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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Fabio Maltagliati
Titolo: Il Tesoro dell'Isola delle Nebbie
Genere Romanzo per Ragazzi
Lettori 3579 43 61
Il Tesoro dell'Isola delle Nebbie
Una tappa inaspettata.

La scuola era ormai terminata da parecchio e finalmente per Federica era giunto il momento di partire per il mare.
Amava sempre quei momenti che precedevano la partenza per Albarossa: la preparazione delle valigie, la scelta delle cose da portare e di quelle da lasciare a casa. Con la certezza di ritrovarle dopo tre settimane.
Ma soprattutto non vedeva l'ora di ritrovare i suoi amici del cuore. Il primo dei tre, Matteo, era un ragazzo moro con una ciocca di capelli biondi sul ciuffo e due occhi splendidi di colore verde smeraldo. Aveva un anno in più e viveva in una grande città, anche se purtroppo per lei non la stessa.
Matteo giocava a calcio nella squadra dell'oratorio del suo quartiere e aveva preso l'abitudine, ogni martedì, di inviarle via mail il giornalino settimanale con il resoconto della partita. Una volta, quando l'articolo mostrò anche una sua foto con la divisa della squadra, lei decise di stamparlo incollandolo poi nel suo diario, anche se questo non glielo disse mai.
Armando aveva invece la sua stessa età e proveniva da una città del sud. I suoi occhi erano castani e portava da tempo dei grossi occhiali da vista, mentre i capelli erano sempre arruffati come se non si pettinasse mai. Era un ragazzo molto intelligente e colto, ma a differenza del secchione della classe di Federica che non rivolgeva mai la parola a nessuno, anche simpaticissimo. Sorrideva sempre e conosceva un sacco di barzellette da farti morire dalle risate, soprattutto quando le raccontava nel suo dialetto.
Arrivava ad Albarossa sempre da solo facendosi ogni volta un sacco di ore in treno, soggiornando poi dalla nonna, originaria proprio di quel paese. I suoi genitori, infatti, durante il mese di agosto erano sempre impegnati con la loro attività e toccava quindi a lei ospitarlo, impegno che peraltro prendeva assai volentieri.
Durante l'anno Armando passava intere giornate davanti al suo computer per approfondire le sue conoscenze informatiche e ogni giorno non vedeva l'ora di terminare di studiare per potersi dedicare alla sua grande passione. In pratica lo si poteva definire un vero e proprio esperto, poiché non esisteva programma a lui sconosciuto.
Non se ne separava mai nemmeno durante le vacanze e la sua camera da letto sembrava il laboratorio di un centro ricerche: cavi dappertutto, custodie vuote di dvd per terra e la stampante che funzionava in continuazione sfornando fogli uno dietro l'altro.
C'era poi Beatrice, la piccola Bea, la più giovane del gruppo (aveva infatti solo undici anni) e una vera romanticona. Ma questa non era la sua unica qualità, poiché gli amici la consideravano anche la ragazza più buona e generosa del mondo. Inoltre, amava follemente soprattutto gli animali e loro sembravano ricambiare il suo amore. Certo, a volte si spaventava per una sciocchezza, ma se la ponevi davanti ad un obiettivo cui teneva davvero, diventava più coraggiosa di un leone.
Beatrice viveva in un piccolo paese vicino alla città di Federica e durante l'anno spesso s'incontravano insieme alle loro famiglie. Essendo anche una piccola campionessa di nuoto, l'ultima volta si erano viste proprio in occasione delle finali provinciali di giugno: Federica fece un tifo indiavolato per la sua amica, che vinse staccando la seconda classificata di quasi mezza vasca convincendo tutti, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che sarebbe presto diventata una nuotatrice fortissima.
Infine lei, Federica, Fede per gli amici. Una ragazza bionda, con lunghi capelli che le cadevano sulle spalle e occhi di un bellissimo colore che oscillava tra il castano chiaro e il verde. Fisicamente si era sviluppata molto presto ed era, infatti, la più alta della classe. Facilitata dalla sua statura, aveva cominciato a giocare a pallavolo nel team della scuola diventando presto una vera leader, tanto è vero che nel giro di mezza stagione si era già guadagnata il grado di capitano della squadra.
Federica si ricordava benissimo la strada per il mare poiché negli anni precedenti aveva imparato a memoria i nomi delle uscite dell'autostrada, che ripeteva mentalmente poco prima di arrivarci. Sapeva, infatti, che ad ogni cartello la distanza che la divideva dagli amici era sempre minore.
Questa volta, però, dopo un certo punto i paesi non corrispondevano più a quelli conosciuti e, incuriosita, chiese ai genitori il motivo di questo cambiamento.
Rispose sua madre, spiegando di voler passare a salutare una collega di lavoro che si trovava in ospedale poiché avevano ricoverato la figlia, una bambina di due anni.
“Forse te la ricordi, si chiama Margherita. Sono venuti lo scorso inverno a cena a casa nostra.”
“Certo che me la ricordo. Di cosa si è ammalata?”
“Ha contratto una malattia rara, che deve essere curata in ospedali particolari.”
“In che senso particolari?”
“Ospedali specializzati nella cura delle malattie infantili”, rispose sua madre.
“Nel senso che hanno cure speciali per i bambini?”
“Esatto. E dove lavorano anche dei medici molto in gamba, specializzati proprio in quelle patologie.”
“Non sapevo che esistessero strutture del genere. Pensavo che i bambini venissero curati negli ospedali normali, simili a quello in cui sono stata io l'anno scorso.”
“Di solito è così, ma quando la malattia è particolarmente grave, vengono trasferiti in strutture come questa, dove possono essere trattati in maniera più adeguata.”
Rimasero in silenzio fino all'arrivo nel parcheggio e una volta entrati nell'ospedale chiesero alla signorina della reception le informazioni per raggiungere la bimba, salendo poi in ascensore per arrivare al secondo piano.
Appena entrati nella stanza furono salutati con baci e abbracci. Margherita in quel momento stava dormendo, per cui il tono della voce rimase molto basso.
Federica aveva notato che non sembrava per nulla una camera d'ospedale, ma somigliava piuttosto alla sua vecchia cameretta: quadretti e disegni molto colorati facevano bella mostra appesi alle pareti, mentre alcuni giocattoli erano sparsi per terra sopra un tappeto di gommapiuma composto di grossi pezzi di puzzle variopinti.
Lei non aveva un brutto ricordo degli ospedali. Certo, sapeva bene che entrare significava essere malati e doversi curare. Nel suo caso, però, dopo meno di una settimana ne era uscita guarita, tornando presto a fare la stessa vita di prima. Si ricordava anche di un'infermiera davvero molto simpatica e di un medico che le sembrava troppo giovane per essere un vero dottore: aveva infatti un viso da ragazzo e un po' di peluria sopra il labbro superiore come alcuni suoi compagni di classe ed era completamente diverso dal suo medico di famiglia, che somigliava invece a suo nonno.
Uscirono tutti dalla stanza per non rischiare di svegliare la bambina, cominciando poi a chiaccherare tra di loro, anche se talvolta la mamma della piccola doveva interrompere le frasi per asciugarsi le lacrime.
Dopo qualche minuto, avendo bisogno di andare in bagno, Federica cominciò a camminare per i corridoi dell'ospedale. Passando per le varie camere, le venne una gran voglia di curiosarci dentro e trovando qualche porta aperta fece alcuni passi all'interno per guardare. Le scene erano molto simili a quella vista in precedenza: bambini a letto, di età diverse, mentre gli adulti, seduti di fianco, parlavano a voce bassa tra loro o leggevano un giornale.
Uscita dal bagno decise di proseguire la sua passeggiata tra i corridoi finendo in un angolo dove vi erano delle piccole seggiole di plastica verdi, un tavolino giallo e una lavagna rossa con delle lettere magnetiche sulla sua superficie. In quel momento sulla lavagna vi era composta la scritta G-I-A-N-N-A, sicuramente il nome di una delle ospiti ricoverate, mentre sopra al mobiletto di fianco vi erano alcuni famosi giochi in scatola.
Passata un'altra manciata di minuti sua madre venne a chiamarla, dicendole che l'ora delle visite era terminata e che dovevamo passare ancora da una persona prima di ripartire. Federica in realtà era un po' annoiata e non vedeva l'ora di arrivare al mare, ma poi pensò che in fondo avrebbe avuto tre settimane per stare con i suoi amici. Qualche minuto di ritardo non avrebbe tolto nulla alla sua vacanza.
La persona che dovevano vedere era la direttrice dell'ospedale e dopo essersi brevemente presentata stringendo la mano a tutti, li fece accomodare su delle sedie davanti alla sua scrivania.
La donna guardò subito la ragazza, rivolgendole un gran sorriso.
“Come ti chiami?” chiese.
“Federica.”
“Sei veramente una bella ragazza. Quanti anni hai?”
“Dodici.”
Nel pronunciare quelle parole diventò tutta rossa in viso: s'imbarazzava sempre quando le dicevano così, anche se sapeva bene di essere carina e che parecchi suoi compagni avrebbe voluto mettersi insieme a lei.
La direttrice iniziò a parlare.
“Signori, vi ho convocato perché purtroppo ho delle brutte notizie da darvi.”
“Voi conoscete bene le condizioni di Margherita”, continuò. “Al momento siamo riusciti a bloccare la malattia, ma avrebbe bisogno ancora e per parecchio tempo di cure specifiche per avere speranze concrete di guarigione.”
La madre e il padre della bambina si girarono guardandosi, senza capire esattamente quale fosse il problema.
“Voi sapete che siamo una fondazione privata, nata dalla volontà di mio padre e mia madre che, avendo perso una figlia di sei anni prima ancora che io nascessi, decisero di dedicare la loro vita alla cura delle malattie infantili e di utilizzare tutto il loro patrimonio per la costruzione di quest'ospedale.”
I due adesso non si stavano perdendo nemmeno una parola.
“Come potete immaginare noi viviamo soprattutto di donazioni private, provenienti principalmente dalle famiglie dei malati, ma non solo.”
Li guardò negli occhi e andò avanti a parlare. “La crisi economica di questi anni ha ridotto di parecchio queste donazioni, così come i fondi che riceviamo dallo Stato e noi attualmente, con le risorse rimaste, potremmo al massimo arrivare alla fine dell'anno. Poi dovremo cominciare a trasferire tutti i nostri piccoli pazienti al San Giusto.”
“Ma, direttrice, il San Giusto è un ospedale pubblico. Sarà in grado di dare le stesse cure ai bambini?” chiese la madre, mentre le tremavano le mani per la paura della risposta.
“Signora, lei mi conosce bene e sa che sono una persona molto schietta, anche a costo di dire cose spiacevoli. E' vero, il San Giusto è un ospedale pubblico e se posso darle il mio parere di pediatra, è uno dei migliori. Le cure, però, sono molto meno specifiche di quelle che forniamo qui dove, invece, siamo all'avanguardia lavorando con farmaci di ultimissima generazione.”
“Quindi sta dicendo che nostra figlia potrebbe non ricevere più lo stesso trattamento?” intervenne il padre.
“Purtroppo è così. Margherita sarà sempre seguita nel migliore dei modi, questo glielo posso garantire, ma al San Giusto non le saranno somministrati gli stessi farmaci. Sono molto costosi e l'ospedale non ha i fondi per acquistarli.”
La mamma di Margherita cominciò silenziosamente a singhiozzare e anche a quella di Federica vennero gli occhi rossi, nonostante il tentativo di nasconderli con un fazzoletto.
“Stiamo cercando di parlare con il sindaco per ottenere qualche finanziamento extra, ma nella migliore delle ipotesi si andrebbe avanti ancora per qualche mese, non di più” disse la direttrice, con la voce sempre più bassa, tanto che si faticava a udirla.
Ad un certo punto cominciò a scrollare lentamente la testa. “Ah, se il racconto della cara zia fosse vero, avremmo risolto i nostri problemi.”
Trovandosi tutti gli occhi puntati addosso, si rese conto che gli ospiti avevano udito le sue parole.
“Scusatemi, parlavo da sola. Stavo pensando alla mia vecchia zia: è mancata da poche settimane e mi è tornata in mente una storia che mi raccontava sempre.”
“Quale storia?” chiese Federica, incuriosita.
“Suo marito era un famoso esploratore che aveva girato mezzo mondo ritrovando fortune perdute. Nelle ultime lettere scritte a lei, sosteneva di essere riuscito a trovare il tesoro di un famoso pirata vissuto tre secoli prima.”
Appena ascoltate quelle parole, Federica sgranò gli occhi.
La direttrice continuò a raccontare. “Sembra che avesse un valore inestimabile, dato dalla presenza di migliaia di monete d'oro e chili di pietre preziose. Poi, però, durante il viaggio di ritorno la nave affondò, lo zio scomparve in mare e nessuno lo vide più. In quel naufragio morirono tutti tranne un giovane marinaio che raccontò tutta la storia: poverino, era sotto shock e continuava a ripetere come quel tesoro fosse protetto da una maledizione, che era stato un terribile errore portarlo via e che avesse come guardiano addirittura il fantasma dello stesso pirata.”
In quel momento Federica aveva completamente dimenticato i suoi amici e la sua fretta di arrivare ad Albarossa.
“Pensate, sosteneva che poco prima del naufragio il fantasma fosse addirittura apparso davanti a tutti loro, dicendo che si sarebbe vendicato del furto del suo tesoro.”
Fece un sorriso. “Naturalmente nessuno gli credette, la nave era stata affondata da un uragano, come venne appurato qualche giorno dopo durante le ricerche in mare. Sapete, ai marinai piace esagerare con la fantasia, quando si parla dei loro viaggi.”
Tornò subito seria e riprese il suo racconto. “Come vi dicevo, quest'ospedale è nato grazie alle ricchezze della mia famiglia. Mio padre era un famoso industriale, ma è sempre stata la zia quella che ha contribuito maggiormente a questo progetto, grazie al lavoro del marito. Una donna molto strana, che aveva anche i suoi vizi e le sue manie.”
“Quali vizi?” chiese Federica.
“Le piaceva andare nei casinò a giocare d'azzardo” rispose la direttrice. “Io ero la sua unica erede e non ti nascondo che contavo molto sul suo patrimonio per continuare a occuparmi di questa struttura, ma quando il notaio ha letto il testamento ho scoperto che non le era rimasto praticamente nulla.”
“E se qualcuno ritrovasse quel tesoro?” domandò Federica.
“Sarebbe di proprietà della nostra famiglia”, confermò pronta la donna. “Abbiamo in mano i documenti che ci assegnano tutti i diritti su di esso. E stai sicura che permetterebbe a quest'ospedale di curare ancora per parecchi anni molti bambini sfortunati.”
“Accidenti!” esclamò la ragazza.
“Ma ora basta sognare, è meglio che mi rimetta al lavoro” e pronunciando queste parole si alzò per congedare i suoi ospiti.
Dopo aver fatto i migliori auguri per la salute di Margherita, i genitori di Federica salutarono gli amici e si rimisero in macchina continuando il loro viaggio verso il mare. Le uscite dell'autostrada ora erano tornate ad essere quelle di sempre, ma lei aveva smesso di leggerne i nomi, rimanendo assorta nei suoi pensieri.
“Che storia triste”, continuava a ripetersi.
“Allora, sei contenta di rivedere i tuoi amici?” chiese la madre voltandosi verso di lei.
“Certo, sono felicissima. Ma pensavo ancora al fatto del tesoro.”
“Amore, la storia del pirata era solo una favoletta.”
“E se invece fosse tutto vero e questo tesoro esistesse?”
Con quest'ultimo pensiero, Federica si addormentò sul sedile posteriore.

Albarossa

Arrivarono ad Albarossa verso l'ora di cena.
Federica non vedeva l'ora di andare a salutare gli amici, arrivati già da qualche giorno, ma soprattutto di fare un giro per il paese per vedere se qualcosa fosse cambiato rispetto all'anno precedente.
In realtà, però, il paese non cambiava mai!
La sua casa si trovava a pochi passi dalla spiaggia, nella prima via interna parallela al lungomare e ogni mattina lei passava sempre davanti al negozio di Giuseppe, l'edicolante, dove amava fermarsi qualche minuto a guardare le copertine dei suoi fumetti preferiti. I suoi genitori spesso gliene acquistavano uno, con l'unica regola di terminarlo prima di averne uno nuovo. Pensando più a stare con gli amici, Federica non sempre riusciva a finirlo in breve tempo, ma questo non la preoccupava più di tanto: a casa ne aveva a sufficienza e spesso si divertiva a rileggere quelli che le erano piaciuti di più.
Beatrice abitava vicino a lei, poco più avanti nella stessa via, mentre Matteo stava un po' più all'interno, sulla strada verso le colline. Armando era invece quello più lontano: la casa della nonna era situata infatti nella parte più antica del paese, la cosiddetta “città vecchia”.
Tutte le persone che Federica conosceva abitavano soprattutto nel nuovo quartiere, dove negli ultimi trent'anni erano sorte tutte le abitazioni e dove si trovavano anche le spiagge attrezzate con gli ombrelloni, le pizzerie, le gelaterie e i negozi più belli.
In quel quartiere conosceva praticamente tutti: Antonio, con la sua panetteria, dove la mattina insieme ai genitori passava a comprare la brioche fresca con la marmellata che poi si sarebbe mangiata in spiaggia. Poi vi era Duilio, il parrucchiere da uomo, con il suo negozio dotato di sedie con il poggiatesta reclinabile, dove suo padre andava a farsi tagliare i capelli. Accanto alla sua bottega c'era quella della moglie Ida, la parrucchiera da donna, dove invece si recava la maggior parte delle signore della spiaggia. D'estate le porte erano sempre aperte e a volte li sentivi discutere a voce alta senza che nessuno dei due uscisse per strada. Se passavi da quelle parti quando stavano litigando, ti dovevi tappare le orecchie perché le urla erano talmente forti da arrivare fino al marciapiede opposto.
C'era poi Gaetano, il pittore, con i suoi baffetti biondi rivolti verso l'alto come Salvador Dalì, un famoso artista del passato. Il suo studio era sempre aperto al pubblico e ci potevi trovare un sacco di quadri di soggetti e dimensioni diverse. Quando entravi nella sua bottega, potevi annusare l'odore dei colori e dei pennelli, un profumo che Federica amava molto.
Quando era più piccola, avrebbe voluto diventare una pittrice brava come lui e gli chiedeva sempre cosa fare per diventare una grande artista. Lui, lusingato da quei complimenti, ogni tanto le dava qualche piccolo consiglio di disegno.
“Sei l'unica che mi chiama grande artista, lo sai?” le diceva con soddisfazione.
“Perché per me lo sei davvero. I tuoi quadri sono meravigliosi” rispondeva lei, facendolo gongolare ancora di più.
Una volta, per il suo compleanno, chiese ai genitori un quadro di Gaetano da appendere nella sua cameretta. Lui, informato della cosa, le aveva domandato se c'era un soggetto che prediligeva.
“Sì, un mare in tempesta” rispose la ragazza e quel quadro, ancora oggi, faceva bella mostra nella sua stanza da letto.
Vi erano poi Riccardo e Sofia, i figli del proprietario della loro spiaggia, con cui lei e i ragazzi organizzavano sempre delle grandi sfide al calcetto del bar. Riccardo vinceva praticamente sempre e l'unico che riusciva a metterlo un po' in difficoltà era Matteo, anche se poi alla fine quasi mai riusciva a batterlo. Durante l'anno si allenava un sacco all'oratorio, con il preciso intento di riuscire un giorno a superarlo e l'inverno precedente era diventato il campione della sua categoria di età, vincendo anche il Gran Torneo di Natale.
Affrontare Riccardo però era un'altra storia: si trattava di un vero osso duro! Quando poi giocava in coppia con la sorella, potevi lasciare ogni speranza, poiché erano veramente imbattibili.
La città vecchia invece era abitata da anziani e conosciuta solo per la chiesa, dove i ragazzi si recavano a messa la domenica con le famiglie. In quella zona le botteghe aperte, anno dopo anno, erano sempre meno: i negozianti più giovani decidevano infatti di spostare la loro attività nella zona turistica, molto più redditizia, mentre quelli più vecchi abbassavano la serranda per l'ultima volta e smettevano di lavorare.
La domenica era anche l'unico giorno in cui potevi vedere in giro Gionata, un bambino che scorrazzava per le strade con una vecchia bicicletta arancione mezza arrugginita e molto più grande di lui. Quando gli passavi davanti dovevi starci attento perché i freni di quella bici funzionavano poco, tanto che doveva cominciare ad azionarli molto prima per non rischiare di sbatterti contro.
Gionata era un bambino taciturno e nessuno lo aveva mai visto fermarsi o parlare con anima viva. Indossava sempre dei vecchi pantaloncini azzurri che lasciavano vedere le sue ginocchia perennemente sbucciate e una maglietta bianca con il logo di una ditta edilizia della zona. Il suo viso era piccolo, così come il resto del suo corpo e l'unico tratto che risaltava in mezzo a quella figura così minuscola erano i suoi grandi occhi azzurri.
Si diceva che il padre fosse fuggito all'estero quando lui era ancora un neonato e la madre, per poterlo mantenere, svolgeva qualche lavoretto a casa delle ricche signore dei paesi vicini. Grazie al suo impegno si era fatta ben volere da tutti e spesso, oltre alla paga, riceveva in regalo del cibo o qualche vestito per Gionata, in genere abiti che i loro figli non volevano più indossare, mentre nel tempo libero cercava anche di dare una mano agli anziani, soprattutto quelli che vivevano soli e avevano difficoltà motorie, aiutandoli a lavarsi e vestirsi.
Dopo qualche anno, il sindaco di Albarossa, che aveva preso a cuore la sua triste storia, per ringraziarla dell'aiuto che quotidianamente forniva agli anziani, decise di assegnarle l'uso di una vecchia casa di proprietà del comune, ormai disabitata da anni. Per lei e Gionata questo gesto significò la sopravvivenza: senza più un affitto da pagare la vita adesso poteva davvero volgere al meglio. Voleva dire, ad esempio, riuscire ad acquistare libri e quaderni per suo figlio e questo bastava a farla sentire felice.
C'era infine il vecchio matto, come veniva soprannominato in paese. Era un uomo con una grande barba grigia che viveva in una casa sulla collina, lontano da tutto e da tutti. Si diceva che questo vecchio avesse perso il senno ormai da molti anni, probabilmente a causa dell'età, e che passasse il tempo a gridare alle persone che avevano la sventura di avvicinarsi alla sua proprietà.
Una lunga spiaggia correva lungo tutto il paese, alle cui estremità vi erano ben due porti: il cosiddetto “porto vecchio” da una parte e quello nuovo dall'altra. Nel primo potevi trovare solo le barche dei pescatori, ormai sempre più anziani e sempre meno numerosi, che tutte le mattine organizzavano insieme alle loro mogli un piccolo mercato del pesce. In realtà, chiamarlo così era proprio un'esagerazione: i pescatori, infatti, vendevano il frutto del loro lavoro sopra delle bancarelle improvvisate composte di due tavoli di legno affiancati sopra i quali poggiavano le cassette, e in genere dopo un'ora avevano già venduto tutto per un magro guadagno. Ormai la pesca era diventata un'attività sempre meno remunerativa, il pescato diminuiva di anno in anno e spesso gli uomini preferivano quindi passare la giornata al bar del porto a giocare a carte.
Il porto nuovo, invece, era sempre affollato e pieno di barche moderne. Intorno ad esso vi erano negozi, ristoranti di lusso e moltissimi bar, dove ragazzi e ragazze si davano appuntamento la sera per ascoltare un po' di musica live.
Federica, Matteo, Beatrice e Armando la sera si ritrovavano a casa di uno di loro: da Armando se preferivano guardare i programmi del suo potentissimo computer oppure a casa di Matteo e Federica per giocare con la Playstation o la Wii.
Insomma, Albarossa era il classico paesino di mare che d'estate si animava di vita e di persone, ma dove non succedeva mai niente di particolare. Le giornate scorrevano sempre uguali tra loro: sole, bagni, tranquillità e serate a base di videogiochi e fumetti, mentre i genitori chiaccheravano allegramente tra loro.
Nessuno poteva immaginare ciò che sarebbe successo nei giorni seguenti.

Il vecchio marinaio

Tutto ebbe inizio un sabato. I genitori dei ragazzi avevano deciso di pranzare tutti insieme in una piccola locanda sulla collina dietro Albarossa, dove la famiglia di Matteo si recava da molto tempo e la cui anziana proprietaria era un'amica di famiglia.
Il pranzo alla sua locanda era diventato una tradizione e ogni anno gli adulti si mettevano d'accordo per andare da lei. E' vero, avrebbero rinunciato ad una giornata di mare e di sole, ma i piatti prelibati che si sarebbero gustati avrebbero fatto dimenticare presto le loro rinunce. Quella volta riuscirono addirittura a convincere anche la nonna di Armando, che di solito non amava troppo andare in giro, preferendo rimanersene in casa al fresco.
Per arrivarci occorreva uscire dal paese dirigendosi verso l'entroterra percorrendo una piccola salita e dopo un paio di chilometri prendere una stradina sulla sinistra che terminava direttamente alla locanda. Il luogo era davvero incantevole: proprio nel mezzo delle colline, con prati verdi a perdita d'occhio che la circondavano, in lontananza la vista del mare e di fianco un grande recinto dove scorrazzavano dei cavalli.
L'arredamento della saletta da pranzo era molto particolare e certamente diverso dai ristoranti di città: i mobili erano antichi e si potevano notare dappertutto dei piatti finemente decorati appesi alle pareti. Questi piatti, diceva la proprietaria, erano appartenuti ai suoi genitori e risalivano addirittura a quasi un secolo prima.
Il pranzo come sempre fu all'altezza delle aspettative, con porzioni abbondanti che saziarono ben presto tutti i commensali. Dopo aver terminato, uscirono tutti nel giardino davanti al recinto dei cavalli, dove vi erano degli sdrai sui quali ci si poteva concedere un riposino.
Gli unici che non avevano nessuna intenzione di dormire erano i ragazzi che, invece, decisero di fare una passeggiata verso la collina seguendo il piccolo sentiero che partendo dalla locanda si snodava all'interno di un bosco. Un viottolo talmente stretto che lo si poteva percorrere solo a piedi o in bicicletta.
Poco prima di partire la cuoca non mancò di dar loro un avvertimento.
“State attenti che alla fine di quella strada c'è la casa di quel matto. Mi raccomando, non andate a disturbarlo, non si sa mai come potrebbe reagire quel burbero.”
In paese avevano già sentito parlare del vecchio della collina. Si diceva avesse avuto una vita molto avventurosa, prima come soldato in una guerra e poi come marinaio. Qualcuno sosteneva fosse stato addirittura un pirata e che si fosse nascosto in quella casa tra le colline per evitare la forca. Viveva in una piccola abitazione davanti ad un grande prato tutto recintato e passava le giornate a curare il suo orto e le sue galline oppure sulla sedia a dondolo sotto il porticato di legno a fumare la pipa guardando verso il mare.
Fino ad alcuni anni prima, faceva anche qualche capatina in paese. Veniva a comprarsi cibo per lui e tabacco per la sua pipa e quelle poche volte che lo si vedeva in giro, non parlava mai con nessuno. Se qualche volta per gentilezza lo si salutava, lui rispondeva con un grugnito o non diceva nulla e ben presto la gente capì che era meglio lasciarlo in pace.
Portava sempre gli stessi abiti: una camicia a quadrettoni rossa, un gilet blu e dei vecchi pantaloni grigi di lana pesante. Nessuno era mai entrato in casa sua e bisognava accontentarsi di vederla in lontananza: al vecchio piaceva vivere in solitudine e non avrebbe mai permesso a nessuno di avvicinarsi al suo recinto. Se ci provavi, cominciava a urlarti contro e a minacciarti, smettendo solo quando te ne fossi andato. Si raccontava anche che una volta alcuni operai entrarono nel suo terreno per fare delle misurazioni. Non appena lui li vide cominciò a urlare e quando questi di risposta lo presero in giro, rientrò in casa per uscirne con una pistola e cominciando a sparare contro di loro. In paese ci fu un grande trambusto per questo fatto e dovettero intervenire i carabinieri per calmarlo. Lui sosteneva di aver sparato in aria e che l'aveva fatto solo per spaventarli, ma giurando che la prossima volta avrebbe certamente mirato più in basso.
Da quel giorno, nessuno osò mai più varcare il suo cancello.
Nel frattempo le poche nuvole si erano spostate per far posto al sole, che ora splendeva nel cielo, rendendo la giornata davvero molto calda. All'interno del bosco c'era molta umidità e i ragazzi cominciarono ben presto a sudare, decidendo quindi di fermarsi un attimo.
Erano seduti su alcune pietre, quando due piccoli conigli passarono accanto a Beatrice fermandosi a pochi centimetri da lei.
“Guadate ragazzi, due coniglietti” esclamò.
“Cosa ci fanno qui?” disse Armando. “Non dovrebbero esserci conigli da queste parti.”
“Saranno scappati da qualche fattoria” disse Federica.
“Ma qui, a parte quella da dove arriviamo, non ci sono fattorie. E poi sono troppo piccoli per aver percorso così tanta strada.”
Nel frattempo, Beatrice si era alzata provando ad avvicinarsi per accarezzarli. Loro però, a ogni suo movimento, si allontanavano leggermente, come per tenerla sempre a distanza di sicurezza.
Passo dopo passo, Beatrice si era staccata dal luogo dove erano seduti gli amici imboccando un sentierino laterale che terminava davanti ad una staccionata di legno. I due coniglietti si girarono un attimo verso di lei e poi saltarono dentro il prato, all'interno della recinzione.
“Dai, piccoli, venite qua...” disse, mentre si piegava per passare in mezzo alle due assi di legno dello steccato, quella superiore e quella inferiore. I conigli intanto avevano ripreso a correre, dirigendosi verso la casa che si trovava proprio davanti a loro.
Gli amici, non vedendola più, cominciarono a preoccuparsi.
“Bea, dove sei?”
“Beaaaaa”
Federica, volgendo lo sguardo verso destra, vide il sentierino con in fondo la staccionata ed ebbe subito un brutto presentimento.
“Ragazzi guardate! Quella non è la casa del vecchio matto?”
“Sì, accidenti, sì!” esclamò Matteo, che in quel momento vide l'amica correre proprio in quella direzione.
“Beatrice è entrata nel suo terreno.”
“Ma è impazzita?” disse Armando.
“Probabilmente seguendo i conigli non si è resa conto di quello che sta facendo.”
“Se il matto si accorge di lei, sono guai.”
“Forza, andiamo a prenderla” dissero, iniziando tutti a correre verso il recinto.
Nel frattempo, Beatrice giunse nel retro della casa e si ritrovò in un piccolo cortile, dove vi erano delle gabbiette. Sbirciando all'interno vide che vi erano galline, conigli e altri animali che non conosceva. Il tutto senza perdere d'occhio gli animaletti che in quel momento erano fermi davanti a lei.
Improvvisamente i cuccioli ripresero a muoversi e scomparvero dietro la casa. Lei corse verso di loro, ma appena voltato l'angolo andò a sbattere contro qualcosa che le fece perdere l'equilibrio e cadde a terra.
Girò la testa per vedere cosa l'aveva colpita e davanti ai suoi occhi si materializzò un uomo con una grande barba grigia, che la guardava con due occhi di fuoco. Le braccia erano muscolose e sbucavano fuori da una camicia a quadrettoni rossa. Il viso era pieno di rughe, mentre i capelli erano grigi, lunghi e arruffati, con il vento che, muovendoli, li faceva apparire ancora più disordinati. La bocca si aprì in un sorriso diabolico, tanto che si potevano vedere i denti, quasi tutti neri.
In quel momento Beatrice si ricordò di tutto: delle storie che aveva sentito in paese, del vecchio e della sua pistola e cominciò a tremare. Non era in grado di aprire la bocca dalla paura e si limitava a guardarlo, terrorizzata.
“Ehi marmocchia, che ci fai nel mio cortile?” disse l'uomo con una voce roca e cavernosa. Il suo viso assunse un'espressione feroce, che avrebbe spaventato una belva.
Beatrice voleva provare a scusarsi, a dire che non voleva entrare nella sua proprietà, che non si era resa conto di quello che aveva fatto, ma la voce le si spegneva in gola. Non era in grado di dire una singola parola. L'unico gesto che provò a compiere fu quello di rialzarsi appoggiando una mano per terra.
Quando vide il vecchio fare un passo verso di lei, venne presa completamente dal panico e cercò di indietreggiare facendosi leva sulle mani. Una volta messo qualche altro metro di distanza tra di loro, provò a rialzarsi ma nello slancio incrociò i piedi e cadde ancora una volta.
Il vecchio era fermo e continuava a fissarla. Anche Beatrice si bloccò, ma senza mai smettere di guardarlo negli occhi per poterne capire, in anticipo, le intenzioni. Vide che erano di un bellissimo colore azzurro, come il mare nelle sue giornate più belle, e le non parevano affatto quelli di un uomo malvagio.
Il vecchio allungò un braccio nella sua direzione e lei cominciò ad urlare.
“E' Beatrice, è in pericolo!” dissero gli amici quando ne udirono le grida.
Dopo aver visto la mano del vecchio che la stava raggiungendo, Beatrice chiuse gli occhi, pensando che in quel momento la sua vita fosse finita lì, in quell'orribile cortile, inseguendo due stupidi conigli. Poi sentì la mano toccare la sua. Era enorme e sentiva sulla sua pelle tutti i calli di quell'uomo.
“Forza, tirati su” disse il vecchio mentre la aiutava a rialzarsi. Vide dipinto sul suo volto un leggero sorriso, ma era certa fosse solo la sua paura che le stava combinando qualche scherzo.
In quel momento arrivarono gli altri ragazzi e si trovarono anche loro di fronte al vecchio: era alto quasi due metri, grande come un armadio e con due mani gigantesche. Lui li guardò e il sorriso scomparve subito, lasciando spazio ad una espressione più cupa.
“Beatrice!” esclamò Matteo.
“Bea, scappa” le gridò Armando.
Lei, udite quelle parole, girò le spalle all'uomo e tutti insieme presero a correre verso lo staccionata. Il vecchio fece due passi per provare a raggiungerli, ma dopo qualche metro si dovette fermare poiché le sue gambe non riuscivano a reggere lo sforzo.
“Andatevene mocciosi. E non tornate mai più, se non volete avere guai” urlò con la sua voce tonante.
I ragazzi, saltato lo steccato, percorsero tutto il sentiero di corsa, entrando nel bosco e fermandosi solo quando Armando, con il fiatone e il viso tutto rosso dalla fatica, non chiese di fare una pausa. In quel momento si girarono e vedendo che nessuno li stava inseguendo cominciarono a rallentare l'andatura. L'avevano scampata bella e durante il tragitto di ritorno decisero di fare un giuramento: nessuno avrebbe detto nulla di quello che avevano appena visto.
Sarebbe stato il loro segreto.
Terminata la giornata, salirono sulle macchine e durante il viaggio tutti pensarono a quanto accaduto, ognuno dando la propria interpretazione.
Matteo pensava di essere stato molto fortunato a tornare vivo da quella brutta esperienza, dato che quello che si diceva su quel matto era veramente terribile e averlo visto di persona non faceva altro che confermare queste voci.
Federica volgeva il pensiero invece a Beatrice, alla sua sensibilità ed alla sua generosità, che però a volte rischiava di metterla nei guai. Era una ragazza d'oro, ma doveva imparare a farsi guidare dalla testa e non sempre e solo dall'istinto.
Armando, al contrario, era arrabbiato a morte con lei. A volte la sua amica teneva dei comportamenti veramente stupidi e stavolta poteva fare davvero una brutta fine. Non sempre potevano tirarla fuori dai guai.
Beatrice, invece, pensava solo a lui, al vecchio della collina. Quando l'aveva fissato in viso per la prima volta, tutto aveva visto tranne che un matto o un criminale.
Lei aveva visto soltanto gli occhi di un uomo triste.
Fabio Maltagliati
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