentirtelo dire, quanti giorni ho trascorso a parlare di te, lontano da te, nella tua assenza. Ti ho odiato perché ti amavo, perché ti volevo con me ma tu ti allontanavi, ti ho odiato perché eri dentro di me e ti odio perché ci sei ancora, ma adesso è tardi, io non ti amo più. -
Rileggevo quelle parole e ogni volta il mio cuore era come se venisse stretto in una morsa, il dolore era così forte da togliere il respiro, un dolore di cui io stessa ero la causa. Trascorsero giorni, mesi e il senso di colpa, il dispiacere erano immutati, fu allora che decisi di marchiarlo addosso quell'errore per ricordarmi di non farlo mai più, di non avere mai più paura di provare e rischiare, di amare. Così un giorno feci incidere sulla mia pelle queste parole: taobh istigh orm. Dopo quel grosso sbaglio promettendo a me stessa che non l'avrei più commesso, iniziai a dire sempre tutto quello che sentivo, non riuscivo più a non esprimere ciò che provavo, anche se sapevo di sbagliare o peggio di non ricavarne nulla. Incurante dei rischi io dovevo dire, ma forse quello di cui avevo bisogno era solo di parlare con lui, avere la possibilità di guardarlo di nuovo e parlargli di persona. Era proprio così, c'erano momenti in cui avevo l'esigenza di dirgli tutto ciò che non sapeva e non aveva mai saputo e poi parlargli ancora, non importava di cosa, l'importante era farlo e basta. Era come se avessi riacquistato la voce dopo tanto tempo e dopo anni di silenzio avevo solo bisogno di dirgli: - Ciao, sono ancora qui. -

Il treno continuava la sua corsa ed io il viaggio nel mio profondo universo, ma per un attimo staccai la mente da ogni memoria e la mia attenzione venne improvvisamente rapita da una donna che era seduta al lato opposto, parlava con un tono di voce discretamente alto e senza mai interrompersi. Accanto a lei, una ragazza che poteva avere pressappoco la mia età. Osservavo le due donne: una così presa da sé, così bisognosa di parlare da non accorgersi o non interessarsi che il suo interlocutore non stava neppure ascoltandola, l'altra completamente assente, i suoi occhi inseguivano tutto ciò da cui la separava un vetro, tutto ciò che scorreva dietro di esso, finché non si accorse di avere un taglio sulla sua mano. Dall'espressione sorpresa, compresi che non si era accorta di averlo, né probabilmente sapeva come se lo fosse procurata. Così pensai che l'amore è proprio come un taglio inavvertito, una ferita inferta in silenzio che scopri solo più tardi, quando ormai già c'è e non sai come e quando sia accaduto, chi o cosa l'abbia provocato; uno squarcio di cui ti accorgi solo quando comincia a far male perché solo dopo avverti il dolore, quando riesci a percepirlo e a vederne i segni. E allora non puoi far nulla, solo aspettare che si sani e contemplarne la cicatrice come un cimelio di guerra, perché l'amore che lascia tracce indelebili sull'anima, è una lotta, una battaglia, uno scontro, un incendio. L'amore può aprire le porte dell'inferno o del paradiso, eppure che sia giusto o sbagliato, che duri o finisca, lascia sempre il sapore di quel mistero infinito consegnatoci per lasciare sempre viva quella fiamma... un filo di Arianna che riporta sempre sulla strada di casa.
Un taglio, lo stupore, poi il dolore io sapevo il momento in cui tutto ciò era accaduto. Mi innamorai di lui quando ancora non avevo l'età per capire bene cosa fosse l'amore così come lo intendono gli adulti. Ricordavo ancora quel momento come ricordavo l'esatto istante in cui compresi di essere innamorata di lui e smisi di lottare contro quel sentimento che mi faceva vivere ma che faceva anche male; ricordavo l'attimo in cui decisi di cedere e lasciarmi trasportare.
Era una sera di fine inverno e noi eravamo al nostro solito posto. Lui era seduto su un muretto e io gli ero accanto in piedi, guardavo la luna senza distogliere lo sguardo come se ne fossi attratta; da lontano sentii la sua voce che chiedeva cosa stessi guardando, gli risposi semplicemente: la luna, poi, voltandomi verso di lui gli rivolsi la sua stessa domanda. Non terminai neppure di chiedere che rispose:
- Guardo qualcosa di più bello, guardo te... -
Quella frase fu, per me, come un segno del destino, una rivelazione che non avrei potuto ignorare. Giorni prima di quella sera, infatti, ritornando da un viaggio con la mia famiglia, appoggiai la testa accanto al finestrino della macchina per poter vedere il cielo e nello specchio della mia mente vidi me stessa che guardavo la luna e pensai che mai nessuno avrebbe potuto star lì ad osservarmi mentre io guardavo il cielo: chi mai avrebbe potuto farlo? Dopo qualche secondo vidi la scena che senza saperlo avrei vissuto di lì a giorni e pensai che, in fondo, solo lui avrebbe potuto farlo. Quella specie di sogno ad occhi aperti mi svelò quale era il trucco per arrivare al mio cuore e far cadere ogni barriera, mi mostrò che mi sarei potuta innamorare solo della persona che avrebbe fatto ciò che avevo appena visto con la mia spontanea immaginazione, che questa persona soltanto sarebbe stata l'unica che avrei potuto amare davvero e lui, inconsapevolmente, quella sera realizzò la mia visione. Come avrei potuto non cedere, come avrei potuto non ammettere che lo amavo e che lui era il mio destino?
Dentro di me continuava a regnare una convinzione, la stessa che mi aveva fatto puntare su di lui a soli sei anni, la stessa che mi teneva legata a lui senza rimedio alcuno. Qualcosa ci teneva uniti e ci faceva sentire parte l'uno dell'altra senza volere. Io ne ero sicura e allo stesso modo sapevo che anche lui ne era cosciente, ma riusciva a negarlo più facilmente di quanto io avessi mai fatto. Ero consapevole del fatto che per anni ero stata proprio io a respingere l'esistenza di questo legame, a lottare con tutte le forze contro di esso per allontanarlo da me; duramente avevo combattuto, rifiutandolo, pur sapendo che non se ne sarebbe mai andato che sarebbe rimasto davanti a me anche se avessi chiuso gli occhi e adesso era lui che stava andandoci contro, era lui che credeva che non ammettendolo sarebbe sparito, che non parlandomi, non vedendomi sarei scomparsa dal suo cuore proprio come facilmente mi aveva rimosso dalla sua mente. Credeva che se avesse smesso di pensarmi e guardarmi avrebbe potuto cancellare i suoi sentimenti inconsci, le sue emozioni nascoste e a lui stesso sconosciute, ma non sarebbe servito a nulla negare qualcosa che esisteva a prescindere, io lo sapevo bene. Aveva paura di toccarmi anche solo col pensiero perché irrimediabilmente sarebbe ricaduto nella trappola e si sarebbe reso conto che niente avrebbe potuto spezzare quel filo sottilissimo e invisibile che ci legava a doppio nodo, facendoci vagare separati ma mai soli. Per anni io avevo saputo che lui c'era anche se i nostri occhi non si incontravano e le nostre mani non si accarezzavano per mesi, anni... e ora lui sapeva che se avesse voluto trovarmi non avrebbe neppure dovuto cercarmi perché ero esattamente lì, con lui, non ero mai andata via davvero.
Eppure mi chiedevo dove mai fosse finito quel ragazzino innamoratissimo. Dov'erano andati a finire quegli sguardi interminabili accompagnati da altrettanti silenzi? Dov'erano finiti quegli abbracci così dolci e intensi? Dov'erano andati quei suoi bellissimi sorrisi e quegli occhi malinconici che mi guardavano quando mi allontanavo, quegli occhi che mi chiedevano solo amore e mi davano amore? Dove avrei dovuto cercare tutto questo? Tutto quello che avevo avuto e che era scappato a nascondersi chissà in quale posto lontano da me. Dov'era finita tutta la mia vita? Tutto quello che per me contava, tutto quello che avevo sempre desiderato, tutto ciò che volevo? Dov'era il mio amore? Dove sarei dovuta andare per ritrovarlo? Quali strade avrei dovuto percorrere per riaverlo? Quanto avrei dovuto penare per mettere tutto a posto? Quanti tormenti avrei dovuto ancora subire solo per potermi sedere ancora una volta accanto a lui e finalmente dirgli quanto tenevo a noi, guardandolo negli occhi, senza bloccarmi, senza perdere il respiro, parlando tutto d'un fiato?
Volevo solo poterlo amare, volevo solo poterlo avere con me per sempre e smettere di chiedermi dove fosse finito tutto il mio mondo.

Il tempo scorreva sui binari ed io continuavo a pensare al mio ieri e a desiderare di tornarci. Tutto quello che avevo perso e non ritornava, le persone che amavo e che non c'erano più per me, ogni ricordo diventava ogni giorno più pesante invece di affievolirsi. Non mi mancava solo lui, ma anche i miei amici; non avevo accettato la loro partenza e non avevo mai affrontato quel senso di abbandono che mi portavo dietro da allora. Perdere, in qualche modo, le persone che amavo, era ciò che più temevo, era ciò che non sapevo superare. Gli addii non mi erano mai piaciuti.
Guardavo fuori, alberi, strade, case, tutto passava veloce e io speravo che quelle forme quasi astratte, potessero cancellare per un po' quei pensieri tristi; così chiusi gli occhi per svuotare la mente, feci un bel respiro, chinai la testa e rimasi così per un po' di tempo in cerca di qualche attimo di pace, poi riaprii gli occhi e la prima cosa che vidi furono le mie mani, dal rossore e dai segni, mi accorsi che una stava stringendo l'altra con troppa forza, ma non allentai la presa, anzi, lasciai che una restasse nella morsa dell'altra, senza ragione e guardavo il mio inconscio agire. Qualche istante e poi ripresi con i miei pensieri. Stavolta il centro delle mie riflessioni era la presa di coscienza del mio volontario e ripetuto - suicidio - che praticavo quotidianamente in ogni relazione e anche con me stessa. Era come avvertire il vuoto e abbandonarsi ad esso con decisione. Non mi accorgevo mai di quello che avevo davanti andando alla ricerca di ciò che non avevo o potevo avere, rincorrendo spesso cose che non esistevano o peggio chi non si accorgeva di me guardandomi attraverso senza vedermi. Scappavo o rincorrevo senza mai trovare destinazione alcuna. E così mi convincevo di amare chi non potevo raggiungere, desideravo un abito che non avrei mai indossato, mi infilavo tra i rovi per prendere una castagna pur sapendo di graffiarmi e benché ne avessi mille altre alla mia facile portata, chiudevo gli occhi per non vedere ciò che mi era chiaro pur di infliggermi pena, pur di soffrire perché questo per me sembrava che fosse l'unico modo di sentire. Così rinunciavo alla felicità, all'amore che potevo avere, rifiutavo tutto ciò che era davanti a me perché se arrivavo alla destinazione, poi, non c'era più nulla per cui soffrire, sentire, vivere. Ma sentire e vivere era davvero solo patire?
Provai a cercare una risposta, iniziai a guardare indietro, al mio passato e giunsi alla conclusione che fino a quel momento la felicità certo non mi era mai appartenuta e ancora non mi apparteneva perché non sapevo vederla, non sapevo averla e come per l'amore, in fondo, non sapevo dargli una definizione, non sapevo spiegare cosa fosse, ma il motivo era davvero solo perché credevo di non averla mai conosciuta? Tutte quelle domande che mi ponevo fecero vacillare la mia convinzione, iniziai a dubitare delle mie stesse idee. Cominciai a chiedermi se fosse possibile essere felici senza saperlo, se a volte non siamo in grado di capire che lo stato d'animo che stiamo vivendo sia felicità. La ragione mi suggeriva che era impossibile vivere qualcosa di cui non si è coscienti, eppure c'era chi affermava che non solo ciò che possiamo vedere esiste. Probabilmente la felicità è solo troppo breve per riconoscerla, per permetterci di accorgerci di viverla, semplicemente troppo fugace tanto che la nostra mente, forse, non riesce ad afferrarla perché quando la nostra ragione è lì, pronta ad analizzare, la felicità ormai è già svanita. Eppure, pensavo, esistono i ricordi, dovremmo ricordarla, perché allora qualcuno non ci riesce? Forse perché non l'ha mai provata? Tornai al punto di partenza. Mi fornivo da sola tesi ed antitesi senza riuscire a venirne a capo, quando alla fine pensai che, come i più sostengono, la felicità davvero è solo uno stato mentale, proiezione di un pensiero positivo, semplice volontà. Allora io, forse, non avevo mai avuto la volontà o la perdevo troppo facilmente, ma ero decisa, decisa a smettere di chiedermi cosa fosse la felicità, magari solo così avrei potuto davvero sentirla dentro di me.

Tra osservazioni e pensieri, stanca, ad un certo punto chiusi gli occhi e lo sognai. In realtà si trattava solo di un ricordo, il più bello vissuto insieme e che durante il mio sonno si trasformò in visione onirica. L'autunno era arrivato da un po', le giornate piano iniziavano ad accorciarsi ed era ormai buio, la luce arancione dei lampioni illuminava la strada, le case e anche noi, che avevamo deciso di riprovare a stare insieme. Lui prese la mia mano e mi condusse nel luogo che tacitamente divenne il nostro posto. Io gli chiesi di abbracciarmi, lui si avvicinò a me e io lo strinsi forte tanto da fare in modo, o meglio, tanto da avere l'impressione che i nostri corpi, i nostri respiri e finanche le nostre anime si fondessero per diventare una sola cosa. Accarezzavo il suo viso con la mia mano, piano lo sfioravo senza guardarlo, restando abbracciata a lui, respirando a fondo, lasciando che qualcosa di lui entrasse dentro di me come per osmosi. Mentre dormivo sentivo il mio cuore espandersi lentamente e poi restringersi d'improvviso, d'un colpo, sentivo un infinito amore che mi faceva vivere e morire allo stesso tempo. Sentivo dolore per un sentimento così forte, incompreso e soprattutto sconosciuto al destinatario.
Mi svegliai sentendo ancora addosso la sensazione che mi aveva accompagnato in quel ricordo addormentato che si era spacciato per un sogno, un sogno che mi lasciò l'amaro in bocca perché avrei voluto restare lì, chiusa in quel bellissimo ricordo ormai lontano ma ancora così vivo dentro di me. Dopo di lui non riuscii mai più a provare la stessa sensazione, nessun abbraccio fu più lo stesso, nessuno riusciva a darmi la stessa emozione, a farmi sentire la stessa profondità, immersione...

Ormai sveglia mi resi conto che un'altra ora era volata via. Il treno era fermo e dal mio finestrino potevo vedere la strada. Mentre cercavo di rimuovere da me quella sensazione di perdita e mancanza che il sogno aveva risvegliato, vidi una ragazza sovrappensiero che sostava sul ciglio di un marciapiede, quando all'improvviso si accorse che stava per perdere il suo autobus. L'espressione del suo viso mutò in pochi secondi e con uno scatto simile a quelli di chi è deciso a non lasciare andare qualcosa, di chi vuole disperatamente afferrare ciò che gli sta scivolando tra le dita, corse dietro quel titano bianco battendo sulle sue porte per farlo fermare, ma indifferente l'animale metallico continuò la sua corsa senza arrestarsi, senza prestare attenzione a quella giovane donna che, delusa e rassegnata, era ormai piegata su se stessa, le mani sulle ginocchia e il respiro corto; sembrava che non avesse perso un semplice autobus, ma un'occasione. E così anch'io... anch'io tanti anni fa avevo perso la mia opportunità, quel pullman era passato e si era fermato ma ebbi paura di salirci e adesso ogni volta che mi passava accanto provavo a fermarlo, gli correvo incontro battendo sulle sue maestose fiancate, ma non si fermava mai, proseguiva il suo percorso e io, tutte le volte, ripiegata su me stessa non per la stanchezza ma per l'impotenza e lo sconforto, lo vedevo allontanarsi senza nemmeno accorgersi dei miei richiami.

Era chiaro che dovunque andassi e qualunque cosa facessi la mia mente mi riportasse a lui, continuavo a cercarlo nei miei pensieri, nei ricordi, nei miei sogni interrotti dalla realtà, nei desideri spezzati dalle mie frasi incompiute, dalle mie rinunce; ogni stagione mi ricordava lui, per ognuna di esse c'era un aneddoto o meglio una sensazione che mi riconduceva a pensarlo, a ricordare qualcosa di lui, di noi, un noi, forse, mai esistito davvero. Così iniziai a chiedermi se l'avessi mai amato o se in fondo io l'avessi solo creduto. Dubitavo d'aver avuto un solo amore, un amore assoluto. Ma se un amore non è totale, poteva davvero chiamarsi amore? Non credevo d'aver provato un amore imparagonabile una sola volta per un'unica persona. Avevo tanti piccoli amori, ognuno dei quali era impareggiabile ed assolutamente diverso. Avrei mai potuto stilare una lista? Stabilire quale fosse il più importante o il meno necessario? Avrei potuto decidere quale fosse stato quello al quale non avrei mai rinunciato? Quale avrei voluto che durasse per sempre? Riflettei qualche minuto, poi pensai, se avessi avuto un amore soltanto non avrei mai potuto sperimentare le emozioni che gli altri mi avevano dato e tra queste, quali avrei scelto? Di quali avrei fatto a meno?
Tante domande, nessuna risposta, o forse solo una, una rivelatrice che mi riportava, però, al mio dubbio iniziale. Se avessi trovato, provato, l'amore vero, quello unico ed eterno, mi sarebbe bastato per sempre e allora no, probabilmente non avevo mai incontrato l'amore assoluto. Dunque, in realtà, non l'avevo mai amato, ma avevo solo desiderato di amarlo. Desiderio, però, che sembrava non abbandonarmi mai.
Così pensavo e ricordavo, ricordavo e pensavo e non smettevo di domandarmi, quasi come fosse un dovere, un qualcosa che dovevo a me stessa, se lo avessi mai amato. Sentivo sempre il bisogno di sapere, capire, dare un senso a ogni cosa, e così continuavo a cercare una risposta alla mia domanda. E di nuovo ricordai le sue parole:
- Te ne sei andata nel momento più bello senza dire niente! -
Parole d'accusa che, fino a quel momento, avevo lasciato che diventassero una sorta di lettera scarlatta da portare al collo, una colpa da dover indossare per sempre come un vestito ricamato sulla pelle, ma era davvero tutta e soltanto mia la colpa? In fondo a sedici anni non era così anormale avere paura di amare, scappare di fronte a qualcosa che sembrava così grande e ingestibile, o meglio non era così improbabile essere confusi e non riuscire a capire come affrontare qualcosa di nuovo che spaventa gli adulti, figuriamoci una ragazzina. Era vero, ero stata io ad andare via ma non perché non lo amassi. Ero andata via, proprio così, ma lui? Lui non mi aveva fermata, né capita, né aspettata. Così se io ero colpevole lui lo era tanto quanto me. Il mio dubbio non era esatto e la domanda giusta da pormi era se lui avesse mai amato me, perché davvero ama chi non sa aspettare e dimentica velocemente qualcuno sostituendolo? Rinnegandolo? Uccidendolo mentre lo guarda negli occhi? O peggio ferendolo alle spalle? Facendo scempio dei ricordi?
Per tutto quel tempo avevo attribuito solo a me ogni nostro errore, tutto quello che c'era stato di sbagliato, la mancanza di un inizio e di una fine, l'esistenza fittizia di una storia che per me aveva ugualmente creato un legame reale. Lui era andato oltre io, invece, ero ferma lì, chi aveva amato davvero? Chi continuava ad amare? Chi avrebbe continuato a farlo? La risposta era evidente. Io ero andata via ma lui mi aveva spianato la strada, quella strada in cui mi ero bloccata, quella strada che era diventata l'unica percorribile, una strada che non andava da nessuna parte e che mi imprigionava, esiliandomi, in una dimensione parallela al resto del mondo. Allora tutto era chiaro, fin troppo chiaro, ma questo non mi faceva stare meglio, non mi bastava, così, inutilmente, continuavo a girare intorno a quel dubbio, continuavo a chiedermi ancora, senza tregua, se lo avessi mai amato o se lui avesse mai amato me. E trovavo mille risposte, tutte diverse, ma mai una sola, mai quella giusta, quella vera, unica. Ruotando intorno al dilemma perdevo il senso stesso dell'amore. Eppure che lo fosse stato oppure no, il sentimento, qualunque esso fosse, restava e sarebbe rimasto, tutto quanto continuava ad essere. Era per me passato, presente e forse anche futuro. Era tutto ciò che avevo e fino ad allora mi aveva accompagnato, era tutto ciò che fino a quel momento avevo posseduto anche se solo nel mio cuore e nella mia mente.

Il treno stava per terminare la sua corsa, ero vicina alla mia prima destinazione. Raccolsi le mie cose e attesi l'arrivo in stazione. Ero in una nuova città, ma solo per poco. Feci una passeggiata per sgranchirmi le gambe. Prima di acquistare un altro biglietto per un nuovo viaggio, decisi di comprare qualcosa da mangiare e una rivista. Distrattamente cominciai a voltare le pagine, una dopo l'altra, finché non lessi questo:
- VENT'ANNI D'AMORE TUTTO IMMAGINARIO -
Ero finita nella rubrica del cuore, quella rubrica a cui, secondo il mio parere, scrivevano persone non in cerca di risposte quanto di conforto, quella rubrica alla quale non dedicavo mai troppa attenzione, ma quel titolo scritto in maiuscolo mi aveva spinta a leggere quella lettera e la correlata risposta.
L'uomo che aveva scritto raccontava pressappoco questo: in un lontano mese di maggio aveva incontrato una ragazza, ma non ebbe il coraggio di avvicinarla. La paura, l'insicurezza presero il sopravvento e gli impedirono di conoscerla. La perse di vista per anni, finché un giorno la ritrovò per caso. Stavolta il coraggio mise a tacere ogni timore. Così trovò il modo di contattarla, ma la reazione della donna non fu quella da lui sperata. Lei accettò di incontrarlo, ma tutto terminò lì, con quell'incontro. L'uomo che aveva scritto era convinto che il suo essere pronto sarebbe bastato per avere ciò che voleva, ma aveva torto, perché il mondo non aspetta che siamo pronti, va avanti ugualmente, anche senza di noi. Il rifiuto della donna, comunque, non spinse l'uomo ad arrendersi, piuttosto lo indusse a fare un altro passo verso di lei. Pieno di speranza le scrisse un romanzo, ma il suo - regalo - non sortì alcun effetto. L'uomo della lettera non riusciva a spiegarsi come fosse possibile, continuava a domandarsi di quale colpa si fosse mai macchiato per non avere l'opportunità di vivere al fianco di quella donna, tanto amata e sognata. La sua esistenza era come se si fosse fermata nell'esatto istante in cui l'aveva rincontrata. La lettera terminava così:
- So di essere banale, ma non mi era mai capitato d'innamorarmi di una donna senza averla conosciuta. -
Riuscivo a ritrovarmi in ogni singola parola scritta da quell'uomo e riuscivo a capirlo, a comprendere quello che tentava di spiegare inutilmente. Pensai che chi non aveva provato quella situazione non avrebbe mai potuto capirla né tanto meno dare un consiglio. La lettera mi colpì molto e prima di leggere cosa avesse risposto - l'esperta - rimasi per un po' a pensare a quella storia, a quanto per certi aspetti fosse simile alla mia, quasi non lo credevo possibile. Così, ancora incredula, decisi di leggere il seguito che, anch'esso, per freddezza, superficialità e superbia, mi lasciò esterrefatta. La Signora, deputata a consigliare e confortare, a indurre a riflettere, a vedere le zone in ombra, a comprendere sé stessi e la situazione nella quale ci si ritrova, scrisse che non conosceva la ragione per la quale pubblicava quella lettera, dato che non si sentiva in grado di rispondere. L'esperta non era del tutto convinta che una cosa del genere fosse reale, ma imponeva a se stessa di crederlo per poter rispondere; si chiedeva se lui avesse tenuto in considerazione il trascorrere del tempo, alludendo al fatto che, forse, il suo amore - immaginario - , da lei così definito, era solo frutto di una vita insoddisfacente. Quella risposta, a mio avviso così incompetente, mi sbalordì. Cominciai a domandarmi come poteva una persona credere di poter giudicare ed esprimere un'opinione così indelicata su un evento che non aveva mai vissuto. Mi chiesi se il poveraccio fosse l'uomo della lettera o la signora esperta che parlava di cose che non conosceva. In realtà la domanda che mi ponevo era piuttosto retorica, la risposta era evidente, la consigliera che esprimeva le sue idee a pagamento analizzava fatti e parole senza scavare troppo a fondo, dava giudizi affrettati senza provare ad immergersi nella situazione che gli si proponeva e per la quale gli si chiedeva, in qualche modo, aiuto. Mi domandai come fosse possibile tanta leggerezza. Chiusi il giornale e passai oltre, in fondo avevo ancora un panino da mangiare!

Avevo scelto di proseguire con un pullman, altro luogo in cui riuscivo a raccogliere le idee. Mancavano un paio di ore alla sua partenza così iniziai a camminare a vuoto senza sapere dove andare, quando una carta abbandonata per strada cominciò a volteggiare davanti a me, mi sembrava di essere nella scena di un famoso film visto anni prima. Quella carta che mi stava davanti, però, non girava in tondo, si dirigeva verso qualcosa, così la seguii. Cinquanta, settanta passi forse e la carta si fermò.
Mi ritrovai in uno spiazzale, lo attraversai tutto finché giunsi di fronte ad un muro, grande, maestoso che dominava l'intera piazza; da lontano non ero riuscita a vedere la sua particolarità. Quello non era un semplice muro, era qualcosa di più, una specie di foglio bianco enorme, la pagina di un diario comune, era il muro dei pensieri. Davanti a quel muro non si piangeva, non si pregava, non si disegnavano graffiti, ma si incidevano ricordi, desideri, emozioni, poesie, date... iniziai a leggerne alcune e annotai quelle che mi colpivano. Così iniziai a trascrivere sul mio quaderno dei pensieri:
- Dolce malinconia che giunge sorniona sulle ali di un pensiero ovattato di ricordi e si posa indifferente su di un cuore stanco proiettando immagini rubate al tempio degli inganni.
- Guardo la luna ed è piena per metà, posso scorgere il resto in trasparenza. Noi, come la luna, vivi per due quarti o forse solo uno, dipende dalla nostra incompletezza, da quanto ci manca per sentirci interi. Luna crescente, luna calante... crescente quando c'è speranza, calante quando perdiamo per sempre la nostra metà giusta.
- E poi t'accorgerai che avrò la costanza di amarti nel tempo.
Andavo avanti ad annotare:
- Il delirio di una donna non è mai dettato dal caso.
-Scrivo per te, scrivo anche se le parole a volte non bastano a dire quello che l'anima tace ma vorrebbe gridare. Scrivo pensando a te, scrivo pensando che ogni tormento, ogni sbaglio ormai è svanito, ogni incertezza è caduta nel vuoto, ogni dolore lasciato al passato, solo un amore è rimasto, un amore che non finirà mai, perché a fatica ho amato il tuo modo di amare ma a fatica mai ho amato te.
- Domani che non ci sarai io ti amerò più di adesso.
E ancora:
- Posso fare anche cento passi verso di te, ce ne sarà sempre uno che mi allontanerà...
- Ti sto perdendo, non ti ho mai avuto ed ora che sei lontano e il mio sguardo non riesce a raggiungerti, mi chiedo per quanto ancora mi ricorderai e resterò nei tuoi pensieri, mi chiedo se stanotte occuperò un posto dentro te e la mia immagine riuscirà a rapirti e portarti dove io ti sto aspettando...
- Stanca di rincorrere e aspettare, stanca di una parentesi che si è aperta e non si chiude. Stanca di passività, indecisione, di chi lascia andare senza fermare, di chi non ha il coraggio di dire e magari attende.

Ognuna di quelle frasi che avevo trascritto mi avevano comunicato qualcosa tanto da spingermi a copiarle, ma l'ultima che annotai fu quella che più di tutte, in assoluto, mi colpì e diceva:
- T'amai in un giorno d'agosto, un giorno qualunque che divenne immortale, sentenza del passaggio da puerizia a consapevolezza di donna, suggello di un'unione indissolubile, di addii e ritorni. T'amai in un giorno qualunque con la speranza di un'esclusiva e durevole sorte, t'amai con la stessa fiducia di chi affida un desiderio all'etere credendo che s'avveri, con l'auspicio del compimento di un'infinita attesa. T'amai come meglio seppi, con impeto e giusto distacco per smarrirmi in te quando inconsce emozioni usurpavano la mia logica, guidandomi verso il pianeta dei sensi. T'amai e ancora t'amai per poi perderti in un giorno di novembre, un giorno qualunque che divenne immortale.

In quelle parole si percepiva un amore forte, passionale, sincero che sembrava fosse destinato a durare per sempre, eppure anche quello a quanto pare era finito. Proprio così, pensai, anche se un amore è importante, intenso, anche se resta ed esiste irrimediabilmente nel tuo cuore, anche se lascia delle tracce dentro te può ugualmente concludersi, per un motivo o senza ragione. Avrei dovuto smettere di oppormi alla realtà dei fatti e capire che forse anche io avevo perso il mio amore in un giorno qualunque, un giorno che sarebbe rimasto eterno.

Ferma lì davanti a quel muro a leggere ed appuntare, persi quasi la cognizione del tempo. Era passata più di un'ora e così, a passo svelto, mi avviai verso quello che sarebbe diventato il mio nuovo rifugio di pensieri. Un biglietto, una porta che si aprì, tre scalini... un'altra tana della memoria dove rinchiudermi, un altro viaggio verso nuove consapevolezze, un altro passo verso una sperata rinascita. Nuovo posto, nuova meta, il bello di quel viaggio era non avere nulla di certo per una volta, non controllare ogni cosa. Avevo l'abitudine di preordinare tutto, dovevo sapere, conoscere, restare all'oscuro mi destabilizzava, anche il mio istinto era ragionato, ma ero arrivata al punto in cui avevo bisogno di lasciarmi trasportare dagli eventi, di lasciare che il destino mi corresse incontro invece di rincorrerlo e sbatterci volontariamente con violenza. Era piacevole la sensazione di poter fare qualunque cosa io volessi senza programmarla, stranamente mi rassicurava.

Eravamo partiti da qualche minuto, accanto a me c'era qualcuno di cui sentii solo la presenza perché non mi voltai mai a guardare. Ascoltavo della musica e lasciavo che la mia mente facesse un po' ciò che desiderasse, mi chiesi se la lettera fosse già arrivata, se l'avesse letta o fosse ancora in viaggio. Mi chiesi se stavolta avesse capito, se le mie parole avessero prodotto, finalmente, qualche effetto o come sempre le avrebbe fatte cadere nel vuoto, insieme a me. Presi la mia agenda per annotare un pensiero e da essa scivolò lenta la foto da cui non mi separavo mai. L'avevo scattata anni addietro senza che se ne accorgesse: il suo profilo era in primo piano, illuminato da un tiepido sole che gli accarezzava il viso quasi perfetto, sembrava disegnato da un'artista. I suoi lineamenti così dolci e delicati gli davano la parvenza di una creatura plasmata da mani esperte e divine. Amavo quel volto perché in esso riuscivo a trovare ancora quello del bambino di cui mi ero innamorata. Era sempre lui e lo sentivo mio.
Ricordai che quel giorno, armata di buona volontà ed ispirazione, avevo preso la mia macchina fotografica ed ero uscita intenzionata a catturare immagini bellissime della natura e non solo, sentivo di dover fotografare i posti della mia vita per dar loro un senso artistico, come fossero quadri di un famoso pittore, ma poi lo vidi e quella fu l'unica foto che scattai. Continuavo a guardarla, a contemplare ogni suo particolare, ormai l'avevo impressa nella mente. Amavo le mie foto, ma quella era per me il mio capolavoro. Mentre toccavo il suo viso pensai che ognuno aveva i suoi modi per esprimere quello che ha dentro e quello che è. Un proprio personale modo di far vedere agli altri il mondo con i propri occhi. C'è chi parla con la musica, c'è chi ha le parole e chi le immagini, dipinte, scolpite, scattate... io avevo le immagini. Ogni scatto mi ricordava qualcosa, rappresentava una parte di me e chi le guardava, forse, poteva accedere a una mia dimensione interiore. Attraverso le immagini ero vicina a posti e persone distanti, avevo tutto quello che del mondo avevo scoperto accanto a me, sempre. Ero certa che anche delle immagini rapite all'oblio che un istante porta con sé, fossero come parole inventate e organizzate per rendere speciale un pensiero, fossero come effigi frutto di passioni. Per me ogni scatto rappresentava un qualcosa di a sé stante come poteva esserlo una composizione musicale, come l'arte in genere e questo lo rendeva parte di chi era artefice di quello scatto. Dentro di esso vi dimorava il pensiero, la passione, la creatività che aveva spinto qualcuno a premere un tasto per immortalare un'immagine. Così un albero, un fiore, una casa in rovina non erano più semplice albero, fiore o casa in rovina, ma diventavano ciò che ognuno ci vedeva, ciò che in essi celava chi li aveva scelti, diventavano anima.
In quella foto non c'ero io eppure vi era tutto di me. Con quella foto avevo reso ancora più eterno il mio amore, l'avevo reso una mia creatura, parte della mia anima.

La visione di quella foto non mi lasciò indifferente, sembrava davvero impossibile liberarmi di tutte quelle emozioni che riusciva sempre a provocarmi, era impossibile per me smettere di pensarlo e di rievocare ricordi, dubbi, desideri e ogni cosa lui sapesse suscitarmi. Provavo a liberarmi di tutto, anche di me, ma non riuscivo e cadevo sempre, continuamente, nello stesso errore che prescindeva da lui e che era incollato alla mia natura.
Cercando qualcosa al di fuori di me che mi completasse avevo perso me stessa, cercando di capire ogni cosa mi fosse accaduta e mi accadeva perdevo il senso di tutto, di ogni evento, ma portarlo alla mente, torturandomi, sembrava che fosse l'unico modo che avessi per sentire o meglio l'unico modo che conoscevo per vivere. Avevo bisogno di ricordare e nel ricordare avevo bisogno di trovare delle spiegazioni a ciò che avveniva e anche a ciò che sarebbe accaduto. Tutto questo cercare e ricordare apriva dentro di me una ferita mai rimarginata e che io stessa volevo restasse aperta, alimentavo quella sofferenza come un leone in gabbia che aveva digiunato per giorni, di quel dolore mi saziavo e ne avevo una disgustosa fame. Credevo che fosse il dispiacere a farmi toccare le punte più alte delle emozioni, ma non avevo capito che forse quello era solo amore, un amore intenso e sproporzionato che spargevo ovunque e quindi a volte mal riposto, amore distorto perché cercava amore che non riusciva ad essere mai ricompensato e abbastanza colmato. Desideravo solo essere racchiusa in un'altra anima che di me si prendesse cura come io avrei saputo fare, appartenere a qualcuno, essere di qualcuno e non soltanto mia, perché mi capitava di desiderare di uscire al di fuori della mia pelle e trasmigrare in qualcun'altro come per trovare un posto sicuro dove rifugiarmi e non sentirmi sola e sbagliata, abbandonata a me stessa, come per sapere che qualcuno per me ci sarebbe stato per sempre, proprio come io ero solita fare: non lasciare mai nessuno, non dimenticare, esserci sempre e comunque anche per chi non lo meritava, perché la mia indole era quella di accogliere tutti e volevo solo essere accolta almeno per una volta.

Le persone si alternavano nel susseguirsi di fermate e il posto accanto al mio veniva continuamente occupato e abbandonato. Senza mai dar peso a chi avessi di fianco mi lasciavo trasportare da tutto ciò che era al di là di me. Guardavo fuori, tra le mani un libro chiuso, uno dei miei preferiti: - Notti bianche di Dostoevskij - . Lo aprii e rilessi il pezzo che avevo sottolineato con la mia matita. Iniziava così:
- A volte mi assalgono momenti di tale angoscia... in quei momenti io comincio già a credere che non sarò più in grado di vivere una vita vera; mi sembra d'aver perduto ogni connotazione, ogni senso della realtà, della verità. Ecco che alla fine mi maledico, dopo le mie notti passate a fantasticare, arrivano per me momenti di sobrietà che sono terribili. -
Il testo continuava ancora per un po' ed io lo trovavo bellissimo. L'avevo letto e riletto fino quasi a memorizzarlo, così interruppi lì la mia lettura, tornai a guardare fuori e come se fosse stato fatto apposta per rendere tangibile il pensiero che avevo appena letto, mi accorsi che un alone nero viaggiava a velocità di veicolo e si stendeva come un velo tenebroso sulla collina illuminata che avevo al mio fianco. Così pensai che l'angoscia, la depressione, la malinconia sono come nuvole, nuvole grigie che coprono una collina ricolma di sole. Queste ombre avanzano veloci ingurgitando, feroci, chicchi di luce, sono come anime dannate che profanano templi vergini e gloriosi, sono come il male che divora corpi sani. Allora perché abbandonarsi ad esse? Perché lasciare che queste ombre prendano il sopravvento su di noi, sulla nostra vita, offuscando la nostra mente e gettandoci in un abisso buio e senza fine? Sembrava semplice darsi una risposta e invece, la domanda era più difficile di quanto si potesse credere.
Chiusi gli occhi per un momento, la radio che stavo ascoltando prese la frequenza di una trasmissione religiosa e alle mie orecchie giunsero note di una canzone che avevo sentito molti anni prima. Ecco che magicamente dal mio cuore sentii provenire delle parole, parole pronunciate da un pastore durante una predica, parole sepolte nella mia mente e che riscoprii inconsapevolmente, senza sapere come tornarono a galla. Quello che disse fu:
- Cari giovani non lasciate che gli eventi della vita vi deludano, affidatevi alla speranza. - La speranza... la soluzione era la speranza. Avere fiducia in qualcosa, in qualcuno. Credere che tutto possa andar bene è questa l'unica possibilità che si ha per andare avanti e non farsi prendere da ciò che affligge. Perché, dunque, non sperare? Perché bandire dal nostro cuore questo sentimento forse indispensabile e vivere per sempre nel buio spegnendo quel fiammifero che non produce una luce immensa, ma solo quanto basta per illuminare quel che basta? Per indicarci la strada quando l'abbiamo smarrita o crediamo di averla persa e ci sentiamo spaventati, indifesi? In fondo, pensai, perché la luna splende di notte? Perché mai è stata creata? Forse per darci conforto e sicurezza quando cala l'oscurità e così anche la speranza, serve ad incoraggiarci e farci credere in un qualcosa di migliore di ciò che stiamo vivendo.
Per anni avevo lasciato che nuvole grigie oscurassero la mia vita perché la speranza che mi aveva sempre accompagnato a un certo punto si spense. Quel ricordo, quelle parole, l'illuminazione che avevo avuto ascoltando quella canzone fecero, magicamente, rifiorire in me quella fiducia perduta e iniziai a sperare che sarei riuscita a riprendermi quella vita e quella felicità che mi ero negata, iniziai a credere che con quel viaggio qualcosa di meraviglioso sarebbe accaduto.
Marta Giacobbe
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