|
Writer Officina Blog
|

Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa,
teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana
di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, Non ora, non
qui, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri
sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese,
swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale
alcune parti dellAntico Testamento. Vive nella campagna romana dove
ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A
grandezza naturale", edito da Feltrinelli. |

Patrizia Rinaldi si è laureata in Filosofia all'Università
di Napoli Federico II e ha seguito un corso di specializzazione di scrittura
teatrale. Vive a Napoli, dove scrive e si occupa della formazione dei ragazzi
grazie ai laboratori di lettura e scrittura, insieme ad Associazioni Onlus
operanti nei quartieri cosiddetti "a rischio". Dopo la pubblicazione
dei romanzi "Ma già prima di giugno" e "La
figlia maschio" è tornata a raccontare la storia
di "Blanca", una poliziotta ipovedente da cui è
stata tratta una fiction televisiva in sei puntate, che andrà in
onda su RAI 1 alla fine di novembre. |

Gabriella Genisi è nata nel 1965. Dal 2010 al 2020,
racconta le avventure di Lolita Lobosco. La protagonista è
unaffascinante commissario donna. Nel 2020, il personaggio da lei
creato, ovvero Lolita Lobosco, prende vita e si trasferisce dalla
carta al piccolo schermo. In quellanno iniziano infatti le riprese
per la realizzazione di una serie tv che si ispira proprio al suo racconto,
prodotta da Luca Zingaretti, che per anni ha vestito a sua volta proprio
i panni del Commissario Montalbano. Ad interpretare Lolita, sarà
invece lattrice e moglie proprio di Zingaretti, Luisa Ranieri. |
Altre interviste su Writer
Officina Magazine
|

Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
|
|
|
|
Blog
|
|
Biblioteca New
|
|
Biblioteca All
|
|
Biblioteca Top
|
|
Autori
|
|
Recensioni
|
|
Inser. Romanzi
|
|
@ contatti
|
|
Policy Privacy
|
|
Il passo del ragno
|
Il Ragno.
Il tempo. Cosa strana, il tempo. Va avanti a strappi, lacerando da sé la sua tela altrimenti uniforme. Ieri veloce, le lusinghe appena accennate e già corse avanti tra risate argentine - aspetta non andare, voglio gustarne ancora, non ne ho a sufficienza, ti prego - oggi torpido, pesante nella sua quasi assoluta immobilità, un vegliardo che a fatica avanza un passo alla volta, il piede rallentato dalla densità delle ore, come melassa che lo trattenga. Quale mano stabilisce il rallenty o l'avanti veloce? Sono solo due le posizioni. Indietro no, indietro non si torna. A nulla valgono suppliche o imprecazioni. Che ti piaccia o meno. Ma in questo tempo i tuoi desideri, i tuoi bisogni, non hanno alcun valore. A nessuno importa (a nessuno importa più!) della tua sofferenza.
La mosca non sa. Vola il suo volo scoordinato senza bellezza alcuna, senza nessuna poesia. Si illude. Sbatte. E infine, stolida, si impiglia. Prima ancora di diventarlo, prima di esserne consapevole, già è preda. La mosca nasce preda. Poi muore.
«Fischio, vieni!» Al richiamo il cane saltò giù dal sedile posteriore dell'utilitaria, ferma per un guasto improvviso, scodinzolando. L'aria in cui immerse il naso era una voluttuosa distesa di profumi, uno più allettante dell'altro. Su tutti, l'odore dolce della notte, di fiori secchi e di frutta matura, di terreno ancora caldo di sole. «Bravo, bella solidarietà mi dimostri. E già, tu scodinzoli felice e non pensi a me! Sono io che devo scarpinare, di notte, lungo questa strada solitaria. Tu almeno hai quattro zampe, mentre io ho solo due gambe» lo rimproverò la giovane donna mentre tentava senza molta fortuna di annodarsi i riccioli neri. Tenuti come erano, sciolti e lunghi sul collo, la facevano sudare. Il cagnetto tuttavia non se ne diede per inteso e cominciò a correre seguendo chissà quale traccia odorosa. «Vieni qua! Fatti mettere il guinzaglio, stupido cane, non vorrai finire sotto un'auto, no?» e così dicendo la ragazza si chinò. L'animale intanto si era messo educatamente seduto e lei agganciò una lunga striscia di cuoio al collare. Una carezza affettuosa sulla testa e una grattatina alla gola si contrapposero alle parole poco gentili, rivelando la bugia e l'affetto. Marila si incamminò a passo svelto dopo aver lasciato la macchina quanto più possibile accostata al bordo della strada. Aveva un bel tratto da percorrere prima di arrivare, ma la notte quasi estiva era calda e la luna sopra il nastro d'asfalto le illuminava d'argento il tragitto. In fondo, era un bel camminare. Fischio le trotterellava al fianco, tenuto prudentemente verso il ciglio con mano ferma. Non sarebbero stati né il satellite in cielo né la macchia bianca sul petto a salvargli la vita se avesse camminato, mantello nero nella notte scura, nel mezzo della strada. La loro meta era il paesino a qualche chilometro di distanza. Marila ci si era trasferita da alcuni mesi, col cane, i libri, il computer e poco altro. Lavorava come responsabile del marketing e della sostenibilità ecologica presso una grossa azienda e forse la pagavano troppo poco per la sua professionalità e competenza, ma a lei andava bene lo stesso. Apprezzava quel lavoro poiché le consentiva un'ampia autonomia di orario e movimenti, oltre a garantirle la necessaria solitudine. Era molto riservata e aveva difficoltà a interagire in un contesto affollato, quindi questa scelta di collaborare da remoto era una soluzione che la soddisfaceva in pieno. E pazienza se in effetti la sfruttavano con una paga troppo esigua paragonata alle effettive ore di lavoro. Lo stipendio risicato veniva compensato da altri vantaggi. Marila non tollerava la promiscuità di un ufficio o di un qualsiasi spazio condiviso e si trovava a proprio agio soltanto nel silenzio. Era anche per questo motivo che aveva scelto di trasferirsi in quel paesino minuscolo. In fondo il lavoro le serviva più che altro per dare un senso ai giorni solitari, per impegnare la mente e occuparla con pensieri innocui. Unica discendente di una famiglia agiata, i soldi non erano mai stati un problema. L'inattività, invece, sì. Impegnare il suo tempo la aiutava ad affrontare la vita. Il suono regolare dei passi sull'asfalto le tenne compagnia mentre procedeva nell'oscurità, rotta soltanto dal fascio di luce della torcia. Era una piccola mania, la sua. Ne teneva sempre una a portata di mano per ogni evenienza, in borsa, nel cassetto dell'auto, sul comodino. Ma non aveva paura del buio. Non era l'oscurità a nutrire i mostri... Lungo i prati che si stendevano di fianco alla strada era tutto un palpitare di piccole luci. Era una delle magie del luogo che tanto la affascinavano. Le lucciole, che in altri posti erano ormai scomparse, a malapena rimaste nella memoria della gente, avevano qui numerose colonie che trapuntavano le notti d'estate di minuscole stelle e di voli d'amore. A Marila ricordavano la sua infanzia, quando imbattersi in esse era fatto quotidiano e non stupita meraviglia, e i bambini giocavano a prenderle per farne estemporanei lumini nei barattoli di vetro. La loro prigionia era breve, tuttavia, giusto il tempo di una passeggiata nel bosco delle fate prima di rilasciarle e andare a letto. Era un'altra vita. No, sbagliava. Era la vita di un'altra.
Il rumore di un motore che velocemente aumentava di tono la turbò come un intruso nel buio. Marila si guardò alle spalle. Al volgere della strada che si perdeva nella valle in basso si intravedeva la luce di fari ancora lontani. Continuò a camminare, indifferente. Solo una lieve accelerazione del battito. Però strinse più forte al fianco il cane. Non si girò, nemmeno quando il rombo calò fino a un sommesso ronfare e la macchina le si accostò. L'uomo all'interno azionò il pulsante del finestrino. Il cristallo si abbassò con un leggero fruscio. «Serve un passaggio? Ho visto una macchina ferma, poco più giù. Ha avuto un guasto?» La sua voce. Un brivido le rizzò la leggera peluria delle braccia. Per un istante le era sembrato che... ma no, niente. Gli diede una rapida occhiata, volgendo appena la testa verso di lui. L'uomo insisté, ma con calma. La ragazza gli era parsa incerta se rispondere o meno. Ovvio, un incontro notturno lungo una strada solitaria che univa due paesi distanti, non doveva essere molto piacevole per una donna sola e lui non voleva spaventarla. Accese anche la luce di cortesia per consentirle di guardarlo in viso. «Non sono un orco, signorina. Le sto semplicemente offrendo un passaggio senza cattive intenzioni, giusto per accompagnarla in paese. È lì che è diretta, vero?» Marila non esitò oltre. Il guidatore, che alla luce dell'abitacolo dimostrava trentasei o trentasette anni, offriva un sorriso franco, era chiaro che si sforzava di suggerire fiducia. Se ci fosse stata lì sua madre le avrebbe ricordato che mai, mai! si deve accettare un passaggio da uno sconosciuto, specialmente se si è da soli. Ma lei non era sola, aveva Fischio. Non un gran cane, ma meglio di niente, in ogni caso. Tra tutti e due, avrebbero potuto tenere testa a un avversario senza troppe difficoltà. Ricambiò il sorriso. «Grazie, accetto con piacere. Ha visto giusto, quel cadavere che giace lungo la strada è proprio la mia macchina. Domani chiederò al meccanico se riesce a fare un miracolo. Può salire anche il mio cane, vero?» chiese chinandosi sul finestrino. «È molto beneducato, non darà fastidio.» Subito dopo aggiunse: «Se non le va, grazie lo stesso, continuerò a piedi, non c'è problema.» «Ma no, salga. Il cane non mi dà fastidio, anzi. Mi piacciono, ne prenderei volentieri uno, ma col mio lavoro sto troppo poco in casa per potermi permettere la compagnia di un animale.» L'uomo aprì la portiera dall'interno e le tese la mano: «Piacere, sono Francesco Tositti.» Una leggera esitazione, poi la ragazza si sistemò sul sedile del passeggero, allungò a sua volta la mano e si presentò: «Màrila Vannucci.» Colse subito il lieve segno di stupore sul viso dell'uomo. Era ormai abituata, ogni volta che pronunciava il proprio nome vedeva l'espressione sconcertata dei suoi interlocutori. «Màrila, sì. Con l'accento sulla prima a.» «Bel nome» commentò con cortesia l'uomo. «Particolare, ma bello.» «In realtà avrei dovuto chiamarmi Mariastella, ma quando venni registrata all'Anagrafe, mio padre decise che era troppo lungo e lo accorciò. Poco importa. Marila mi piace e almeno posso vantarmi di non avere delle omonime con cui essere confusa» rispose lei mentre cercava di far sedere Fischio tra le gambe. Il cane non era abituato all'insolita posizione e le fece qualche difficoltà tentando di sistemarsi con le zampe anteriori sulle cosce. Mentre lottava per convincerlo a rimanere seduto tranquillo, Marila ripensò all'accaduto. Forse era stata solo suggestione. Forse. Ma nel momento in cui le loro mani si erano incontrate al di sopra della leva del cambio, qualcosa era avvenuto. Una sorta di vibrazione, magari? Una sensazione sopita che le aveva smosso i ricordi? Più facile che fosse stata una piccola scarica di elettricità statica, accumulata da uno di loro due.
Marila avvertiva sulla pelle lo sguardo interessato del suo autista. Si aspettava che da un momento all'altro se ne uscisse con un: «Ma non l'ho già vista da qualche parte?» Decise di spiazzarlo, e lo precedette. «Credo di averla già vista, in giro» buttò là con aria distratta. «Davvero?» rispose lui sorpreso e soddisfatto per il piccolo ponte che lei aveva lanciato tra loro con tale leggerezza, come se non ci fosse nulla di strano. Tositti esitò giusto per pochi istanti, incerto, timoroso di dire qualcosa di sbagliato. Poi si decise, e riprese a parlare prima che il silenzio si addensasse troppo: «Lo stavo pensando anch'io, però non volevo venirmene... sa, con una frase fatta.» «Detta da me, invece...» scherzò Marila con un sorriso divertito. «Eh no, lei è una donna, è diverso. Pronunciata da lei non sembra una scusa per attaccare bottone come lo sarebbe stata in bocca a me, le pare?» «Beh, in fondo non ha torto. Avrei sicuramente pensato “e certo, eccolo che ci prova”.» «Ecco, vede? Comunque, dove posso averla già incontrata? Sono un medico, ho un piccolo ambulatorio su in paese, ma non avrei dimenticato una malata come lei.» «Anche perché da quando mi sono trasferita non ho avuto nemmeno un raffreddore, quindi no, decisamente non ci siamo incontrati lì. Però, chissà, magari ci siamo sfiorati più volte in strada, e per questo abbiamo la sensazione di conoscerci.» «Oppure facciamo la spesa allo stesso supermercato?» «Eh, eh, questo non è difficile nella nostra metropoli, visto che ce n'è solo uno.» Continuarono a parlare lungo tutta la strada. Senza dubbio fra loro era sorta una certa empatia. Anche dopo essere arrivati sotto casa di Marila rimasero diverso tempo in macchina a chiacchierare, senza che apparissero quei silenzi imbarazzati che a volte intervengono a raggelare l'atmosfera. Erano passati al tu senza nemmeno farci caso. «Che ne dici, Marila, ci vediamo domani? Potremmo prendere un caffè, o una granita. Magari un gelato. Oppure una pizza?» disse Francesco nel tentativo di beccare l'invito giusto. La ragazza lo attirava davvero molto. Da quanti anni non si concedeva neppure un piccolo piacere come questo? Preferì non fare il calcolo. Troppi, a ogni modo. Da quando... No, niente da quando. Troppi anni e basta. Lei non parve accorgersi della raffica di pensieri che gli aveva rallentato le parole. Rise. «Ok, vada per il gelato. Ma te ne pentirai perché, te lo dico subito, sarà una coppa di tutto rispetto, non un cono micragnoso! Modestamente, mi invidiano tutti. Posso mangiare quanto voglio e non metto su un etto di troppo.» «Beata te. Ok, aggiungimi pure alla lista degli invidiosi. Mi basta passare davanti a una pasticceria, sentire l'odore dei dolci, e mi ritrovo con mezzo chilo in più.» «Poverino, quanto mi dispiace...» commentò Marila, comprensiva. «E invece no!» aggiunse subito con una risatina per prenderlo in giro. Si salutarono come vecchi amici, illuminati dal lampione. L'ombra di lui, proiettata sul terreno, fagocitava interamente la sua.
l'ombra
soltanto dolore che incombe. brutale, feroce dolore. un urlo ininterrotto, silenzioso e terribile. un urlo che riempie la mente e svuota il cuore, icona di nulla. il lamento che sfugge dalle labbra serrate, dolorosa nenia senza fine. il corpo che si dondola nell'inconsapevole, vana ricerca di un sollievo impossibile. avanti e indietro, avanti e indietro. sempre. ma non dà alcun conforto, il movimento. non riempie l'assenza. non placa il tormento dell'unica immagine stampata sulle retine. fiammeurlasangue! dolore. c'è qualcuno? c'è qualcuno là fuori che possa aiutarmi? nessuno risponde. o nessuno che riesca a farsi sentire al di là dell'urlo muto.
Teso il primo filo, il ragno risale al punto di origine. Un salto nel vuoto, preciso. Un secondo raggio di seta si diparte dalla superficie scelta. Nulla è lasciato al caso. Ogni fibra ha la sua funzione, ogni salto la sua direzione. Il ragno tesse, implacabile. Non perde mai di vista la mosca. Ignara.
Francesco Tositti, medico di medicina generale, alla fine di quella giornata si ritirò pensieroso. Come ogni venerdì sera, era stato di servizio all'ambulatorio per gli extracomunitari, nella cittadina a diversi chilometri di distanza. La regione era ricca di lavoro povero, e di conseguenza ricca anche di immigrati clandestini, gli unici che accettassero certi impieghi. Erano dei poveri cristi che non si fidavano ad andare in ospedale per paura di essere identificati e denunciati. Se si ammalavano non avevano altra scelta tranne attendere che il malanno passasse, o morire. Era stato per questo motivo, per dare una speranza ai disperati, che vari dottori si erano riuniti e avevano dato vita a uno studio medico pro bono. C'era chi prestava la propria opera, chi forniva medicinali, chi raccoglieva fondi per l'acquisto di garze, disinfettanti e tutto ciò che poteva servire per il piccolo pronto soccorso e le terapie urgenti. E chi non aveva nozioni di medicina, ma solo buona volontà, aiutava a tenere puliti i locali e a pubblicizzare l'associazione. I più sfacciati poi, quelli che non si vergognavano di tendere la mano, si dedicavano alle raccolte fondi. Garantivano cure mediche e anonimato. Al contrario degli ospedali non c'erano moduli da firmare, né documenti da presentare. Non si facevano differenze di razza, colore, sesso o religione. Lì non si prescrivevano cure a pagamento o accertamenti che non sarebbero mai stati effettuati. Andavano avanti giorno per giorno, aiutando nei limiti del possibile. Era un'iniziativa che, vinte le prime comprensibili diffidenze, aveva riscosso un certo successo fra tutti gli immigrati. La maggiore affluenza si aveva di sera, quando erano finalmente liberi dal loro lavoro, pesante, in nero e malpagato. Tositti vi prestava gratuitamente servizio i pomeriggi dei giorni dispari dalle 19 alle 22 e quella sera stava tornando proprio dalla città vicina dove l'associazione aveva una delle sedi. La mattina lavorava con altri medici in uno studio associato giù in paese, un poliambulatorio di cui si servivano praticamente tutti gli abitanti dei dintorni. I locali lo chiamavano familiarmente “paese grande” per distinguerlo dalla frazione, parecchio più in alto ma molto più piccola, che aveva lo stesso nome. “Su al paese piccolo” dicevano per indicare quelle ultime propaggini di case che si appoggiavano ai boschi e che tuttavia in virtù di un antico privilegio ospitavano la sede comunale. Il minuscolo ambulatorio che aveva al paese piccolo, aperto tre pomeriggi alla settimana, serviva principalmente per gli anziani del luogo e per tutti quelli che avevano difficoltà a spostarsi in autonomia. Certo, in tal modo gli rimaneva ben poco tempo per sé. Ma era voluta, questa mancanza di tempo. Meno ne avesse avuto a disposizione, meno avrebbe indugiato in pensieri, ricordi e azioni che era meglio... no, non dimenticare, impossibile, ma almeno allontanare il più possibile da sé. L'incontro fortuito con Marila era stato una piacevole novità. Il dottor Tositti aveva una vita sociale praticamente nulla, troppo preso non solo dal lavoro, ma anche e soprattutto dai suoi fantasmi, che non scherzavano affatto. Ponevano limiti intangibili, ma non per questo meno invalicabili. Dopo aver lasciato la ragazza con la promessa di rivedersi l'indomani si era sentito improvvisamente più leggero, come non gli capitava da un tempo troppo lungo perché gli facesse piacere pensarci. Aveva bisogno di compagnia, di una voce che facesse da contraltare alla solitudine. D'accordo, era stata una sua scelta, ma cominciava a diventare davvero troppo pesante.
Marila rientrò in casa in silenzio, senza girarsi a salutare per un'ultima volta il suo accompagnatore. Pur avendo avvertito il dispiacere dell'uomo nello sguardo che sentiva fisso sulle spalle, chiuse la porta e non si voltò indietro. Era consapevole di come ci fosse rimasto deluso, poteva quasi avvertire le parole non dette. Le aveva recepite, incastrate tra la lingua e i denti, come una scheggia di pepe. Minuscola, ma piccante. Però concedergli l'ultimo saluto avrebbe significato offrirgli troppo di sé, più di quanto per adesso fosse disposta a dare. Come d'abitudine, prima di coricarsi nel letto coperto dal leggero piumino estivo, si sedette qualche minuto nella poltrona accanto alla finestra. Poi spense la luce e lasciò che i pensieri vagassero liberamente nella stanza. Poteva visualizzarli, si agitavano come gruppi di storni, creando e disfacendo immagini sulle pareti disadorne, anziché in cielo. In apparenza prive di significato, lei le studiò come sempre, in cerca di una spiegazione. Ma niente, quando le parve di essere sul punto di trovare un filo conduttore, un suggerimento subliminale, una risposta forse stimolata dall'incontro imprevisto... gli stormi di pensieri svanirono. Con un sospiro rinviò la comprensione a una prossima volta. Si coricò e tirò la copertina fino al collo o meglio, fin sulla bocca. Lasciò libero il naso però, per non sentirsi soffocare. Le notti sugli Appennini erano fresche pure in piena estate, e lei dormiva con la finestra aperta anche adesso che proprio estate piena non era. Infine si rilassò e attese che gli occhi le si chiudessero pian piano. Solo in quei momenti, quando ancora non era sonno ma già non era più veglia, le pareva di riuscire infine a comprendere i sussurri dei pensieri profondi che le si celavano durante il giorno. E dopo non sapeva né ricordava se aveva provato piacere o paura, gioia o dolore.
Tositti si affacciò al balcone per l'ultima sigaretta. Detestava l'odore di fumo vecchio che ristagnava nelle case dei fumatori, quell'odore che appesantiva le tende e rimpiccioliva gli ambienti. Fumare all'esterno risolveva il problema. L'aria era gradevole. Non più così calda come quando aveva offerto il passaggio a Marila, a quell'ora calava sempre il freddo dalle cime a rinfrescare la notte, ma si stava proprio bene sul balcone silenzioso. La quiete notturna agiva come un balsamo sulle sue cicatrici mentali. Quel paese al limitare della civiltà - oltre, solo boschi di faggi - aveva le dimensioni e la tranquillità giuste per lui. L'incontro con Marila aveva portato a piacevole conclusione una giornata altrimenti indistinguibile da tutte le altre che l'avevano preceduta, grigie, uniformi, senza attrattive. Era la strada che aveva stabilito per sé, eppure cominciava ad andargli stretta. In fondo anche lui sentiva il bisogno di rapporti umani, del calore di una presenza amica, di un volto di donna da accarezzare. Nonostante tutto, la vita non poteva essere soltanto lavoro e vuota attesa del trascorrere dei giorni. Non voleva ritrovarsi, in futuro, a guardare in uno specchio i suoi anni feriti dal passare delle stagioni, rughe prive di significato sul volto. Che ogni traccia che il tempo gli avrebbe impresso sul corpo almeno avesse un valore! Una ruga, un ricordo. Una ragnatela di rughe, una vita ben spesa. Amicizie, affetti, amore. Tutte emozioni che aveva volutamente confinato in un altro sé. Quella sera, all'improvviso, si erano ripresentate con prepotenza chiedendo soddisfazione, probabilmente stimolate dalle piacevoli chiacchiere senza impegno fatte con Marila Vannucci. E anche se si era imposto di non offrire nulla di sé stesso a qualcuno, quella conversazione leggera e rilassata aveva creato una breccia nelle sue difese. Anzi, peggio. Altro che breccia, erano state completamente travolte da un sorriso dolce e triste e dall'istintiva simpatia di una sconosciuta. Quando aveva notato quella figura avanzare sul ciglio della strada, avrebbe dovuto seguire l'istinto che gli aveva sussurrato “non fermarti”. Ma come poteva farlo? Come poteva lasciare una donna sola a camminare per chilometri, nel buio? Già mentre abbassava il cristallo del finestrino aveva sentito qualcosa, un brivido di ammonimento, ma aveva consapevolmente deciso di non dargli peso. Era stato lui stesso ad abbattere la diga che aveva costruito intorno al cuore.
l'ombra
come farò? mio dio, come farò adesso? non posso, non posso, non chiedetemi questo! è troppo per me. non ha senso, nulla più ha senso. il tempo non si era fermato. il mondo sì, il mondo aveva cessato di esistere. fiammedoloresangue! lacrime. ma allora per quale assurda alchimia il tempo - tic. pausa. tac. pausa. tic. pausa. tac. - proseguiva inesorabile a scorrere?
Quella del ragno è una pazienza antica, insita nel suo essere, scritta nel codice genetico. Vede la mosca volare, ma non ha fretta. Lo sa. Sa che gli basta attendere, preparare la trappola.
Era ora di mettersi al lavoro. Una tazza di caffè in mano, il computer sul tavolo, gli occhiali da lettura pronti per essere indossati quando gli occhi iniziavano a stancarsi, la ragazza si mise seduta. La tazza era grande come le grosse mug americane, perché le doveva durare tutta la mattinata, ma il contenuto era al cento per cento italiano, forte, intenso e amaro. Marila funzionava a caffè. Il migliore era quello di prima mattina. Aveva acquistato apposta una macchinetta elettrica con il timer. Preparata la sera precedente, alle 6.00 in punto si avviava e in breve un profumo delizioso le solleticava il naso, rendendo più gradevole anche il quasi contemporaneo trillo della sveglia. Non aveva un'effettiva necessità di alzarsi a quell'ora. Lavorando da casa poteva regolarsi l'orario come preferiva, purché rispettasse i termini di consegna degli articoli, ma il suo sonno era sempre molto breve. Breve e intermittente. Dormire non le piaceva, le sembrava di sprecare il tempo tra incubi e incoscienza. Sogni tranquilli non ne faceva mai o, se pure li faceva, non li rammentava. Non ricordava bene neppure gli incubi, le restava però la sensazione di aver sofferto e più a lungo dormiva, più il malessere persisteva.
Guardò l'orologio che portava al polso. Le otto. Tra un'ora avrebbe dovuto chiamare il meccanico per tentare il recupero dell'automobile. Aveva già portato fuori il cane per la passeggiata mattutina e fatto colazione in sua compagnia. Tisana allo zenzero e mango per lei, croccantini monoproteici per lui. A ciascuno il suo, senza indulgere in concessioni. Fischio aveva problemi di intolleranze alimentari e doveva osservare una dieta precisa. Qualsiasi eccezione poteva scatenargli una crisi allergica e per questo motivo stava molto attenta alla sua alimentazione. China sul tavolo da lavoro, Marila si ritrovò a leggere e rileggere sempre la stessa pagina. Con la rotella del mouse faceva scorrere piano il testo da rivedere dalla prima all'ultima riga, ma anche se lo seguiva con gli occhi, la mente vagava da tutt'altra parte. Ogni volta era sicura di aver letto con attenzione, eppure arrivata in fondo alla pagina si rendeva conto di aver guardato solo una ininterrotta teoria di formichine nere che riempivano la schermata del pc senza avere nessun significato. In maniera molto ordinata, però. «Ok, ho capito. Oggi non riesco a concentrarmi» si disse ad alta voce alzandosi dalla sedia. Portò le braccia all'indietro per stiracchiarsi. Non ne aveva un vero bisogno, era stata seduta troppo poco perché le giunture si fossero già irrigidite, ma lo stretching era sempre un piacere. Le orecchie di Fischio, sdraiato su un alto cuscino imbottito al suo fianco, si drizzarono all'istante e la testa si sollevò in una domanda inespressa. Ogni cambiamento della routine per lui significava una sola cosa: passeggiata! Era un cagnolino molto vivace e uscire con Marila era il suo passatempo preferito. Era abituato a starsene buono sulla cuccia in attesa che lei terminasse quello che doveva fare. Oppure, se le ante erano aperte per far entrare l'aria esterna, amava posizionarsi vigile sul balcone per richiamare l'attenzione degli estranei con dei brevi e ripetuti abbai. Il gesto di Marila gli diceva che stava per alzarsi dalla sedia, ma questa interruzione stonava col suo senso del tempo. “È troppo presto”, gli diceva l'orologio interno. Lui comunque non si sarebbe mai opposto a un giro fuori programma. La ragazza ricambiò l'occhiata del cane, che aveva iniziato a battere la coda sul pavimento senza tuttavia sollevarsi ancora dalla sua posizione, incerto. L'incrocio di sguardi, pure se muto, riuscì molto eloquente. «Usciamo? Dai, usciamo? Sì?» dicevano gli occhi imploranti di Fischio. Aveva l'abitudine di tenere la testa leggermente inclinata, mettendo così in evidenza l'orecchio smangiucchiato, testimonianza di lotte precedenti la sua vita con Marila. «Ma sì, usciamo» rispose lei. «Tanto non sto combinando niente.» Il gesto di allungare la mano a prendere il guinzaglio appeso vicino alle chiavi di casa era stato esplicito, e aveva provocato così la danza frenetica del cane. La coda frustò l'aria con violenza. Solo l'aria, perché la giovane donna aveva da tempo rinunciato a tenere soprammobili che sarebbero stati travolti dall'euforico balletto di Fischio. Il cane roteava su sé stesso come una trottola, emettendo acuti guaiti di gioia neanche fosse rinchiuso da giorni. Persino il ficus accanto al balcone - rimasto in eredità alla casa dopo la morte del precedente inquilino - aveva il fusto mancante di una serie di foglie, giusto all'altezza dei colpi di coda. Marila ogni giorno ne raccoglieva una da terra, fatta volare da Fischio, fin quando la povera pianta si era adeguata e non aveva più cacciato germogli a rischio. Aveva educato bene il cagnolino in tante cose, ma non era mai riuscita a impedirgli la danza della gioia quando capiva che stavano per andare fuori. E in fondo a lei piaceva il suo frenetico girotondo. Lo sgridava, ma nel rimprovero si leggeva chiaramente il sorriso che lo accompagnava. Ed era quel sorriso che la fregava. «Seduto, adesso» gli ordinò per mettergli il guinzaglio. «Bada che andiamo solo dal meccanico e poi di nuovo subito a casa.» Sapeva però che un giretto fra gli alberi che si aprivano in bosco alla fine della strada glielo avrebbe comunque concesso. Alla fine risultò che la macchina non era deceduta e nemmeno gravemente malata. Dopo essersi recato sul luogo pronto al traino, il meccanico decretò che era cosa da poco e gliel'avrebbe rimessa a posto seduta stante.
«Ma ti ha poi spiegato qual era il guasto?» le chiese Francesco la sera, osservando la spropositata coppa a cinque gusti che lei aveva ordinato. Sarebbe riuscita a mangiarla tutta prima che il calore esterno la facesse sciogliere? Il dubbio fu di breve durata, a giudicare dall'entusiasmo con cui Marila aveva aggredito il gelato. Erano seduti ai tavolini che nelle serate estive il bar disponeva all'aperto per i propri clienti. Nelle altre stagioni dell'anno l'aria era troppo fresca o addirittura gelida per invogliare qualcuno a soffermarsi a lungo all'aperto. Ma era estate, sia pure appena iniziata, e l'asfalto della piazza su cui si affacciava il bar emanava il calore residuo della giornata. Non erano i soli a godere dell'imbrunire. In giro si vedevano diverse persone che passeggiavano sotto gli alberi del viale, anche se chiamare viale quella strada sembrava un po' troppo pretenzioso. I pochi bimbi del borgo vivacizzavano la piazzetta con i loro giochi ad alta voce. Era un classico sabato sera estivo e la maggior parte degli abitanti si era riversata in piazza. Tutti notarono la novità, ma nessuno osò disturbare la coppia. Anzi, fingevano proprio di non vederli, anche se sia Marila che Francesco potevano sentire il peso della curiosità trattenuta. Lei intanto aveva gustato con calma una grossa cucchiaiata di gelato alla frutta. «Ah sì, per dirmelo me l'ha detto, certo» rispose, poi si interruppe, restia a proseguire. «E?» la sollecitò lui. «E... non lo so, ecco. Ha parlato di un problema all'accensione, ma a questo c'ero arrivata anch'io, visto che si era spenta e non si metteva più in moto, ti pare? Ha detto qualcosa su...» compì un evidente sforzo di memoria. «La chiavetta dello spinterogeno? Può essere?» aggiunse guardandolo negli occhi in cerca di approvazione. Francesco cercò inutilmente di non ridere. Sarebbe stato poco elegante, e lui non voleva dare una cattiva impressione, non al primo appuntamento per di più. «La chiavetta?» ridacchiò tuttavia. «Intendi una chiavetta usb per il computer? Caspita, che macchina tecnologica!» Niente da fare, lo sghignazzo era stato inevitabile. Tossicchiò in un malriuscito tentativo di mimetizzare la risatina, e cercò di porre rimedio alla battuta. «Oh, beh, forse intendevi la calotta dello spinterogeno!» Marila gli lanciò un'occhiataccia di sbieco. Sperava di apparire molto sussiegosa e altera, perfettamente consapevole delle parole che aveva appena pronunciato, e sdegnata per il suo risolino. «E io che ho detto, scusa? Quella roba là, appunto.» A quanto pareva, la meccanica non era il suo forte. «E comunque so cambiare una ruota, se necessario» aggiunse inopinatamente. Così, giusto per darsi un tono, anche se l'affermazione aveva poco a che fare con lo spinterogeno. E giù un altro cucchiaio di gelato. «Ah, meno male. Certo, non molto utile quando hai un problema all'accensione, ma insomma...» scherzò Francesco. Marila lo artigliò con un'occhiata feroce, sembrava lo volesse masticare per risputarlo con forza nel cestino dei rifiuti. Lui si riprese subito e proseguì tentando di recuperare il fallo. «Voglio dire, se hai un problema all'accensione e una ruota a terra, mezzo guaio è risolto.» «Ecco, sì. È proprio quello che intendevo» gli concesse lei. “Uff, meno male” pensò Tositti. Era riuscito a porre riparo al passo falso con un acrobatico salto mortale di parole. La luce feroce negli occhi di lei era scomparsa. Per questa volta non l'avrebbe divorato insieme al gelato. La serata andò avanti così, fra sciocchezze e battute spiritose, molto leggera, senza lo stress di pensare a qualcosa di intelligente da dire o con la paura di sbagliare. Era come se si conoscessero da lungo tempo, vecchi amici che si erano perduti e infine ritrovati con immutata complicità. Quando distoglieva gli occhi dall'uomo, anche solo per decidere in quale gusto affondare il cucchiaino o per dare un'occhiata alla piazzetta dove erano seduti, Marila ne avvertiva comunque lo sguardo su di lei, però non provava né imbarazzo né fastidio. Si rendeva conto che lui la stava studiando. La valutava. Calcolava fino a che punto potesse permettersi di avanzare senza rischiare di essere respinto. Sapeva di fare spesso questo effetto sugli uomini, da quando era un'adolescente a metà strada tra impaccio e spigliatezza. C'era comunque qualcosa nel suo atteggiamento, o forse nei suoi occhi, che induceva alla prudenza. Poteva essere simpatica e allegra quanto voleva, anche se in realtà voleva poco, ma pareva sempre stabilire un limite: fin qui e non oltre. In effetti chi non se ne accorgeva, e lo superava, veniva allontanato, senza un perché. Semplicemente, scivolava via dai suoi pensieri e non tornava più. Con Tositti, tuttavia, questo impalpabile confine non era ancora stato nemmeno sfiorato. |
|
Biblioteca

|
Acquista

|
Preferenze
|
Contatto
|
|
|
|