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Autore: Sabina Camani
Titolo: Racconti in controcanto
Genere Narrativa
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Racconti in controcanto
Il bastione impossibile.

Invasori della notte: aerei leggeri, veloci. Arrivavano dall'oscurità. Un rombo improvviso sopra le case. Cercavano una seppur minima fonte di luce e, se la individuavano, si lanciavano a volo radente e mitragliavano alla cieca qualunque cosa.
Per gli Alleati queste azioni si chiamavano “Operazione Night Intruders”.
Tra il 1943 e il 1944, questa operazione doveva servire a demolire del tutto la già delusa e stanca fiducia che gli Italiani, in parte, ancora nutrivano per il regime della Repubblica Sociale.
Retta più da Hitler che da Mussolini, divenuto ormai un fantoccio nelle mani del Führer, la Repubblica Sociale era agli sgoccioli. Si ostinava a reprimere una Resistenza, che nonostante le feroci ritorsioni messe in atto, diveniva ogni giorno più forte in tutto il Paese.
Nessuno sapeva chi pilotasse i night intruders, a quale nazionalità appartenesse il pilota; se fossero tanti o uno solo. Per tutti il suo nome era Pippo.
Di notte, in Veneto, le città, i villaggi, i paesini, i casolari sperduti, tutto si oscurava fino a confondersi con le tenebre. La gente invece di spogliarsi si vestiva. I bambini venivano avvolti in scialli e coperte. Tutti tenevano le scarpe e i vecchi andavano a letto con il tabarro indosso per essere pronti, per non perdere neanche un istante. Quando suonavano le sirene non c'era il tempo per altro che non fosse fuggire.
Anche quella notte Giuseppa lo sentì arrivare un istante prima che le sirene ululassero per dare l'allarme. Come le altre volte prese dal comò la sua pentola più pesante e se la mise in testa a mo' di elmetto. Ritornò a letto, si infilò di nuovo sotto le coperte.
Gli adulti presero in braccio i piccoli ancora addormentati e, conoscendola, si preoccuparono per lei.
“Nino, vai a prendere la nonna, fai presto! Noi andiamo avanti con i bambini.”
Nino, quasi 15 anni, unico maschio abile della famiglia; il nonno e lo zio troppo vecchi per la guerra e lui, per fortuna, ancora troppo giovane. Calcò il berrettone di lana e sollevò tra le braccia la nonna dal letto con tutte le coperte. Il rombo di Pippo sempre più forte e vicino copriva le sirene.
“Mettimi giù!” “Dai nonna, ti prego, andiamo, non fare così.”
“Come ve lo devo dire? Non intendo morire fuori al freddo in mezzo ai campi!”
Giuseppa, una contadina robusta e testarda, si liberò dalla presa del nipote e lo spinse fuori con tutte le sue forze. Chiuse la porta e si rimise a letto con la sua pentola in testa. Nino dovette arrendersi. Lasciò la nonna e corse verso il fossato. Non c'era più tempo. Pippo stava volando basso per evitare i radar della contraerea. Le sventagliate della mitragliatrice sollevavano zolle di terra ghiacciata vicino alle gambe del ragazzo. Afferrò la cuginetta trascinandola verso il fossato e vi si gettò dentro tenendo la bambina sotto di sé, le mani e le braccia avvolte intorno a lei per proteggerla dall'urto. I proiettili sibilarono sopra i loro corpi rannicchiati sul fondo ghiacciato del fosso. Pochi istanti immobili ad ascoltare il suono cupo e mortifero che si allontanava. Fino alla notte successiva non sarebbe tornato.
Le voci si chiamavano, si cercavano. C'erano tutti con i bambini che piangevano, i vecchi che tremavano nei tabarri fradici, con le orecchie assordate da quel suono, ma c'erano tutti.
Entrarono in casa, chiamarono a gran voce Giuseppa. Lei era in cucina, la sua pentola in testa e l'acqua calda pronta per riempire le boule da mettere intorno ai bambini. Gli adulti sistemarono i piccoli mormorando sottovoce per rassicurarli, li cullarono, li scaldarono. Compivano quei gesti dolci come se tutto fosse normale, tranquillo, per rincuorare se stessi per primi. Nino depose Clara nel letto grande accanto agli altri bambini e, rimboccando le coperte, mentre le ripuliva il viso dal fango, sentì nel petto e nei pensieri che neppure per un solo istante della vita avrebbe voluto smettere di esserle vicino e mai avrebbe permesso che alcun male le potesse accadere. Poi si stese stremato e, nonostante Pippo e la guerra, si addormentò con un sorriso.
Clara e Nino erano parenti acquisiti. Uno zio paterno di Nino aveva sposato la zia materna di Clara.
Quando i Tedeschi nel 1943 occuparono il Veneto, molte famiglie dovettero lasciare le loro abitazioni che a volte venivano requisite per scopi militari, o era necessario abbandonare la casa perché vicina a obiettivi sensibili, soggetti ai bombardamenti degli Alleati, come ferrovie o campi di aviazione.
La famiglia di Clara, che viveva vicino alla zona ferroviaria di Padova, fu sfollata presso la famiglia di Nino che si trovava ad Abano, considerata la zona più sicura, sia dagli abitanti che dai Tedeschi. In alcuni alberghi termali, infatti, la Croce Rossa Internazionale aveva allestito ospedali di emergenza che ospitavano i soldati feriti. Questo purtroppo non fermava le incursioni di Pippo ma diminuiva di molto l'eventualità di attacchi aerei da parte dei grossi bombardieri dell'aviazione inglese che colpivano con maggiore frequenza le zone dove transitavano convogli tedeschi che trasportavano uomini e approvvigionamenti. Sui tetti degli alberghi campeggiavano enormi teli bianchi con il disegno di una croce rossa nel centro ed erano posizionati in modo da essere molto ben visibili dal cielo.
Il comando tedesco aveva impartito ordini precisi per quanto riguardava i rapporti con la popolazione, bisognava dimostrare gentilezza e supporto.
Il terzo Reich sapeva che gli Italiani erano stanchi e che molti, da numerose parti del Paese, si stavano unendo agli alleati Anglo Americani. Inoltre gli alberghi di Abano erano pieni di feriti tedeschi e i soldati avevano assoluto bisogno di cibo, medicine, coperte. Gli ufficiali si facevano ospitare e sfamare nelle case più grandi e meglio attrezzate.
Il capitano Heinrich, segretamente innamorato di Maria, osservava lo sguardo di lei posarsi con luminosa tenerezza sulla foto del marito che, si diceva, sarebbe presto tornato dalla prigionia in Germania e sulla piccina che teneva in braccio, concepita durante l'ultima licenza del padre prima della sua cattura. In cuor suo, il giovane capitano si riprometteva che, appena finita la guerra, avrebbe cercato una donna da amare così tanto da poterne essere ricambiato con quello stesso sguardo. Poi sospirava malinconico, ringraziava per l'ospitalità e, con un leggero inchino, si accomiatava.
Purtroppo i soldati tedeschi non erano tutti gentili, dolci e intelligenti come Heinrich. Accadeva spesso che Maria, la zia di Nino, fosse fatta oggetto di attenzioni pesanti e insistenti.
Era giovane, bruna di carnagione, con gli occhi neri come la notte e la bocca rossa come una ciliegia e i soldati erano affamati di tutto, non solo di cibo.
Quella sera, come di consueto, Giuseppa stava cucinando per i soldati e quando arrivarono incominciò a servirli ma uno di loro la scostò in malo modo “Bitte frau, chiama figlia, ya? Figlia giovane bella, tu troppo vecchia, e riposa, ya?”
Giuseppa sentì il puzzo di alcol e mantenne i nervi saldi. Si frappose tra il soldato ubriaco e Maria che, tremante di rabbia e di paura, cercava di staccarsi di dosso quelle mani e rimaneva muta; assolutamente muta. Se avesse gridato, Nino e gli altri ragazzini sarebbero corsi lì. Non voleva metterli in pericolo.
Il soldato spinse lontano Giuseppa e abbrancò Maria mente gli altri ridevano sguaiati, fradici di vino. Maria smise di lottare. Il soldato, stupito, fece per baciarla. Lei socchiuse le labbra e l'attimo successivo, con un morso feroce, lo costrinse a urlare di dolore e di sgomento per il sangue che gli colava copioso dalla bocca. Heinrich entrò in quel momento. Prese Maria, la fece sedere vicino a Giuseppa poi ordinò al suo luogotenente di tradurre i soldati ubriachi agli arresti. Si scusò in tutti i modi che la sua conoscenza della lingua gli permise. Pregò le due donne di fidarsi di lui, assicurando che una simile offesa non si sarebbe più ripetuta.
Il giorno dopo di buon'ora le due famiglie al completo fecero le valigie e si misero in cammino per spostarsi più vicino a Padova, dove c'erano altri parenti. Lì non erano più al sicuro...
Sabina Camani
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Sabina Camani
Mi chiamo Sabina e da piccola, come tutti i bambini, avevo diverse paure ma una in particolare non mi dava tregua. Ero terrorizzata al pensiero che i miei nonni morissero. La mia paura era dettata dall'amore che sentivo per loro ma non era solo questo; c'era anche qualcosa di molto più egoistico che mi faceva temere di perderli. Se loro se ne fossero andati, come avrei fatto a ricordare tutto quello che sapevano, tutte le cose incredibili che mi insegnavano? Mia nonna in particolare era una miniera preziosa. Conosceva tutto sulle piante, sui fiori. Nella sua serra avevo visto con i miei occhi rinascere piantine che il giorno prima erano morte e stecchite. Mi insegnava canzoni misteriose che ammaliavano chiunque le ascoltasse e le sapeva a memoria! Ricordava dei testi lunghissimi senza leggere una parola. E poi c'era stata la guerra e mio nonno mi raccontava di quando sentivano “Pippo”. L'aereo che lasciava cadere le bombe di notte e loro correvano come matti, a piedi nudi, d'inverno, verso i rifugi interrati o si buttavano nei fossi gelati tenendo sotto la pancia i più piccoli per proteggerli dalle schegge. Ascoltando quei racconti cercavo di ricordare ogni singolo dettaglio perché, con il delirio di onnipotenza che l'infanzia ancora mi permetteva, avevo deciso che non avrei lasciato accadere un'altra guerra. Avrei ricordato tutto e lo avrei raccontato a tutti perché tutti sapessero. E qui sorse il problema: io non sapevo ancora scrivere e i nonni erano vecchi. Dovevo sbrigarmi. Iniziai a girare per la casa e in giardino e di sera e di giorno...sempre ripetendo ad alta voce tutto quello che ritenevo più importante ricordare. Dormivo poco, solo quando crollavo. Poi riprendevo a ripetere per non dimenticare. Mio padre prese in mano la situazione e non potendomi regalare un registratore, che ancora non era in commercio, si mise a trascrivere per me quello che gli dettavo e iniziò a insegnarmi a scrivere. Questo mi rassicurò e mi permise di tornare a dormire e a giocare. Quando arrivai a scuola, imparai velocemente a scrivere e a leggere e quella paura passò. I miei nonni per fortuna vissero molto a lungo e fecero a tempo a raccontarmi tantissime altre cose. Quella che mi rimase più chiara fin dal loro primo racconto e che ancora ora mi accompagna è che la guerra aveva tolto a chi allora era bambino, ogni diritto alla gioia. Generazioni di bambini avevano passato l'infanzia a imparare a sopravvivere, non a giocare e ad essere bambini. Forse per quei racconti, forse per il mio carattere, non lo so. So che il pensiero che il diritto alla gioia a volte venga dimenticato, nascosto da interessi economici, negato in nome di stupide faziosità, controllato da regole o discipline più o meno morali o peggio, calpestato per egoismo e superficialità; questo pensiero mi fa ancora sentire incredula e arrabbiata come quando ero piccola. Per questo tutti i miei racconti hanno a che fare con questo diritto. Perché l'unica differenza con quando ero piccola, è che adesso so scrivere e non ho più paura di dimenticare.

Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorta di aver sviluppato la passione per la letteratura?

Sabina Camani: All'inizio, come ti ho raccontato, scrivere mi è servito per ricordare poi ho iniziato a tenere i “diari di viaggio”. Il lavoro di mio padre ci rendeva praticamente nomadi. Spesso, scrivere mi serviva come “luogo mio” e mi aiutava a sentirmi sempre a casa e soprattutto a fissare i luoghi, le emozioni, le persone, le avventure e a farle diventare un racconto prima di doverle lasciare e ripartire.

Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?

Sabina Camani: “L'isola del tesoro” di R. L. Stevenson e “Kon Tiki” di Thor Heyierdahl

Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?

Sabina Camani: No, non ho neppure provato. Volevo pubblicarlo, farlo arrivare dove volevo che andasse e non desideravo aspettare troppo.

Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?

Sabina Camani: Certamente sì ma ritengo anche che servano le competenze adatte, la dimestichezza con le tecnologie necessarie.

Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionata? Puoi raccontarci di cosa tratta?

Sabina Camani: Sì è “L'uomo nero e i fiorellini profumati”. Tratta di una storia vera da cui ho preso spunto per parlare delle paure dei bambini e anche di quelle dei grandi. Di come molto spesso nascano e mettano radici nel buio del silenzio tra genitori e figli. Nel poco ascolto che dedichiamo ai piccoli e nel poco ascolto che dedichiamo anche a noi stessi e al bambino che ci abita sempre. Tratta anche di accadimenti molto importanti della nostra storia recente, delle loro conseguenze e del potere salvifico che hanno le cose che ci rendono felici, a patto che impariamo a combattere per difenderle.

Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?

Sabina Camani: L'idea per un racconto arriva sempre da sé. La scrivo per fissarla e poi comincio a registrare tutte gli spunti, le svolte e gli sviluppi che mi si aprono, sul mio cellulare perché i pensieri sono più chiari quando cammino all'aperto. Camminando penso e parlo. A casa riascolto, scrivo, ripulisco e tolgo tutto quello che non è indispensabile.

Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?

Sabina Camani: Sì, sto scrivendo una raccolta di racconti. L'idea di base non è molto diversa, nel senso che voglio continuare a parlare di diritto alla gioia, di diritto a scegliere ciò che ci rende felici ma stavolta non sono fiabe. Sono storie di avventure, e di persone che ho incontrato durante un lungo viaggio verso l'Afghanistan e in Afghanistan.
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