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Autore: Claudia Celé
Scacco a Teodolinda
Giallo
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Scacco a Teodolinda

Il Museo del Duomo di Monza custodiva un gruppo di cimeli di straordinaria fattura e particolarmente preziosi raccolti sotto il nome di “Tesoro di Teodolinda”, chiamati in questo modo perché furono donati proprio dalla regina longobarda. Tra gli oggetti custoditi in quel museo solo quattro erano i preziosi che dovevano essere preparati per il trasferimento a Pavia. L'esemplare più rilevante, la famosa Corona Ferrea, il simbolo più importante per l'Occidente cristiano, sarebbe rimasto al suo posto nel reliquiario situato nell'apposito altare consacrato sito al centro della cappella di Teodolinda eretta all'interno della cattedrale. Il diadema, che era stato utilizzato per incoronare i re d'Italia, risultava composto da sei piastre d'oro incernierate tra di loro, recanti all'interno un cerchio di metallo, motivo per il quale la corona prende il nome di “ferrea” e che, secondo un'antica tradizione, viene identificato come uno dei chiodi utilizzati per la crocifissione di Cristo.
Il primo pezzo che doveva essere trasferito temporaneamente a Pavia era l'Evangeliario, un manufatto composto da due facce sostanzialmente identiche, in lamina d'oro e pietre preziose montate su un'anima di legno, donato alla regina Teodolinda da papa Gregorio Magno.
Il secondo cimelio era la Chioccia con i sette pulcini, un oggetto in lamina d'argento dorato, vuoto dentro e lavorato a sbalzo. Poi c'era la Croce di Agilulfo, in oro con pietre preziose e perle, con quattro pendenti realizzati con delle catenine cui sono appesi dei piccoli boccioli di fiore che racchiudono una sfera anch'essa in oro.
Il quarto e ultimo gioiello che sarebbe stato presente all'esposizione organizzata a Pavia era la Corona di Teodolinda, un diadema votivo in oro, gemme e madreperla di forma circolare e quadrata racchiuse da sottili lamine auree e disposte in cinque ordini paralleli.
La mostra al Castello Visconteo, una tra le più importanti mai realizzate, programmava l'esposizione di gioielli e oggetti d'arte provenienti oltre che da Monza e da altri musei nazionali, tra cui Torino, Parma, Cividale, Modena, Napoli anche da quelli internazionali. Per questo erano stati messi in campo gli esperti migliori e Furlan li aveva coordinati, essendo il consulente italiano di maggior livello. I gruppi di gioielli sarebbero stati trasportati a Pavia dai rispettivi musei con l'ausilio di personale dedicato alla sicurezza e giunti al Castello Visconteo, l'esperto li avrebbe verificati e fatti riporre negli espositori preposti. Valerio Furlan aveva deciso di sovrintendere personalmente alla preparazione dei monili monzesi e puntuale, alle diciotto precise, arrivò al museo. Il direttore era già lì da più di mezz'ora.
«Eccoti, possiamo procedere. Gli agenti della sicurezza ci stanno aspettando di là».
«Sono qui per questo» si affrettò a rispondere l'esperto.
La procedura stabilita prevedeva che, dopo l'apertura delle teche di vetro dove erano conservate, l'esperto dovesse controllare l'integrità e la veridicità delle opere, porle nelle custodie a doppio scomparto preparate per il trasporto, chiudere la prima parte attivando il lettore biometrico impostato con l'impronta digitale del suo dito indice della mano destra e infine bloccare l'ultima parte con la chiusura a combinazione, che naturalmente solo lui conosceva.
Tutto fu fatto a regola d'arte con la supervisione del personale della vigilanza. I cofanetti furono riposti di nuovo nelle vetrine che vennero serrate in attesa del trasporto; il piano di sicurezza prevedeva di muovere i manufatti in tardissima serata in modo da non trovare traffico e facilitarne la sorveglianza. 
Furlan uscì per andare a cena e ritornò al museo all'ora concordata. Il protocollo prevedeva il trasporto mediante un furgone blindato che sarebbe stato scortato da un'auto occupata da due vigilantes armati che lo avrebbe seguito per tutto il tragitto, una settantina di chilometri circa. 
Gli scrigni furono posti all'interno del veicolo fortificato e il dottor Furlan si sedette sui sedili anteriori insieme a un fidato autista che doveva guidare il mezzo a destinazione. 
Si era programmato di partire in tarda serata in modo da non trovare intoppi e procedere pressoché inosservati. Era quasi mezzanotte e mancavano una ventina di minuti all'arrivo. Dopo la ripartenza dovuta a un semaforo rosso, dalla strada laterale dell'incrocio cui si erano fermati, improvvisamente comparve una macchina nera con a bordo solamente il conducente. Inizialmente il fatto non destò alcun sospetto tra i componenti della squadra di scorta, tutti pensarono che fosse una normalissima auto che stava percorrendo la stessa strada, poi la cosa si fece più ambigua perché, giunti in città, la comitiva si accorse che quella continuava a tallonarli e faceva lo stesso percorso. Gli addetti presenti sui due mezzi comunicarono tra loro via radio e decisero di proseguire poiché sarebbe stato pericoloso fermarsi per chiedere delucidazioni all'automobilista, rischiando così di essere vittime di un eventuale agguato da parte di una banda di malviventi; nel frattempo, uno degli agenti di scorta si premurò di contattare la centrale operativa per segnalare il fatto, in modo che i colleghi si preparassero a intervenire in caso di problemi.
Il convoglio svoltò nel vialetto di entrata che portava al portone del castello mentre l'auto proseguì la strada. L'allarme era rientrato, tutto era andato bene. In quel momento però una BMW grigia, parcheggiata in uno degli spazi lungo viale XI Febbraio accese improvvisamente il motore e i fari ma non si mosse. Il blindato si diresse verso l'entrata dove una guardia giurata stava attendendo il gruppo. L'ingresso si aprì e i mezzi entrarono, poi si richiuse. A quel punto il veicolo in sosta spense i fari. 
(...)
Ambra arrivò a piedi dai giardini. Monica la stava aspettando davanti all'ingresso centrale del Castello Visconteo. Era molto elegante, in quel suo abito verde smeraldo che sottolineava le sue belle forme ed esaltava il colore biondo ramato dei capelli con piega appena fatta dal parrucchiere.
«Ehi, Ambra, ti sei vestita in modo un po' austero, t'invecchia un tantino ma comincio a riconoscerti. Magari la prossima volta che ci incontriamo mi racconti cosa ti è successo per lasciarti andare così. Vieni, entriamo, ho l'invito anche per te, del resto sono tra gli organizzatori».
Nella sala tutto era pronto per l'inaugurazione dopo la quale si sarebbe tenuto un aperitivo con buffet. 
«Ti presento Marco, il mio consigliere, il mio mentore, il mio tutto» disse Monica dirigendosi verso un uomo elegante, moro, fisico asciutto, piacente, seduto in seconda fila.
«Ciao, sono Ambra».
«Sì, so chi sei, Monica mi ha parlato di te. Ha detto che vi siete perse di vista da anni ma è veramente contenta di averti ritrovata» affermò l'uomo. «Sedetevi, credo stia per iniziare».
All'evento erano presenti circa una cinquantina di persone tra le quali il prefetto, il sindaco, l'assessore comunale alla cultura, il vescovo, il rettore dell'Università e, in via esclusiva, un giornalista del quotidiano cittadino insieme al suo fotografo e a un operatore. Il dottor Baldini, curatore della mostra, prese la parola e cominciò a illustrare l'iniziativa; si trattava di un evento molto importante per la città, sia per il numero di enti coinvolti che per la quantità degli oggetti esposti. Una mostra mai organizzata in precedenza, fortemente voluta dal Comune e attorno alla quale si sarebbero svolti anche altri momenti storico-culturali a corredo della stessa. Per questo si era deciso di spostare anche gli oggetti custoditi a Monza, proprio per enfatizzare il rapporto tra il capoluogo pavese e la corte longobarda che aveva dimorato in entrambe le città. Baldini stava ancora parlando quando, improvvisamente, alcune voci concitate interruppero il discorso: due uomini in divisa corsero all'interno della sala, si avvicinarono al curatore e gli parlarono a bassa voce, un brusio si sollevò tra i presenti; gli astanti cominciarono a guardarsi l'un l'altro sbigottiti cercando di capire cosa stesse succedendo poi, in quel preciso istante, qualcuno gridò: «L'hanno rubata! Hanno portato via la Corona di Teodolinda».
Seppur meno importante storicamente rispetto alla Corona Ferrea, il diadema votivo della regina si considerava uno degli esemplari più belli dell'oreficeria longobarda ed era di inestimabile valore. E ora era scomparso.

Claudia Celé

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